Letture
Berthe Marie Pauline Morisot
L’anno che si è appena concluso era stato anche l’anno internazionalmente dedicato all’Impressionismo: era il 15 aprile del 1874 quando trenta giovani pittori rifiutati dal Salon ufficiale esposero sessantatré opere nello studio del fotografo Felix Nadar in Boulevard des Capucines 35. Nove di queste opere erano della pittrice Berthe Marie Pauline Morisot. Quell’esposizione viene indicata come la data ufficiale di nascita di questo movimento: il termine impressionismo era stato usato da un critico con intento denigratorio, e solo a partire dal 1877 il gruppo decise di adottarlo per indicare la propria appartenenza. Personalmente ho celebrato a mio modo questa ricorrenza soprattutto studiando: ho analizzato principalmente due artisti, Camille Pissarro e Alfred Sisley. |
Il primo viene spesso considerato il padre del movimento, non a torto: partecipò a tutte le mostre storiche del gruppo ed ebbe un ruolo di coordinamento attivo, fu quasi l’anima del gruppo stesso. Il secondo fu definito poeta dell'Impressionismo e questa formula venne utilizzata anche nell’esposizione tenutasi al Palazzo dei Diamanti di Ferrara nel 2002, la sola allestita in Italia espressamente intorno all’opera di Alfred Sisley. Il primo ha avuto anche la fortuna di vedere realizzato dal regista David Bickerstaff un film sulla sua opera: Pissarro - Il padre dell'Impressionismo. Proprio nella circostanza delle celebrazioni legate alla ricorrenza questo film è uscito, a novembre 2024, anche in qualche sala italiana.
L’impressionismo è senz’altro il movimento artistico più conosciuto e più valorizzato, mediante mostre, di tutta la storia dell’arte: eppure questa messa in mostra corre il rischio di contribuire poco a una reale conoscenza della ricerca di questo gruppo di artisti.
Il terzo di questi pittori che continuo a studiare ormai da anni è Paul Cézanne: qui il discorso diventa ancora più complesso e insidioso, giacché egli è ormai riconosciuto come uno dei fondatori dell’arte contemporanea, a cui l’etichetta di impressionista sta ben stretta.
Berthe Marie Pauline Morisot nacque a Bourges nel 1841 e fu l’unica donna a partecipare a quella storica esposizione. La sua figura è stata, a ragione, celebrata da due mostre contemporanee, a Genova e a Torino, che addirittura corrono il rischio di sovrapporsi inutilmente: quella di Genova si è aperta il 12 ottobre 2024 e chiuderà il 23 febbraio 2025, mentre quella di Torino, aperta dal 16 ottobre, si chiuderà il 9 marzo 2025. Non posso che raccomandare la visita di almeno una delle mostre. Trovo peraltro discutibile che la logica della libera concorrenza debba imporsi anche nel mercato dell’arte e così ero perplesso anche sull’opportunità di scrivere questo articolo; celebrare con due mostre contemporaneamente questa figura è solo un modo per lavare la coscienza maschile che ha oppresso la donna perfino nel campo dell’arte? Scegliere di fare una recensione di una mostra significa sostenere già implicitamente che una sia organizzata meglio dell’altra?
Se leggiamo e confrontiamo le presentazioni istituzionali delle due mostre non troveremo motivi decisivi: quella di Genova è avviata dal Museo d’Orsay di Parigi insieme alla mostra di Nizza Berthe Morisot. Escales impressionistes ed è curata da Marianne Mathieu, tra le più rinomate esperte dell’opera di Berthe Morisot; quella di Torino si avvale del sostegno del Musée Marmottan Monet di Parigi, istituzione che vanta la più grande raccolta di opere dell’artista, ed è curata da Maria Teresa Benedetti e Giulia Perin, sponsorizzata da BPER Banca e dal Gruppo Cultura 24 ORE. Anche i numeri non consentono di optare con sicurezza per l’una o per l’altra: a Genova abbiamo 86 opere, tra dipinti, acqueforti, acquerelli e pastelli, a Torino 50 opere, con egualmente dipinti, disegni e incisioni, opere forse più celebri e già viste.
A questo punto non mi resta che invitare il lettore a visitare almeno una delle due mostre, in base alle sue possibilità, e spero di non offendere nessuna istituzione culturale se, per ragioni di economia, recensisco solo una delle due esposizioni.
1874-1894: le opere in mostra sono tutte racchiuse in questo breve lasso temporale e forse è bene iniziare a riflettere proprio da questo dato.
Nel 1868 Berthe era al Louvre con la sorella Edma, entrambe aspiranti pittrici, e accadde uno di quegli incontri predestinati: le due ragazze, intente a copiare Lo scambio di Principesse di Rubens, incrociarono Fantin-Latour, che era amico intimo della sorella, ed Édouard Manet. Tra i due nacque subito una complicità nutrita da stima, amicizia e da un certo sentimento, soprattutto Manet rimase letteralmente folgorato da quella “ragazza riservata e che parlava a voce bassa, sottile come un giunco, occhi neri e profondi, che amava vestirsi di nero e all'ultima moda e leggere romanzi in voga”. Manet era però un uomo sposato: sebbene la loro relazione abbia dato luogo a molti pettegolezzi, è quasi certo che questa vicenda amorosa fu filtrata e sublimata dall'arte, tanto che la Morisot divenne la modella d'elezione del Manet che, in pochi anni, la ritrasse in ben undici tele. Infine, proprio nel 1874 Berthe Morisot sposò Eugène Manet, il fratello del pittore. Già nell’anno precedente era entrata a far parte del nascente movimento impressionista.
Berthe finì col diventare una delle personalità di spicco del gruppo impressionista: alla morte del marito nel 1892 la loro casa divenne un luogo di ritrovo per musicisti, pittori e letterati, tra i quali spiccano Stéphane Mallarmé e Émile Zola. Berthe non sopravvisse a lungo al marito: si ammalò nel febbraio del 1895 e morì, avendo appena fatto in tempo ad affidare la figlia Julie proprio a Mallarmé, per una polmonite fulminante, a soli cinquantaquattro anni. Fu sepolta nella tomba della famiglia Manet, nel cimitero di Passy: la sua lapide afferma solo Berthe Morisot, vedova di Eugène Manet, nemmeno un accenno alla sua carriera di artista; del resto, anche nel certificato di morte compare la dicitura “senza professione". Nel primo anniversario della sua scomparsa tuttavia Paul Durand-Ruel, il mercante d’arte che fu il primo a sostenere gli impressionisti, predispose una retrospettiva con oltre quattrocento opere.
Torniamo alla mostra: nelle prime sale appare già I lillà di Marecourt, opera sempre del fatidico 1874, che ci viene presentata come il vero inizio della ricerca impressionista della pittrice. Se guardo con attenzione questa tela riesco a scorgere prima di tutto il desiderio innato di maternità, un universo esclusivamente femminile, e a intravedere i temi ricorrenti della sua opera – ma i toni sono ancora scuri, legati alla tradizione, e la modalità del dipingere mi sembra semplicemente quella del Manet di Le Déjeuner sur l'herbe.
Ma già nella sala seguente incontro La spiaggia di Nizza del 1882, un dipinto della maturità, luminoso e ardito nell’inquadratura: la spiaggia perduta nello sfondo, appena evocata da delicate pennellate azzurre, subito contenute nel verde dei giardini; in primo piano, al centro del quadro, una bambina inginocchiata a terra forse sta giocando, appena a destra si intravede la figura di spalle della madre – entrambe le figure sono posate, starei per dire avvolte da una sabbia di colore grigio perla, protette da due sedie smaltate di verde come il giardino alle spalle, e quella lucentezza di perla si estende fino ai palazzi in fondo – è una visione vibrante, le pennellate sono decise e si stagliano sulla tela lasciando però ancora zone vuote, una visione delicata nei toni e colma di armonia. Nel 1878 era già l’adorata e unica figlia Julie: questo evento riempì di gioia il suo animo e per dedicarsi alla piccola – come colma di tenerezza questo suo commento: “una Manet fino alla punta delle dita, e assomiglia già ai suoi zii” – si risolse momentaneamente a rinunciare alla propria vita sociale e, soprattutto, all'amata attività pittorica. Per inevitabile analogia mi viene alla mente Le Berceau, un quadro del 1872, conservato al museo d'Orsay di Parigi: Berthe lo aveva esposto proprio nella mostra del 1874, attirandosi persino le critiche del suo vecchio maestro, il pittore Joseph Guichard, un ex allievo di Ingres poi convertitosi alla maniera romantica di Eugène Delacroix. Ma in questa culla allora giaceva addormentata solo la figlia dell’amata sorella Edma, la piccola Blanche, e le sue delicate fattezze paiono “sbocciare come un fiore prezioso”, così nota acutamente il critico Giorgio Cricco. Purtroppo questo quadro non è in mostra, chissà se il visitatore di Torino sarà più fortunato.
Forse nel cuore di una donna la vocazione di madre e quella di artista hanno la medesima forza, ma non sempre possono liberamente convivere.
Del 1883 è La favola dove madre e figlia si guardano direttamente: la madre ha appena posato un canestro di biancheria e sta narrando una fiaba alla figlia che la ascolta incantata. La madre è seduta su una panchina verde, la figlioletta su uno sgabellino, al centro del giardino – ma questo giardino tutto intorno è appena suggerito da delicati tocchi di pennello, soffuso in un’atmosfera di sogno.
Vorrei davvero prendermi tutto il tempo necessario per accompagnare il mio lettore e mostrargli a uno a uno tutti i quadri di Berthe, ciascuno merita uno sguardo attento e tenero; tuttavia la mostra è corredata da didascalie precise e accorte e so di lasciare il visitatore in buone mani. Per esempio esse sottolineano come già i primi critici delle sue opere ne evidenziassero la pennellata libera e ben evidente, nonché l’aspetto volutamente incompiuto. Spesso l’artista lascia il supporto non dipinto: segno di assoluta modernità, ella non cerca di nascondere la tela ma la integra nella composizione stessa e sfrutta la tinta del supporto come un colore tra gli altri. Nessun impressionista arrivò a questo, forse solo l’estremo Monet. Si potrebbe dire che ella lascia evolvere liberamente la sua opera da sola nella germinazione del colore e sa, con determinazione, decidere l’istante in cui è finita, senza preoccuparsi di nessuna regola. Ma se sa essere così assolutamente moderna, ella è sempre attenta alla tradizione francese e, con acume critico, un’altra didascalia nota come nessuno, dopo la lezione dell’indimenticabile Fragonard, sia mai riuscito a servirsi di tonalità così luminose con altrettanta sagacia.
Entro ora nella grande sala centrale che è un po' il cuore dell’esposizione: essa presenta una serie di ritratti di ragazze, quello che più mi attrae è il mandolino del 1889 – le didascalie evocano il riferimento a Proust, a À l'ombre des jeunes filles en fleurs: si afferma così questo topos interpretativo, già di moda allora, che proponeva nella pittrice colei che seppe cogliere tutta la grazia femminile. Mi sembra ancora un giudizio riduttivo, uno scorgere nella ricerca di Berthe solo il punto di vista maschile, che si compiace di veder rappresentata la donna in funzione del desiderio maschile. E più guardo queste fanciulle in fiore più le immagini mi sembrano prive di ogni spessore psicologico, di ogni caratterizzazione: è un tipo ideale che la Morisot sta cercando di cogliere – forse la figlia, forse se stessa ancora ragazza?
Più avanti mi imbatto dello splendido Giovane donna che si rimette un pattino del 1880, che mette in fuga ogni mia perplessità: una macchia nera e un ocra così tenero da parere oro, poi tutto il quadro consiste in un’armonia di grigi che solo Fragonard avrebbe saputo ricreare, nella quale prevale un’assoluta impressione di immediatezza e di spontaneità – poi tutta la scena, la cosiddetta ambientazione, sta semplicemente nella potenzialità di quegli accordi di colore di suggerire un bosco invernale, magari una pista di pattinaggio, ma i tratti sono quelli meravigliosi del non finito, della tela deliberatamente non dipinta. Qui mi viene in mente il giudizio di Gustave Geoffrey, dato già nel 1881, a prova che la Morisot, malgrado le difficoltà incontrate poiché molti ritenevano disdicevole per una donna la professione di pittrice e sicuramente anche la sua ricerca risentì di questi pregiudizi, che quasi le impedirono di dipingere all'aperto o in luoghi pubblici, ebbe comunque i suoi estimatori: “Nessuno rappresenta l’impressionismo con un talento più raffinato e con maggiore autorità”.
La mostra presenta anche una sezione dedicata all’attività della pittrice nel campo dell’incisione, e qui mi trovo di fronte al sublime Ritratto di Berthe Morisot e sua figlia datato 1885, un quadro davvero unico per la sua potenza espressiva: la tela è per la gran parte non dipinta, bastano solo alcuni tratti di bianco e blu a suggerire il profilo della figlia, mentre la madre è di fronte – non è più la ragazza che amava vestirsi di nero prediletta dal pittore Manet, è una madre fiera, una donna sulla quale la vita ha lasciato molte cicatrici, ha la stessa potenza espressiva dell’Urlo di Munch, la cui prima versione sarà del 1893 – il volto di Berhe, ancora stretto in un colletto nero, reso con pochi tratti essenziali di bianco e ocra, emerge dalla tela grezza, che è oltre ogni colore, come una assoluta visione.
È un’opera troppo avanti per quei tempi.
Siamo ormai al termine delle sale: ci sono anche quadri della figlia ed è bello vederli accanto a quelli della madre. Ma desidero ricordare ancora due piccole tele: la prima del 1890 si intitola semplicemente Sul melo e presenta ancora una ragazza seduta sopra un albero, mentre un’altra donna, forse la madre, la guarda dal basso, ma i volti delle due donne non sono dipinti, quella della ragazza è appena suggerito nel profilo, niente di più – sono di nuovo Berthe e Julie? Sono ancora loro, filtrate dalla memoria, o sono più autenticamente le essenze di una figlia e di una madre?
L’altra è addirittura datata 1884 Sole calante sul Bois de Boulogne: un grande albero nero, spoglio, occupa la parte centrale della tela, a sinistra lo sfondo di un lago in cui si specchia un indescrivibile tramonto, un rossore commovente e tremendo, a destra la sagoma appena accennata di una barca, avvolta in un luce grigia di perla – la stesura però ha poco della grazia impressionista, pennellate spesse e irregolari, che fanno pensare piuttosto a Cézanne e ancora oltre, alla pittura informale. Se questo fosse davvero il testamento di Berthe, la sua estrema visione? Mi riempie di stupore.
Mentre esco da Palazzo Ducale, mi torna alla mente il preciso giudizio di George Augustus Moore (1852–1933), grande amico di William Butler Yeats: Moore fu scrittore, poeta, drammaturgo e critico d'arte irlandese e Manet gli fece anche un ritratto. “Soltanto una donna ebbe la capacità di creare uno stile, e quella donna fu Berthe Morisot. I suoi quadri sono le uniche opere che non potrebbero essere distrutte senza determinare un vuoto, uno iato nella storia dell’arte”, scrisse il critico d’arte irlandese. E non posso fare a meno di fare questa riflessione: forse se Édouard Manet non avesse provato un sincero affetto per Berthe, questa promettente fanciulla non sarebbe mai riuscita a realizzare il sogno di diventare pittrice. Chissà quante altre ragazze non ebbero le stesse opportunità – e oggi, malgrado tutti i progressi fatti, siamo ancora lontani da una condizione di effettiva parità. Sarebbe stata una vera perdita per l’arte, perché l’impressionismo fu davvero un movimento corale, e ciascun pittore, ciascuna pittrice aveva una personale visione del dipingere da lasciare come eredità di ricerca e di riflessione all’umanità.
(Sergio Gandini)
L’impressionismo è senz’altro il movimento artistico più conosciuto e più valorizzato, mediante mostre, di tutta la storia dell’arte: eppure questa messa in mostra corre il rischio di contribuire poco a una reale conoscenza della ricerca di questo gruppo di artisti.
Il terzo di questi pittori che continuo a studiare ormai da anni è Paul Cézanne: qui il discorso diventa ancora più complesso e insidioso, giacché egli è ormai riconosciuto come uno dei fondatori dell’arte contemporanea, a cui l’etichetta di impressionista sta ben stretta.
Berthe Marie Pauline Morisot nacque a Bourges nel 1841 e fu l’unica donna a partecipare a quella storica esposizione. La sua figura è stata, a ragione, celebrata da due mostre contemporanee, a Genova e a Torino, che addirittura corrono il rischio di sovrapporsi inutilmente: quella di Genova si è aperta il 12 ottobre 2024 e chiuderà il 23 febbraio 2025, mentre quella di Torino, aperta dal 16 ottobre, si chiuderà il 9 marzo 2025. Non posso che raccomandare la visita di almeno una delle mostre. Trovo peraltro discutibile che la logica della libera concorrenza debba imporsi anche nel mercato dell’arte e così ero perplesso anche sull’opportunità di scrivere questo articolo; celebrare con due mostre contemporaneamente questa figura è solo un modo per lavare la coscienza maschile che ha oppresso la donna perfino nel campo dell’arte? Scegliere di fare una recensione di una mostra significa sostenere già implicitamente che una sia organizzata meglio dell’altra?
Se leggiamo e confrontiamo le presentazioni istituzionali delle due mostre non troveremo motivi decisivi: quella di Genova è avviata dal Museo d’Orsay di Parigi insieme alla mostra di Nizza Berthe Morisot. Escales impressionistes ed è curata da Marianne Mathieu, tra le più rinomate esperte dell’opera di Berthe Morisot; quella di Torino si avvale del sostegno del Musée Marmottan Monet di Parigi, istituzione che vanta la più grande raccolta di opere dell’artista, ed è curata da Maria Teresa Benedetti e Giulia Perin, sponsorizzata da BPER Banca e dal Gruppo Cultura 24 ORE. Anche i numeri non consentono di optare con sicurezza per l’una o per l’altra: a Genova abbiamo 86 opere, tra dipinti, acqueforti, acquerelli e pastelli, a Torino 50 opere, con egualmente dipinti, disegni e incisioni, opere forse più celebri e già viste.
A questo punto non mi resta che invitare il lettore a visitare almeno una delle due mostre, in base alle sue possibilità, e spero di non offendere nessuna istituzione culturale se, per ragioni di economia, recensisco solo una delle due esposizioni.
1874-1894: le opere in mostra sono tutte racchiuse in questo breve lasso temporale e forse è bene iniziare a riflettere proprio da questo dato.
Nel 1868 Berthe era al Louvre con la sorella Edma, entrambe aspiranti pittrici, e accadde uno di quegli incontri predestinati: le due ragazze, intente a copiare Lo scambio di Principesse di Rubens, incrociarono Fantin-Latour, che era amico intimo della sorella, ed Édouard Manet. Tra i due nacque subito una complicità nutrita da stima, amicizia e da un certo sentimento, soprattutto Manet rimase letteralmente folgorato da quella “ragazza riservata e che parlava a voce bassa, sottile come un giunco, occhi neri e profondi, che amava vestirsi di nero e all'ultima moda e leggere romanzi in voga”. Manet era però un uomo sposato: sebbene la loro relazione abbia dato luogo a molti pettegolezzi, è quasi certo che questa vicenda amorosa fu filtrata e sublimata dall'arte, tanto che la Morisot divenne la modella d'elezione del Manet che, in pochi anni, la ritrasse in ben undici tele. Infine, proprio nel 1874 Berthe Morisot sposò Eugène Manet, il fratello del pittore. Già nell’anno precedente era entrata a far parte del nascente movimento impressionista.
Berthe finì col diventare una delle personalità di spicco del gruppo impressionista: alla morte del marito nel 1892 la loro casa divenne un luogo di ritrovo per musicisti, pittori e letterati, tra i quali spiccano Stéphane Mallarmé e Émile Zola. Berthe non sopravvisse a lungo al marito: si ammalò nel febbraio del 1895 e morì, avendo appena fatto in tempo ad affidare la figlia Julie proprio a Mallarmé, per una polmonite fulminante, a soli cinquantaquattro anni. Fu sepolta nella tomba della famiglia Manet, nel cimitero di Passy: la sua lapide afferma solo Berthe Morisot, vedova di Eugène Manet, nemmeno un accenno alla sua carriera di artista; del resto, anche nel certificato di morte compare la dicitura “senza professione". Nel primo anniversario della sua scomparsa tuttavia Paul Durand-Ruel, il mercante d’arte che fu il primo a sostenere gli impressionisti, predispose una retrospettiva con oltre quattrocento opere.
Torniamo alla mostra: nelle prime sale appare già I lillà di Marecourt, opera sempre del fatidico 1874, che ci viene presentata come il vero inizio della ricerca impressionista della pittrice. Se guardo con attenzione questa tela riesco a scorgere prima di tutto il desiderio innato di maternità, un universo esclusivamente femminile, e a intravedere i temi ricorrenti della sua opera – ma i toni sono ancora scuri, legati alla tradizione, e la modalità del dipingere mi sembra semplicemente quella del Manet di Le Déjeuner sur l'herbe.
Ma già nella sala seguente incontro La spiaggia di Nizza del 1882, un dipinto della maturità, luminoso e ardito nell’inquadratura: la spiaggia perduta nello sfondo, appena evocata da delicate pennellate azzurre, subito contenute nel verde dei giardini; in primo piano, al centro del quadro, una bambina inginocchiata a terra forse sta giocando, appena a destra si intravede la figura di spalle della madre – entrambe le figure sono posate, starei per dire avvolte da una sabbia di colore grigio perla, protette da due sedie smaltate di verde come il giardino alle spalle, e quella lucentezza di perla si estende fino ai palazzi in fondo – è una visione vibrante, le pennellate sono decise e si stagliano sulla tela lasciando però ancora zone vuote, una visione delicata nei toni e colma di armonia. Nel 1878 era già l’adorata e unica figlia Julie: questo evento riempì di gioia il suo animo e per dedicarsi alla piccola – come colma di tenerezza questo suo commento: “una Manet fino alla punta delle dita, e assomiglia già ai suoi zii” – si risolse momentaneamente a rinunciare alla propria vita sociale e, soprattutto, all'amata attività pittorica. Per inevitabile analogia mi viene alla mente Le Berceau, un quadro del 1872, conservato al museo d'Orsay di Parigi: Berthe lo aveva esposto proprio nella mostra del 1874, attirandosi persino le critiche del suo vecchio maestro, il pittore Joseph Guichard, un ex allievo di Ingres poi convertitosi alla maniera romantica di Eugène Delacroix. Ma in questa culla allora giaceva addormentata solo la figlia dell’amata sorella Edma, la piccola Blanche, e le sue delicate fattezze paiono “sbocciare come un fiore prezioso”, così nota acutamente il critico Giorgio Cricco. Purtroppo questo quadro non è in mostra, chissà se il visitatore di Torino sarà più fortunato.
Forse nel cuore di una donna la vocazione di madre e quella di artista hanno la medesima forza, ma non sempre possono liberamente convivere.
Del 1883 è La favola dove madre e figlia si guardano direttamente: la madre ha appena posato un canestro di biancheria e sta narrando una fiaba alla figlia che la ascolta incantata. La madre è seduta su una panchina verde, la figlioletta su uno sgabellino, al centro del giardino – ma questo giardino tutto intorno è appena suggerito da delicati tocchi di pennello, soffuso in un’atmosfera di sogno.
Vorrei davvero prendermi tutto il tempo necessario per accompagnare il mio lettore e mostrargli a uno a uno tutti i quadri di Berthe, ciascuno merita uno sguardo attento e tenero; tuttavia la mostra è corredata da didascalie precise e accorte e so di lasciare il visitatore in buone mani. Per esempio esse sottolineano come già i primi critici delle sue opere ne evidenziassero la pennellata libera e ben evidente, nonché l’aspetto volutamente incompiuto. Spesso l’artista lascia il supporto non dipinto: segno di assoluta modernità, ella non cerca di nascondere la tela ma la integra nella composizione stessa e sfrutta la tinta del supporto come un colore tra gli altri. Nessun impressionista arrivò a questo, forse solo l’estremo Monet. Si potrebbe dire che ella lascia evolvere liberamente la sua opera da sola nella germinazione del colore e sa, con determinazione, decidere l’istante in cui è finita, senza preoccuparsi di nessuna regola. Ma se sa essere così assolutamente moderna, ella è sempre attenta alla tradizione francese e, con acume critico, un’altra didascalia nota come nessuno, dopo la lezione dell’indimenticabile Fragonard, sia mai riuscito a servirsi di tonalità così luminose con altrettanta sagacia.
Entro ora nella grande sala centrale che è un po' il cuore dell’esposizione: essa presenta una serie di ritratti di ragazze, quello che più mi attrae è il mandolino del 1889 – le didascalie evocano il riferimento a Proust, a À l'ombre des jeunes filles en fleurs: si afferma così questo topos interpretativo, già di moda allora, che proponeva nella pittrice colei che seppe cogliere tutta la grazia femminile. Mi sembra ancora un giudizio riduttivo, uno scorgere nella ricerca di Berthe solo il punto di vista maschile, che si compiace di veder rappresentata la donna in funzione del desiderio maschile. E più guardo queste fanciulle in fiore più le immagini mi sembrano prive di ogni spessore psicologico, di ogni caratterizzazione: è un tipo ideale che la Morisot sta cercando di cogliere – forse la figlia, forse se stessa ancora ragazza?
Più avanti mi imbatto dello splendido Giovane donna che si rimette un pattino del 1880, che mette in fuga ogni mia perplessità: una macchia nera e un ocra così tenero da parere oro, poi tutto il quadro consiste in un’armonia di grigi che solo Fragonard avrebbe saputo ricreare, nella quale prevale un’assoluta impressione di immediatezza e di spontaneità – poi tutta la scena, la cosiddetta ambientazione, sta semplicemente nella potenzialità di quegli accordi di colore di suggerire un bosco invernale, magari una pista di pattinaggio, ma i tratti sono quelli meravigliosi del non finito, della tela deliberatamente non dipinta. Qui mi viene in mente il giudizio di Gustave Geoffrey, dato già nel 1881, a prova che la Morisot, malgrado le difficoltà incontrate poiché molti ritenevano disdicevole per una donna la professione di pittrice e sicuramente anche la sua ricerca risentì di questi pregiudizi, che quasi le impedirono di dipingere all'aperto o in luoghi pubblici, ebbe comunque i suoi estimatori: “Nessuno rappresenta l’impressionismo con un talento più raffinato e con maggiore autorità”.
La mostra presenta anche una sezione dedicata all’attività della pittrice nel campo dell’incisione, e qui mi trovo di fronte al sublime Ritratto di Berthe Morisot e sua figlia datato 1885, un quadro davvero unico per la sua potenza espressiva: la tela è per la gran parte non dipinta, bastano solo alcuni tratti di bianco e blu a suggerire il profilo della figlia, mentre la madre è di fronte – non è più la ragazza che amava vestirsi di nero prediletta dal pittore Manet, è una madre fiera, una donna sulla quale la vita ha lasciato molte cicatrici, ha la stessa potenza espressiva dell’Urlo di Munch, la cui prima versione sarà del 1893 – il volto di Berhe, ancora stretto in un colletto nero, reso con pochi tratti essenziali di bianco e ocra, emerge dalla tela grezza, che è oltre ogni colore, come una assoluta visione.
È un’opera troppo avanti per quei tempi.
Siamo ormai al termine delle sale: ci sono anche quadri della figlia ed è bello vederli accanto a quelli della madre. Ma desidero ricordare ancora due piccole tele: la prima del 1890 si intitola semplicemente Sul melo e presenta ancora una ragazza seduta sopra un albero, mentre un’altra donna, forse la madre, la guarda dal basso, ma i volti delle due donne non sono dipinti, quella della ragazza è appena suggerito nel profilo, niente di più – sono di nuovo Berthe e Julie? Sono ancora loro, filtrate dalla memoria, o sono più autenticamente le essenze di una figlia e di una madre?
L’altra è addirittura datata 1884 Sole calante sul Bois de Boulogne: un grande albero nero, spoglio, occupa la parte centrale della tela, a sinistra lo sfondo di un lago in cui si specchia un indescrivibile tramonto, un rossore commovente e tremendo, a destra la sagoma appena accennata di una barca, avvolta in un luce grigia di perla – la stesura però ha poco della grazia impressionista, pennellate spesse e irregolari, che fanno pensare piuttosto a Cézanne e ancora oltre, alla pittura informale. Se questo fosse davvero il testamento di Berthe, la sua estrema visione? Mi riempie di stupore.
Mentre esco da Palazzo Ducale, mi torna alla mente il preciso giudizio di George Augustus Moore (1852–1933), grande amico di William Butler Yeats: Moore fu scrittore, poeta, drammaturgo e critico d'arte irlandese e Manet gli fece anche un ritratto. “Soltanto una donna ebbe la capacità di creare uno stile, e quella donna fu Berthe Morisot. I suoi quadri sono le uniche opere che non potrebbero essere distrutte senza determinare un vuoto, uno iato nella storia dell’arte”, scrisse il critico d’arte irlandese. E non posso fare a meno di fare questa riflessione: forse se Édouard Manet non avesse provato un sincero affetto per Berthe, questa promettente fanciulla non sarebbe mai riuscita a realizzare il sogno di diventare pittrice. Chissà quante altre ragazze non ebbero le stesse opportunità – e oggi, malgrado tutti i progressi fatti, siamo ancora lontani da una condizione di effettiva parità. Sarebbe stata una vera perdita per l’arte, perché l’impressionismo fu davvero un movimento corale, e ciascun pittore, ciascuna pittrice aveva una personale visione del dipingere da lasciare come eredità di ricerca e di riflessione all’umanità.
(Sergio Gandini)