Letture
Narciso di Caravaggio
Vorrei brevemente segnalare una nuova occasione d’arte presente questa volta in provincia: sabato 26 ottobre 2024, a Merate, è stata inaugurata la mostra "Caravaggio. Il Narciso di Palazzo Barberini. La grande arte in Brianza", un evento culturale realizzato dalla Fondazione Costruiamo il Futuro in collaborazione con diversi partner istituzionali. Il celeberrimo dipinto Narciso di Michelangelo Merisi è arrivato temporaneamente da Palazzo Barberini di Roma per essere esposto a Villa Confalonieri fino al 29 novembre 2024, offrendo al nostro territorio un’occasione unica per ammirare questa straordinaria opera. L’avevo già contemplata a Roma e, in seguito, durante una mostra a Palazzo Reale a Milano, però non ho resistito a questa occasione di rivederla, come si ritrova volentieri un vecchio amico che si scopra per caso a passare nei pressi del luogo dove abitiamo; così mi sono recato a Villa Confalonieri la domenica stessa. Con mia sorpresa, e malgrado mi fossi prenotato, l’iniziativa aveva davvero attirato un numero insolito di persone: ho dovuto fare una fila di più di un’ora per restare appena cinque minuti davanti a questo quadro.
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Mentre aspettavo in fila ho svolto diverse considerazioni: forse davvero esiste oggi un bisogno d’arte, come un bisogno di spiritualità, che non dovrebbero essere trascurati. Inoltre, come ho già avuto modo di sottolineare all’interno delle letture di Meditatio, i grandi “imperdibili” musei e le mostre d’arte troppo sponsorizzate mi sembrano sempre più iniziative di marketing piuttosto che occasioni per avvicinare all’arte: al contrario vedere una sola opera mi pare più sano e costruttivo. Constatare che tante persone erano disposte a sopportare una lunga fila mi ha fatto piacere e mi convince che questa è una strada giusta: portare al pubblico anche una sola opera di indubbio valore e mettere le persone di fronte al quadro in modo da favorire una visione e una riflessione il più possibile consapevole è una consuetudine che dovrebbe trovare una maggiore diffusione.
Da anni questa scelta viene fatta, per esempio a Palazzo Marino, a Milano, in occasione delle festività natalizie: il limite di iniziative di tal genere è sempre l’eccessivo afflusso di persone e il prolungarsi della coda. È necessario puntare sul valore educativo di esposizioni come questa, se sono strutturate in modo valido: il Narciso di Caravaggio è posto in una sala perfettamente buia, nulla intorno può distogliere dalla concentrazione sul quadro, anche il fatto di restare in piedi, piuttosto che accasciati su una poltrona come si vede ormai nei musei, può servire a stabilire un contatto diretto con l’opera, e a favorire l’inizio di una osservazione meditata sul quadro stesso.
Le persone che sono entrate con me nella sala sono rimaste davvero impressionate da questo allestimento essenziale, hanno ovviamente fotografato il dipinto, poi alcune di esse hanno espresso una sorta di disagio: avrebbe voluto essere guidate alla comprensione del dipinto. Non è semplice farlo: il mito di Narciso evoca, come ogni mito, immagini sepolte nel nostro inconscio, che la cultura nella quale si muove la mentalità occidentale e consumistica ha lavorato con ostinazione a rimuovere sempre di più.
È significativo anche che persino gli artisti non hanno lavorato che raramente su questo mito. Le persone presenti nella sala sono accompagnate da una guida: si tratta in questo caso di una giovane stagista che sottolinea come questo quadro sia una sorta di unicum nella storia dell’arte. In effetti è quasi così: il cristianesimo vede il sacro negli eventi legati alla vita di Gesù e questa rappresentazione tradizionale del mondo viene ereditata dal Rinascimento. Nell’antichità classica il mito di Narciso fu narrato nelle Metamorfosi di Ovidio e questa narrazione originò diverse opere d’arte: la testimonianza più bella che si è conservata è quella presente nell’affresco Narciso alla fonte di Pompei (I secolo d.C.), proveniente dalla Casa di Lucrezio Frontone, ci si trova davanti al protagonista che con un bastone da caccia e una corona d’alloro sul capo si specchia nella fonte sottostante. L’immagine però si trova in basso a destra, appare marginale rispetto all’impianto della scena. Esiste anche un’altra immagine, decisamente poco nota: è contenuta nel manoscritto del Roman de la Rose, poema allegorico scritto da Guillaume de Lorris intorno al 1230 e completato all’incirca quarant’anni dopo da Jean de Meun. Qui appare anche Eco, la ninfa che amava Narciso senza che il suo amore fosse corrisposto: nel mito di Ovidio la ninfa si consuma letteralmente per amore di Narciso finché di lei non rimane che la voce, appunto un’eco. Nel Roman de la Rose però, che ha un intento allegorico, prevale una mentalità punitiva e sottilmente misogina: Eco maledice Narciso, tanto da implorare gli dei affinché possa sperimentare la stessa sofferenza d’amore da lei provata. Come pensare psicologicamente che una donna possa maledire l’uomo che ama?
Per inciso: nella narrazione di Ovidio Narciso non si getta affatto nell’acqua per abbracciare la sua immagine trovando così la morte per annegamento, ma si consuma anche lui, deperisce perdendo la bellezza stessa del suo volto, come un moderno malato di anoressia. Nel mito originale convivono figure estremamente ambivalenti e angoscianti, tipiche dell’inconscio, e infatti anche il mito di Narciso, come quello di Edipo, è stato riletto e trasfigurato dalla psicoanalisi.
Nel 1914 Sigmund Freud pubblica sui quaderni di psicoanalisi il saggio Zur Einführung des Narzißmus ed elabora lo stadio narcisistico, derivando questo termine appunto dal mito di Narciso, come una fase evolutiva della libido sessuale, a cavallo tra la fase sadico-anale e quella più propriamente oggettuale. Ma l’interesse per questo mito era nato in precedenza e già nel 1898, Havelock Ellis, sessuologo inglese, aveva coniato il neologismo «narcissus-like» in riferimento all'eccessiva pratica della masturbazione, per cui una persona diventa il suo stesso oggetto sessuale, oppure nel 1911 Otto Rank aveva già pubblicato il primo documento propriamente psicoanalitico specificamente interessato al narcisismo, collegando però questa idea alla vanità e all'auto-ammirazione.
Ovviamente non posso presentare in questa sede una trattazione esauriente sul concetto di narcisismo che è poi stato affrontato e sviluppato in molteplici varianti non solo dalla psicoanalisi, ma è inserito a pieno titolo nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, uno dei sistemi nosografici per i disturbi mentali o psicopatologici più utilizzati da psichiatri, psicologi e medici di tutto il mondo: qui compare la patologia nominata disturbo narcisistico della personalità, che è la forma più grave di narcisismo, in quanto l’individuo affetto da essa sopravvaluta le sue capacità e mostra un bisogno patologico di ammirazione. In sintesi mi limito a dire questo: se intendiamo questo termine nel senso di amor proprio e autostima, dobbiamo ammettere che una certa dose di narcisismo è normale e necessaria a qualunque individuo e possiamo affermare che il narcisismo sano si colloca in una posizione intermedia lungo un continuum tra due estremi patologici; da una parte un narcisismo eccessivo, caratterizzato da un sé grandioso, sentimenti
di superiorità, arroganza, vanagloria, senso di onnipotenza e perfino certe forme di “sentimento oceanico”, dall’altra parte invece un deficit di narcisismo che genera sentimenti di inferiorità e impotenza, fino ad arrivare all’autismo e a forme paranoiche di regressione.
Riprendiamo a seguire le metamorfosi, questa volta, del mito di Narciso nella storia dell’arte. Agli albori del romanticismo il mito ritorna proprio in uno dei miei artisti prediletti, Turner: dipinge nel 1804 Narcissus and Echo, ma l’iconografia è tutta nuova, tipica di questo pittore. I personaggi appaiono in lontananza, immersi nella natura: è una visione di sogno, anche se i colori sono cupi e appare un lago che fa pensare a un paesaggio italiano, e insieme anche all’idillio di un amore impossibile, come nei poeti romantici.
Quasi cent’anni dopo, nel 1903 arriva la versione di John William Waterhouse, pittore britannico appartenente alla corrente preraffaellita, innamorato della mitologia classica. Questo dipinto è più noto: in questa versione, però, Eco appare consapevole di quello che sta per accadere a Narciso, dal momento che uno dei narcisi collocati sulla riva è caduto nello specchio d’acqua e questo dato può facilmente essere letto come un presagio della sventura imminente: in questo racconto l’immagine è piena di grazia ma ogni tensione inconscia sembra spenta. La psicoanalisi riaffiora invece in pompa magna nella versione del 1937di Salvador Dalì, intitolata le Metamorfosi di Narciso, il primo di una serie di dipinti deliberatamente realizzati dall’artista con il metodo “critico-paranoico”, fondato sull’associazione di elementi apparentemente senza senso e sulla capacità del cervello umano di collegare concetti che sembrano non avere correlazione: ma ormai la psicoanalisi stessa si è messa a dipingere.
Torno quindi al dipinto di Caravaggio.
A questo punto però non mi sento più di nascondere al lettore che la realtà è, come sempre, diversa da ciò che appare: solo nel 1916 questo dipinto è stato attribuito a Caravaggio dal grande critico d’arte Roberto Longhi. E in precedenza?
Erano state proposte varie attribuzioni a pittori quali lo Spadarino, Orazio Gentileschi e Niccolò Tornioli: in breve ne è nato un dibattito, e si sono sprecati fiumi di inchiostro a sostegno delle diverse tesi. Non desidero tediare il lettore con l’esame minuzioso di queste tesi, non sarebbe questa la sede e facilmente è possibile trovare tutta la documentazione sulla rete. Il problema, secondo me, è un altro: a tutta la cultura fa piacere avere un quadro di Caravaggio, riconosciuto unanimemente come uno dei più grandi pittori di tutti i tempi, da mostrare. Chi era, per esempio, lo Spadarino? Solo gli addetti ai lavori lo conoscono: era un ottimo pittore, ma la notorietà e le quotazioni dei critici non lo hanno privilegiato. L’arte ufficiale purtroppo vive di luoghi comuni, di parole d’ordine e di quotazioni - la verità forse non la sapremo mai.
Nel Museo Civico di Colle Val d’Elsa si trova un grande dipinto a olio su tela, di 200 x 303cm di Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino, che raffigura il Battesimo di Costantino; se si rammenta con attenzione il profilo di Narciso, quello del chierico sulla destra, che guarda verso Costantino prostrato per ricevere il sacramento, emerge una notevole rassomiglianza. Ovviamente questo riscontro non è sufficiente per farci decidere e i sostenitori della paternità di Caravaggio hanno altri argomenti a loro favore.
Torno così al dipinto di Narciso: le ipotesi più verosimili ne assegnano l’esecuzione all'incirca tra il 1597 e il 1599. Mi concedo però un’ultima digressione: c’era a Roma, a Palazzo Farnese un affresco, poi staccato, 267x143cm, del Domenichino, probabilmente databile intorno al 1604 che ritrae Narciso chino sull’acqua in una posizione abbastanza simile a quella del dipinto che ho davanti agli occhi, ma inserito in un’ampia e luminosa ambientazione paesistica.
Mi è chiaro, a parte alcuni elementi strettamente legati alla definizione di Narciso, quali la sua postura e la presenza del riflesso nell’acqua, che questo quadro rappresenta davvero qualcosa di unico: emana una potenza insolita di visione che concentra la tragica vicenda del personaggio in una silente sovrapposizione di immagini in primo piano, trafitte da un lampo di luce. Veramente il pittore, chiunque fosse, è stato benedetto da una visione: il paesaggio stesso è semplicemente negato in quanto tale, dal dipinto emerge solo la duplicità, costruita dalle due immagini del giovane, sovrapposte l’una all’altra quasi si trattasse di carta da gioco; nessuna concessione narrativa ma estrema rarefazione di linguaggio, ombra e luce, senso ed essenza. Come sarebbe possibile non pensare a un genio dell’immagine? Che cosa rivela questa visione?
Difficile trovare un altro quadro che conceda quasi nulla alla descrizione, così essenziale, in cui urli la medesima disperata solitudine. Perché noi sappiamo bene che quella è un’immagine, non è affatto reale, che il sogno di Narciso di congiungersi a quell’immagine è a priori impossibile – Narciso è condannato a un’assoluta solitudine. Conoscendo la psicoanalisi possiamo sentenziare che quella solitudine è il destino ineluttabile di chi non sa uscire da se stesso e costruire una relazione d’amore veramente oblativa.
Ma adesso dimentico per un istante la psicoanalisi e sento solo come pittore. Dove ho veduto la medesima assoluta solitudine?
Tornato a casa sono rimasto insieme a Merisi, o se preferite allo pseudo-Caravaggio, a lungo: per un pittore non esiste altro modo per comprendere un quadro che iniziare a disegnarlo, fondersi con la visione dell’artista. Ho fatto diverse prove, con tecniche differenti. Poi sono tornato anche a Villa Confalonieri: in un giorno feriale c’erano poche persone. Dopo aver disegnato il dipinto avevo acquisito una certa familiarità con l’immagine: per quanto il soggetto si rifletta nell’acqua, il riflesso risulta diverso dalla persona reale. Ho così notato la sapienza percettiva dell’artista e, allo stesso tempo, ho verificato che, nel riflesso, alcuni dettagli sono stati tralasciati o sfumati. Questo effetto è solo dovuto fedeltà descrittiva? Rimango incerto. Guardando la figura del giovane si rafforza un’idea che mi era nata durante le mie ripetute copie: l’immagine dipinta risulta lievemente deformata, come nel Cristo morto di Mantegna alla Pinacoteca di Brera. È vero che la deformazione è dovuta alla ricerca prospettica, eppure mi sembra troppo accentuata. Mi concentro, in questa seconda visita, soprattutto sul riflesso: ovviamente il pittore esperto rende perfettamente l’effetto acqua: l’immagine riflessa è più spenta di quella reale, alcuni dettagli cadono naturalmente, come se l’acqua neppure li registrasse. Ma è solo per questo? Più osservo, più si fa strada questa idea: nell’acqua c’è l’ombra del giovane. Il lato oscuro che appare nel doppio presente in questo ritratto. Molto prima del sapere esplicitato dalla psicoanalisi il creatore di questo dipinto ha fatto sì che nell’acqua apparisse il vero doppio del giovane. Ombra (secondo il concetto che questa espressione assume in Jung), doppio (e penso di nuovo a Rank): più osservo, più questo dipinto appare rivelatore e mi costringerebbe a un’analisi interminabile.
E solo allora ho iniziato a vedere. Dove avevo già visto quella assoluta solitudine e la deformazione esistenziale che si avverte nel dipinto?
Nell’urlo di Munch. La prima versione di quest’opera è stata dipinta nel 1893: se sono vere le ipotesi più accreditate sono passati quattrocento anni dal Narciso. In questa manciata di secoli si è consumata la tragedia della modernità. Narciso ancora cercava di fondersi con quella immagine, che non era altro che la sua anima: sperava di congiungersi nell’amore con l’altro da sé. È vero che era solo un’immagine riflessa ma la tensione che porta al bisogno di completezza, a ritrovare il nostro doppio era ancora viva. Frutto certo di un’illusione, ma viva. Per Munch l’anima semplicemente non esiste più – questa tremenda mancanza genera l’urlo, sfigura l’uomo stesso, che nel dipinto di Edvard si riduce a uno spettro. L’Urlo di Munch è la maschera di chi ha perduto tutto per sempre.
Tempo fa avevo letto un libro di Sgalambro dal titolo La morte del sole, uscito nel 1982. Nel 2004 è stato pubblicato La morte dell’anima di Vannini. Questo secolo appena terminato non fa che parlare di morte: nel suo saggio Vannini ricostruisce il processo attraverso il quale la modernità occidentale ha smarrito il valore effettivo dell’anima, perdendo il senso della sua eternità e della sua coincidenza con la divinità.
Narciso ancora sospirava di fronte all’immagine irraggiungibile, dalla quale l’acqua lo separava, poteva avere ancora, agli inizi della modernità, un vago ricordo, una nostalgia della propria anima perduta. Forse il Narciso dipinto nel seicento poteva ancora, nello specchiarsi, intravedere la sua ombra. Ma per coloro che, come noi, osservano il quadro di Munch e la devastazione presente nel pensiero contemporaneo l’uomo ha perso sia ombra che anima: interpretazioni diverse convivono in una polisemia di significati.
Senza più nemmeno questa vaga reminiscenza l’essere umano non può essere persona, ma soltanto maschera deforme. A questo punto non abbiamo che una Via da seguire: ritrovare il Divino, se speriamo di ritrovare l’anima perduta.
Dove cercarlo ancora, nella natura? Nella relazione con gli altri? Il Divino è già intimo a noi – ma non dobbiamo commettere lo stesso errore di Narciso di cercarlo nelle proiezioni della nostra mente. La meditazione può forse aiutarci in questa Via.
(Sergio Gandini)
Da anni questa scelta viene fatta, per esempio a Palazzo Marino, a Milano, in occasione delle festività natalizie: il limite di iniziative di tal genere è sempre l’eccessivo afflusso di persone e il prolungarsi della coda. È necessario puntare sul valore educativo di esposizioni come questa, se sono strutturate in modo valido: il Narciso di Caravaggio è posto in una sala perfettamente buia, nulla intorno può distogliere dalla concentrazione sul quadro, anche il fatto di restare in piedi, piuttosto che accasciati su una poltrona come si vede ormai nei musei, può servire a stabilire un contatto diretto con l’opera, e a favorire l’inizio di una osservazione meditata sul quadro stesso.
Le persone che sono entrate con me nella sala sono rimaste davvero impressionate da questo allestimento essenziale, hanno ovviamente fotografato il dipinto, poi alcune di esse hanno espresso una sorta di disagio: avrebbe voluto essere guidate alla comprensione del dipinto. Non è semplice farlo: il mito di Narciso evoca, come ogni mito, immagini sepolte nel nostro inconscio, che la cultura nella quale si muove la mentalità occidentale e consumistica ha lavorato con ostinazione a rimuovere sempre di più.
È significativo anche che persino gli artisti non hanno lavorato che raramente su questo mito. Le persone presenti nella sala sono accompagnate da una guida: si tratta in questo caso di una giovane stagista che sottolinea come questo quadro sia una sorta di unicum nella storia dell’arte. In effetti è quasi così: il cristianesimo vede il sacro negli eventi legati alla vita di Gesù e questa rappresentazione tradizionale del mondo viene ereditata dal Rinascimento. Nell’antichità classica il mito di Narciso fu narrato nelle Metamorfosi di Ovidio e questa narrazione originò diverse opere d’arte: la testimonianza più bella che si è conservata è quella presente nell’affresco Narciso alla fonte di Pompei (I secolo d.C.), proveniente dalla Casa di Lucrezio Frontone, ci si trova davanti al protagonista che con un bastone da caccia e una corona d’alloro sul capo si specchia nella fonte sottostante. L’immagine però si trova in basso a destra, appare marginale rispetto all’impianto della scena. Esiste anche un’altra immagine, decisamente poco nota: è contenuta nel manoscritto del Roman de la Rose, poema allegorico scritto da Guillaume de Lorris intorno al 1230 e completato all’incirca quarant’anni dopo da Jean de Meun. Qui appare anche Eco, la ninfa che amava Narciso senza che il suo amore fosse corrisposto: nel mito di Ovidio la ninfa si consuma letteralmente per amore di Narciso finché di lei non rimane che la voce, appunto un’eco. Nel Roman de la Rose però, che ha un intento allegorico, prevale una mentalità punitiva e sottilmente misogina: Eco maledice Narciso, tanto da implorare gli dei affinché possa sperimentare la stessa sofferenza d’amore da lei provata. Come pensare psicologicamente che una donna possa maledire l’uomo che ama?
Per inciso: nella narrazione di Ovidio Narciso non si getta affatto nell’acqua per abbracciare la sua immagine trovando così la morte per annegamento, ma si consuma anche lui, deperisce perdendo la bellezza stessa del suo volto, come un moderno malato di anoressia. Nel mito originale convivono figure estremamente ambivalenti e angoscianti, tipiche dell’inconscio, e infatti anche il mito di Narciso, come quello di Edipo, è stato riletto e trasfigurato dalla psicoanalisi.
Nel 1914 Sigmund Freud pubblica sui quaderni di psicoanalisi il saggio Zur Einführung des Narzißmus ed elabora lo stadio narcisistico, derivando questo termine appunto dal mito di Narciso, come una fase evolutiva della libido sessuale, a cavallo tra la fase sadico-anale e quella più propriamente oggettuale. Ma l’interesse per questo mito era nato in precedenza e già nel 1898, Havelock Ellis, sessuologo inglese, aveva coniato il neologismo «narcissus-like» in riferimento all'eccessiva pratica della masturbazione, per cui una persona diventa il suo stesso oggetto sessuale, oppure nel 1911 Otto Rank aveva già pubblicato il primo documento propriamente psicoanalitico specificamente interessato al narcisismo, collegando però questa idea alla vanità e all'auto-ammirazione.
Ovviamente non posso presentare in questa sede una trattazione esauriente sul concetto di narcisismo che è poi stato affrontato e sviluppato in molteplici varianti non solo dalla psicoanalisi, ma è inserito a pieno titolo nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, uno dei sistemi nosografici per i disturbi mentali o psicopatologici più utilizzati da psichiatri, psicologi e medici di tutto il mondo: qui compare la patologia nominata disturbo narcisistico della personalità, che è la forma più grave di narcisismo, in quanto l’individuo affetto da essa sopravvaluta le sue capacità e mostra un bisogno patologico di ammirazione. In sintesi mi limito a dire questo: se intendiamo questo termine nel senso di amor proprio e autostima, dobbiamo ammettere che una certa dose di narcisismo è normale e necessaria a qualunque individuo e possiamo affermare che il narcisismo sano si colloca in una posizione intermedia lungo un continuum tra due estremi patologici; da una parte un narcisismo eccessivo, caratterizzato da un sé grandioso, sentimenti
di superiorità, arroganza, vanagloria, senso di onnipotenza e perfino certe forme di “sentimento oceanico”, dall’altra parte invece un deficit di narcisismo che genera sentimenti di inferiorità e impotenza, fino ad arrivare all’autismo e a forme paranoiche di regressione.
Riprendiamo a seguire le metamorfosi, questa volta, del mito di Narciso nella storia dell’arte. Agli albori del romanticismo il mito ritorna proprio in uno dei miei artisti prediletti, Turner: dipinge nel 1804 Narcissus and Echo, ma l’iconografia è tutta nuova, tipica di questo pittore. I personaggi appaiono in lontananza, immersi nella natura: è una visione di sogno, anche se i colori sono cupi e appare un lago che fa pensare a un paesaggio italiano, e insieme anche all’idillio di un amore impossibile, come nei poeti romantici.
Quasi cent’anni dopo, nel 1903 arriva la versione di John William Waterhouse, pittore britannico appartenente alla corrente preraffaellita, innamorato della mitologia classica. Questo dipinto è più noto: in questa versione, però, Eco appare consapevole di quello che sta per accadere a Narciso, dal momento che uno dei narcisi collocati sulla riva è caduto nello specchio d’acqua e questo dato può facilmente essere letto come un presagio della sventura imminente: in questo racconto l’immagine è piena di grazia ma ogni tensione inconscia sembra spenta. La psicoanalisi riaffiora invece in pompa magna nella versione del 1937di Salvador Dalì, intitolata le Metamorfosi di Narciso, il primo di una serie di dipinti deliberatamente realizzati dall’artista con il metodo “critico-paranoico”, fondato sull’associazione di elementi apparentemente senza senso e sulla capacità del cervello umano di collegare concetti che sembrano non avere correlazione: ma ormai la psicoanalisi stessa si è messa a dipingere.
Torno quindi al dipinto di Caravaggio.
A questo punto però non mi sento più di nascondere al lettore che la realtà è, come sempre, diversa da ciò che appare: solo nel 1916 questo dipinto è stato attribuito a Caravaggio dal grande critico d’arte Roberto Longhi. E in precedenza?
Erano state proposte varie attribuzioni a pittori quali lo Spadarino, Orazio Gentileschi e Niccolò Tornioli: in breve ne è nato un dibattito, e si sono sprecati fiumi di inchiostro a sostegno delle diverse tesi. Non desidero tediare il lettore con l’esame minuzioso di queste tesi, non sarebbe questa la sede e facilmente è possibile trovare tutta la documentazione sulla rete. Il problema, secondo me, è un altro: a tutta la cultura fa piacere avere un quadro di Caravaggio, riconosciuto unanimemente come uno dei più grandi pittori di tutti i tempi, da mostrare. Chi era, per esempio, lo Spadarino? Solo gli addetti ai lavori lo conoscono: era un ottimo pittore, ma la notorietà e le quotazioni dei critici non lo hanno privilegiato. L’arte ufficiale purtroppo vive di luoghi comuni, di parole d’ordine e di quotazioni - la verità forse non la sapremo mai.
Nel Museo Civico di Colle Val d’Elsa si trova un grande dipinto a olio su tela, di 200 x 303cm di Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino, che raffigura il Battesimo di Costantino; se si rammenta con attenzione il profilo di Narciso, quello del chierico sulla destra, che guarda verso Costantino prostrato per ricevere il sacramento, emerge una notevole rassomiglianza. Ovviamente questo riscontro non è sufficiente per farci decidere e i sostenitori della paternità di Caravaggio hanno altri argomenti a loro favore.
Torno così al dipinto di Narciso: le ipotesi più verosimili ne assegnano l’esecuzione all'incirca tra il 1597 e il 1599. Mi concedo però un’ultima digressione: c’era a Roma, a Palazzo Farnese un affresco, poi staccato, 267x143cm, del Domenichino, probabilmente databile intorno al 1604 che ritrae Narciso chino sull’acqua in una posizione abbastanza simile a quella del dipinto che ho davanti agli occhi, ma inserito in un’ampia e luminosa ambientazione paesistica.
Mi è chiaro, a parte alcuni elementi strettamente legati alla definizione di Narciso, quali la sua postura e la presenza del riflesso nell’acqua, che questo quadro rappresenta davvero qualcosa di unico: emana una potenza insolita di visione che concentra la tragica vicenda del personaggio in una silente sovrapposizione di immagini in primo piano, trafitte da un lampo di luce. Veramente il pittore, chiunque fosse, è stato benedetto da una visione: il paesaggio stesso è semplicemente negato in quanto tale, dal dipinto emerge solo la duplicità, costruita dalle due immagini del giovane, sovrapposte l’una all’altra quasi si trattasse di carta da gioco; nessuna concessione narrativa ma estrema rarefazione di linguaggio, ombra e luce, senso ed essenza. Come sarebbe possibile non pensare a un genio dell’immagine? Che cosa rivela questa visione?
Difficile trovare un altro quadro che conceda quasi nulla alla descrizione, così essenziale, in cui urli la medesima disperata solitudine. Perché noi sappiamo bene che quella è un’immagine, non è affatto reale, che il sogno di Narciso di congiungersi a quell’immagine è a priori impossibile – Narciso è condannato a un’assoluta solitudine. Conoscendo la psicoanalisi possiamo sentenziare che quella solitudine è il destino ineluttabile di chi non sa uscire da se stesso e costruire una relazione d’amore veramente oblativa.
Ma adesso dimentico per un istante la psicoanalisi e sento solo come pittore. Dove ho veduto la medesima assoluta solitudine?
Tornato a casa sono rimasto insieme a Merisi, o se preferite allo pseudo-Caravaggio, a lungo: per un pittore non esiste altro modo per comprendere un quadro che iniziare a disegnarlo, fondersi con la visione dell’artista. Ho fatto diverse prove, con tecniche differenti. Poi sono tornato anche a Villa Confalonieri: in un giorno feriale c’erano poche persone. Dopo aver disegnato il dipinto avevo acquisito una certa familiarità con l’immagine: per quanto il soggetto si rifletta nell’acqua, il riflesso risulta diverso dalla persona reale. Ho così notato la sapienza percettiva dell’artista e, allo stesso tempo, ho verificato che, nel riflesso, alcuni dettagli sono stati tralasciati o sfumati. Questo effetto è solo dovuto fedeltà descrittiva? Rimango incerto. Guardando la figura del giovane si rafforza un’idea che mi era nata durante le mie ripetute copie: l’immagine dipinta risulta lievemente deformata, come nel Cristo morto di Mantegna alla Pinacoteca di Brera. È vero che la deformazione è dovuta alla ricerca prospettica, eppure mi sembra troppo accentuata. Mi concentro, in questa seconda visita, soprattutto sul riflesso: ovviamente il pittore esperto rende perfettamente l’effetto acqua: l’immagine riflessa è più spenta di quella reale, alcuni dettagli cadono naturalmente, come se l’acqua neppure li registrasse. Ma è solo per questo? Più osservo, più si fa strada questa idea: nell’acqua c’è l’ombra del giovane. Il lato oscuro che appare nel doppio presente in questo ritratto. Molto prima del sapere esplicitato dalla psicoanalisi il creatore di questo dipinto ha fatto sì che nell’acqua apparisse il vero doppio del giovane. Ombra (secondo il concetto che questa espressione assume in Jung), doppio (e penso di nuovo a Rank): più osservo, più questo dipinto appare rivelatore e mi costringerebbe a un’analisi interminabile.
E solo allora ho iniziato a vedere. Dove avevo già visto quella assoluta solitudine e la deformazione esistenziale che si avverte nel dipinto?
Nell’urlo di Munch. La prima versione di quest’opera è stata dipinta nel 1893: se sono vere le ipotesi più accreditate sono passati quattrocento anni dal Narciso. In questa manciata di secoli si è consumata la tragedia della modernità. Narciso ancora cercava di fondersi con quella immagine, che non era altro che la sua anima: sperava di congiungersi nell’amore con l’altro da sé. È vero che era solo un’immagine riflessa ma la tensione che porta al bisogno di completezza, a ritrovare il nostro doppio era ancora viva. Frutto certo di un’illusione, ma viva. Per Munch l’anima semplicemente non esiste più – questa tremenda mancanza genera l’urlo, sfigura l’uomo stesso, che nel dipinto di Edvard si riduce a uno spettro. L’Urlo di Munch è la maschera di chi ha perduto tutto per sempre.
Tempo fa avevo letto un libro di Sgalambro dal titolo La morte del sole, uscito nel 1982. Nel 2004 è stato pubblicato La morte dell’anima di Vannini. Questo secolo appena terminato non fa che parlare di morte: nel suo saggio Vannini ricostruisce il processo attraverso il quale la modernità occidentale ha smarrito il valore effettivo dell’anima, perdendo il senso della sua eternità e della sua coincidenza con la divinità.
Narciso ancora sospirava di fronte all’immagine irraggiungibile, dalla quale l’acqua lo separava, poteva avere ancora, agli inizi della modernità, un vago ricordo, una nostalgia della propria anima perduta. Forse il Narciso dipinto nel seicento poteva ancora, nello specchiarsi, intravedere la sua ombra. Ma per coloro che, come noi, osservano il quadro di Munch e la devastazione presente nel pensiero contemporaneo l’uomo ha perso sia ombra che anima: interpretazioni diverse convivono in una polisemia di significati.
Senza più nemmeno questa vaga reminiscenza l’essere umano non può essere persona, ma soltanto maschera deforme. A questo punto non abbiamo che una Via da seguire: ritrovare il Divino, se speriamo di ritrovare l’anima perduta.
Dove cercarlo ancora, nella natura? Nella relazione con gli altri? Il Divino è già intimo a noi – ma non dobbiamo commettere lo stesso errore di Narciso di cercarlo nelle proiezioni della nostra mente. La meditazione può forse aiutarci in questa Via.
(Sergio Gandini)