Letture
Fede Galizia
Si sta concludendo alle Gallerie d’Italia una grande mostra dal titolo ambizioso “Il Genio di Milano” che, come altre tenutesi in passato nella medesima sede, rivela uno spirito elogiativo nei confronti all’iniziativa privata a sostegno della cultura: in questa ottica la stessa sede ha rinnovato i suoi locali, presentando un’ala nuova in quella che era l’antica casa degli Anguissola che ospita, fra i quadri dell’Ottocento, i mirabili bassorilievi di Canova e permette anche di passare nel giardino della casa del Manzoni. I lavori contenuti vanno dalla fine del Medioevo fino al presente, con un andamento che non offre sempre la medesima qualità nelle opere offerte: avrei volentieri veduto qualcosa di più di Leonardo, dal momento che i curatori insistono sul suo genio, ma una grande mostra va giudicata con indulgenza e, personalmente, preferisco considerarla solo un’occasione per vedere opere che altrimenti non sarebbero uscite dal proprio museo; la scorsa volta era stato il caso del ritratto del cardinale Archinto, eseguito da Tiziano, a proposito del quale avevo scritto sulle pagine di Meditatio. |
La sezione più interessante per me è stata quella dedicata al cardinale Federico Borromeo, nella quale si trova la “Sacra famiglia con sant’Anna e san Giovannino”, da lui donata alla neonata Biblioteca Ambrosiana. Qui i curatori della mostra hanno portato diverse nature morte, di Figino e Nuvolone, accanto all’opera sulla quale intendo soffermare il mio interesse, “Alzata di cristallo con pesche, mele cotogne e fiori di gelsomino”, eseguita da Fede Galizia intorno al 1607.
Rinnovo lo spirito che mi ha mosso nel precedente articolo e mi propongo così di celebrare indirettamente anche la giornata dell’otto marzo. Ma chi era Fede Galizia?
In realtà rari sono i nomi femminili nella storia dell’arte moderna, soltanto di recente qualcosa sembra cambiare, basti pensare al clamore intorno a Frida Kahlo e ad Artemisia Gentileschi, anche se mi sembra che, in questi casi, l’interesse nei confronti del valore delle pittrici rimanga troppo invischiato coi dettagli delle loro vicende biografiche.
Di certo, trentina di origini, come Segantini, ma nata e vissuta nella Milano della Controriforma, Fede fu definita Mirabile Pittoressa e divenne in breve tempo una ritrattista ricercata: nel 1596 realizza la Giuditta con la testa di Oloferne, firmata e datata, e questo lavoro è davvero un primum nella storia dell’arte, perché rappresenta la prima opera documentata, dedicata a questo soggetto, realizzata da una donna pittrice: a questa seguiranno appunto le versioni di Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi, oltre a quella di Caravaggio, eseguita nel 1603.
Eppure, malgrado la fortuna presso i contemporanei, di lei non possediamo oggi molti lavori: di alcuni abbiamo notizia ma sono andati distrutti, altri dispersi in collezioni private – sono controversi perfino i dati della sua vita e solo per congettura si indica il 1578 come anno della sua nascita. Era figlia d’arte: il nonno, cremonese d’origini, si trasferì in Trentino. Lì il figlio Nunzio Galizia si formò e sviluppò la sua attività di miniatura e incisione. Erano i tempi del Concilio: la cittadina di Trento era un fermento di committenti nobili ed ecclesiastici, provenienti da tutta Europa. Forse proprio per la competizione delle botteghe esistenti, il padre decise di spostarsi a Milano, dove Galizia crebbe e lavorò.
Tuttavia non la direi figlia d’arte, piuttosto autodidatta, anche se devo motivare questa affermazione: all’età di dodici anni inizia a dipingere istruita dal padre stesso, ma più tardi rimane ammirata dalla visione della Canestra di frutta del Caravaggio. Questo quadro era presente nella raccolta borromea dal 1599: allora Fede era già una pittrice affermata eppure, come talora accade, questo quadro inizia a lavorare nel suo mondo interiore e a mutare in modo indelebile la sua ricerca pittorica.
Mi accorgo però di quando sia difficile parlare di Fede Galizia senza addentrarmi in un contesto celebrativo e pericoloso: pittrice quasi sconosciuta ai non addetti ai lavori, fino alla grande mostra tenutasi al Palazzo Reale di Milano dal 2 marzo al 22 agosto 2021, Le Signore dell'Arte. Storie di donne tra '500 e '600. Se in questa sede condivideva la scena con altre trentaquattro pittrici attive fra Cinquecento e Seicento, nello stesso anno riceve la definitiva consacrazione con una mostra monografica ospitata al Castello del Buonconsiglio di Trento dal 3 luglio al 24 ottobre 2021. La cultura maschilista, che non è certo ancora estinta, determinò, nella società del tempo, una serie di ostacoli nella diffusione delle opere della artiste donne e ancora oggi ha contribuito a nascondere il loro valore. Eppure vorrei fosse giunto il tempo in cui non ci si deve più preoccupare se si sta parlando intorno a una pittrice o un pittore – l’ora infine in cui ci si può concentrare solo sul lavoro e sulla visione dall’artista, senza implicazioni riparative. Vorrei così lasciare al lettore, se vorrà farlo, il compito di documentarsi ulteriormente, come è doveroso, sulla figura della Galizia e approfondire tutti i necessari riferimenti.
Provo quindi a riprendere con semplicità dall’inizio e ritorno dunque al cuore del presente contributo: questa Alzata di cristallo con pesche, mele cotogne e fiori di gelsomino. La leggenda vuole che Fede vide la celebre canestra di frutta del Caravaggio e folgorata decise di seguire il suo esempio e di dedicarsi a dipingere nature morte.
Poiché questo dipinto si trovava nella Biblioteca Ambrosiana, dove ancora oggi lo si può ammirare, niente vieta di credere a essa: le leggende contengono sempre un fondo di verità e, per me, questo fondo è costituito dal fatto che l’artista trovò finalmente il punto sul quale concentrare la sua ricerca.
Giova anche rammentare che questo dipinto del Caravaggio è pressoché l’unico a presentare uno sfondo chiaro: se Fede aveva presente il percorso del suo nuovo maestro ideale sapeva bene il valore e le potenzialità dello sfondo nero, che ella stessa utilizzò nei suoi quadri, perché allora non provare a dipingere la frutta su uno sfondo scuro? E portando all’estremo la mia suggestione: i ritratti di nobiluomini e nobildonne (anche Giuditta non è forse più simile a una nobildonna ingioiellata del tempo che all’eroina biblica?) e quelli dei santi erano richiesti dalla committenza e fecero di Fede una pittrice acclamata, la Mirabile Pittoressa che il padre desiderava – ma è questa visione, la rappresentazione perfetta di frutti che inseguirà per tutta la vita. E non serve controbattere che era una delle mode del tempo dipingere frutta, che questo genere era presente anche nella galleria del cardinale Borromeo, e non serve neanche aggiungere che la reinvenzione di questo genere fece anche la fortuna di Arcimboldo, precisando che certamente Fede lo conobbe e certo intrattenne una relazione con lui, magari non solo di lavoro. Quando inizio a osservare un quadro cerco unicamente di entrare davvero nello spirito di esso, dell’artista che lo fece essere.
In fondo anche questa natura morta può essere collocata all’interno di un genere, quella della meditatio mortis ben presente nello spirito della controriforma. Questo è il contesto storico culturale e metafisico in cui collocare la personale meditazione di Fede.
Allora iniziamo a guardare.
L’alzata di cristallo, lungi dall’essere casuale, reca la firma dell’artista: le permette un brano di autentico virtuosismo pittorico presente anche nel famoso Ritratto di Paolo Morigia, terzo quadro che sono costretto almeno a nominare. Il Morigia fu scrittore, storico e autore di un libro sulla nobiltà di Milano, fu il primo a sostenere l’opera della Galizia; lo studioso viene rappresentato in tonaca bianca su fondo scuro, in un momento di pausa dal lavoro: ha tolto gli occhiali e guarda la pittrice mentre lo ritrae, e nelle lenti posate sul tavolo si può notare il dettaglio del riflesso delle finestre. V’è un mondo intero in questo dettaglio: la suggestione della pittura fiamminga contemporanea, certo nota al padre miniaturista. In realtà l’intero quadro deve essere osservato con attenzione nei suoi particolari: per esempio, la grande espressività delle labbra serrate, che ci raccontano la determinazione del gesuita, qualcosa che ci ricorda non solo Lotto e Moroni, ma anche gli studi di fisiognomica particolarmente fiorenti a Milano dopo la parabola di Leonardo da Vinci. E difatti nel lascito testamentario di Galizia, stilato pochi giorni prima di morire nel 1630, troviamo copie da Leonardo e Correggio, come meditazione personale sui testi figurativi.
Per un istante il mio pensiero prova a entrare in empatia con questo essere umano, che condusse una vita quasi segreta, povera di avvenimenti importanti, non si sposò mai, non ebbe figli, si dedicò totalmente all'arte e morì di peste a soli cinquantadue anni, di cui quaranta dedicati al dipingere. Torno al dipinto, l’intento rappresentativo di Fede: c’è volontà di realismo certo, il desiderio di catturare l’attimo in cui lo studioso ha posato gli occhiali sul tavolo, ma forse anche di più: questo attimo è colto non più come un accadere nel tempo, ma un prezioso istante di eternità.
Ecco, se questa mia interpretazione è vera, vorrei cercare di estenderla proprio alle sue nature morte. È evidente che queste composizioni, nello spirito della cultura seicentesca, possono essere viste come metafore della caducità della vita: ormai è tramontato il Rinascimento e l’epoca del Manierismo tende a intellettualizzare sempre più il mestiere di pittore, sulla base dell’intuizione che l’Idea presente nella mente dell’artista è scintilla divina. E ancora desidero aggiungere che è avvenuta la frattura tra Rinascimento e Barocco: non è più la figura umana al centro della rappresentazione pittorica, ma l’oggetto stesso, attraverso il quale l’artista esprime il proprio sentire e la sua anima.
Eppure anche questa corretta contestualizzazione storica non mi soddisfa pienamente, non arriva a cogliere la profondità delle nature morte di Fede.
Si potrebbe anche dire: in quanto esercizio di meditatio mortis l’artista sta cercando di cogliere la bellezza sull’orlo del disfacimento, una sorta di elogio dell’impermanenza. Il tema della Vanitas è presente, per esempio, anche nella Alzata con prugne, pere e una rosa, forse del 1602, appartenente a una collezione privata ed esposto a Trento: la rosa è dipinta nel suo appassire e quindi simboleggia l’inevitabile disfacimento della bellezza stessa – questo è reso mirabilmente nel tono biancastro della luce in cui è avvolta la rosa, come se fosse in procinto di svanire in essa. Ma è proprio così?
Ciò che rende la pittura di Fede unica, a mio avviso, non è l’adesione a un tema, né il concetto di Vanitas, non è neppure la rappresentazione esteriore di un oggetto, ma riuscire a cogliere l’interiorità. E quando dico interiorità, non intendo neppure l’interiorità dell’artista che guarda contrapposta all’esteriorità dell’oggetto osservato. In tedesco, è noto, natura morta si traduce Stilleben che letteralmente significa esattamente l’opposto: vita silente. Non è lo sguardo della pittoressa a cogliere in un attimo questa frutta, piuttosto quella luce particolarissima che permea la visione dell’artista è intima alle cose stesse – quei frutti e quei fiori di gelsomino sono sub specie aeternitatis.
Nella sua visione ogni dettaglio è colto nella propria essenzialità, con un colore vibrante, e uno stile semplice e severo, rappresentato in una relazione assoluta di volumi, di pieni e di vuoti, con lo spazio. Non sono più mere pesche e una mela cotogna che sta quasi annerendo, intrisa di una luminosità scura – ma epifania di colori – che necessariamente mi rimandano all’altro pittore, la cui visione ormai studio da anni, Paul Cézanne.
“…L’equilibrio interno dei colori di Cézanne, che non stanno né si spingono in primo piano, genera quest’aria calma, quasi vellutata…è una delle sue peculiarità usare per i suoi limoni e per le sue mele giallo cromo e lacca rossa allo stato assolutamente puro, egli sa come trattenere la loro sonorità all’interno del quadro…Le sue nature morte sono così meravigliosamente occupate con se stesse” (R.M.Rilke, lettera del 24 ottobre 1907).
Questa lettera, insieme a tutte quelle scritte in occasione della visita alla mostra di Cézanne al Grand Palais de Paris, può essere letta nella splendida edizione fatta per i tipi della Jaca Book nel 2018: alla meditazione su questo libro, che presenta anche la riproduzione di tutti i dipinti presenti nell’esposizione del 1907, volentieri rimando il lettore che davvero desiderasse approfondire l’esercizio dello sguardo contemplativo sull’opera d’arte.
Nel congedarmi mi permetto un ultimo suggerimento: la mostra ormai sta per finire e il quadro della Galizia tornerà nel suo abituale domicilio, che non è la Biblioteca Ambrosiana, ma il museo civico Ala Ponzone di Cremona. Qui vidi il quadro per la prima volta, ormai quarant’anni fa, e me ne innamorai, per cui ho gioito nel rivederlo in questa mostra, come rivedendo inaspettatamente un caro amico. Quello di Cremona è un piccolo museo ma ospita, oltre a Fede e a pregevoli dipinti di Cerano e di Procaccini, un sublime San Francesco in meditazione che si ispira direttamente al passo di Bonaventura da Bagnoregio: nei tratti del santo sarebbe possibile vedere un autoritratto del Caravaggio stesso. Dovremmo allora riflettere sulla possibile datazione di questo dipinto e su altre circostanze: infatti una copia di esso si trova nel Museo della Collegiata di Castell'Arquato, per cui è possibile ipotizzare che il dipinto fosse stato eseguito per una chiesa francescana a Napoli o Roma e poi giunto a Piacenza, sostituito da una copia.
Le prime notizie sul dipinto risalgono al 1836, quando il marchese Filippo Ala Ponzone lo donò al Comune di Cremona: allora non era ancora attribuito a Caravaggio, perfino il grande critico Longhi lo riteneva solo opera di un imitatore, sebbene ne riconoscesse la qualità di esecuzione. Nel 1951 però fu inserito nel catalogo della celeberrima mostra di Palazzo Reale, e in quella occasione, un altro esperto d’arte, Denis Mahon affermò che si trattava di un originale databile al 1606, ovvero una delle prime opere del periodo napoletano del pittore: questa tesi trovò conferma definitiva dopo pulitura del 1986, che evidenziò la qualità tecnica del Maestro. È un quadro mirabile, vicino nello stile alla Cena in Emmaus della Pinacoteca di Brera. San Francesco viene rappresentato curvo e sofferente mentre volge lo sguardo al crocifisso e al libro appoggiato sul teschio – è sempre una meditatio mortis, espressa in austeri dettagli: soprattutto in questi semplici oggetti traspare la grande intensità spirituale della predicazione volta al recupero della purezza dei valori evangelici. Fino al rinnegamento del proprio io: è possibile riconoscere nella fisionomia del Santo quella di Caravaggio stesso, colto in un momento di grande crisi spirituale?
(Sergio Gandini)
Rinnovo lo spirito che mi ha mosso nel precedente articolo e mi propongo così di celebrare indirettamente anche la giornata dell’otto marzo. Ma chi era Fede Galizia?
In realtà rari sono i nomi femminili nella storia dell’arte moderna, soltanto di recente qualcosa sembra cambiare, basti pensare al clamore intorno a Frida Kahlo e ad Artemisia Gentileschi, anche se mi sembra che, in questi casi, l’interesse nei confronti del valore delle pittrici rimanga troppo invischiato coi dettagli delle loro vicende biografiche.
Di certo, trentina di origini, come Segantini, ma nata e vissuta nella Milano della Controriforma, Fede fu definita Mirabile Pittoressa e divenne in breve tempo una ritrattista ricercata: nel 1596 realizza la Giuditta con la testa di Oloferne, firmata e datata, e questo lavoro è davvero un primum nella storia dell’arte, perché rappresenta la prima opera documentata, dedicata a questo soggetto, realizzata da una donna pittrice: a questa seguiranno appunto le versioni di Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi, oltre a quella di Caravaggio, eseguita nel 1603.
Eppure, malgrado la fortuna presso i contemporanei, di lei non possediamo oggi molti lavori: di alcuni abbiamo notizia ma sono andati distrutti, altri dispersi in collezioni private – sono controversi perfino i dati della sua vita e solo per congettura si indica il 1578 come anno della sua nascita. Era figlia d’arte: il nonno, cremonese d’origini, si trasferì in Trentino. Lì il figlio Nunzio Galizia si formò e sviluppò la sua attività di miniatura e incisione. Erano i tempi del Concilio: la cittadina di Trento era un fermento di committenti nobili ed ecclesiastici, provenienti da tutta Europa. Forse proprio per la competizione delle botteghe esistenti, il padre decise di spostarsi a Milano, dove Galizia crebbe e lavorò.
Tuttavia non la direi figlia d’arte, piuttosto autodidatta, anche se devo motivare questa affermazione: all’età di dodici anni inizia a dipingere istruita dal padre stesso, ma più tardi rimane ammirata dalla visione della Canestra di frutta del Caravaggio. Questo quadro era presente nella raccolta borromea dal 1599: allora Fede era già una pittrice affermata eppure, come talora accade, questo quadro inizia a lavorare nel suo mondo interiore e a mutare in modo indelebile la sua ricerca pittorica.
Mi accorgo però di quando sia difficile parlare di Fede Galizia senza addentrarmi in un contesto celebrativo e pericoloso: pittrice quasi sconosciuta ai non addetti ai lavori, fino alla grande mostra tenutasi al Palazzo Reale di Milano dal 2 marzo al 22 agosto 2021, Le Signore dell'Arte. Storie di donne tra '500 e '600. Se in questa sede condivideva la scena con altre trentaquattro pittrici attive fra Cinquecento e Seicento, nello stesso anno riceve la definitiva consacrazione con una mostra monografica ospitata al Castello del Buonconsiglio di Trento dal 3 luglio al 24 ottobre 2021. La cultura maschilista, che non è certo ancora estinta, determinò, nella società del tempo, una serie di ostacoli nella diffusione delle opere della artiste donne e ancora oggi ha contribuito a nascondere il loro valore. Eppure vorrei fosse giunto il tempo in cui non ci si deve più preoccupare se si sta parlando intorno a una pittrice o un pittore – l’ora infine in cui ci si può concentrare solo sul lavoro e sulla visione dall’artista, senza implicazioni riparative. Vorrei così lasciare al lettore, se vorrà farlo, il compito di documentarsi ulteriormente, come è doveroso, sulla figura della Galizia e approfondire tutti i necessari riferimenti.
Provo quindi a riprendere con semplicità dall’inizio e ritorno dunque al cuore del presente contributo: questa Alzata di cristallo con pesche, mele cotogne e fiori di gelsomino. La leggenda vuole che Fede vide la celebre canestra di frutta del Caravaggio e folgorata decise di seguire il suo esempio e di dedicarsi a dipingere nature morte.
Poiché questo dipinto si trovava nella Biblioteca Ambrosiana, dove ancora oggi lo si può ammirare, niente vieta di credere a essa: le leggende contengono sempre un fondo di verità e, per me, questo fondo è costituito dal fatto che l’artista trovò finalmente il punto sul quale concentrare la sua ricerca.
Giova anche rammentare che questo dipinto del Caravaggio è pressoché l’unico a presentare uno sfondo chiaro: se Fede aveva presente il percorso del suo nuovo maestro ideale sapeva bene il valore e le potenzialità dello sfondo nero, che ella stessa utilizzò nei suoi quadri, perché allora non provare a dipingere la frutta su uno sfondo scuro? E portando all’estremo la mia suggestione: i ritratti di nobiluomini e nobildonne (anche Giuditta non è forse più simile a una nobildonna ingioiellata del tempo che all’eroina biblica?) e quelli dei santi erano richiesti dalla committenza e fecero di Fede una pittrice acclamata, la Mirabile Pittoressa che il padre desiderava – ma è questa visione, la rappresentazione perfetta di frutti che inseguirà per tutta la vita. E non serve controbattere che era una delle mode del tempo dipingere frutta, che questo genere era presente anche nella galleria del cardinale Borromeo, e non serve neanche aggiungere che la reinvenzione di questo genere fece anche la fortuna di Arcimboldo, precisando che certamente Fede lo conobbe e certo intrattenne una relazione con lui, magari non solo di lavoro. Quando inizio a osservare un quadro cerco unicamente di entrare davvero nello spirito di esso, dell’artista che lo fece essere.
In fondo anche questa natura morta può essere collocata all’interno di un genere, quella della meditatio mortis ben presente nello spirito della controriforma. Questo è il contesto storico culturale e metafisico in cui collocare la personale meditazione di Fede.
Allora iniziamo a guardare.
L’alzata di cristallo, lungi dall’essere casuale, reca la firma dell’artista: le permette un brano di autentico virtuosismo pittorico presente anche nel famoso Ritratto di Paolo Morigia, terzo quadro che sono costretto almeno a nominare. Il Morigia fu scrittore, storico e autore di un libro sulla nobiltà di Milano, fu il primo a sostenere l’opera della Galizia; lo studioso viene rappresentato in tonaca bianca su fondo scuro, in un momento di pausa dal lavoro: ha tolto gli occhiali e guarda la pittrice mentre lo ritrae, e nelle lenti posate sul tavolo si può notare il dettaglio del riflesso delle finestre. V’è un mondo intero in questo dettaglio: la suggestione della pittura fiamminga contemporanea, certo nota al padre miniaturista. In realtà l’intero quadro deve essere osservato con attenzione nei suoi particolari: per esempio, la grande espressività delle labbra serrate, che ci raccontano la determinazione del gesuita, qualcosa che ci ricorda non solo Lotto e Moroni, ma anche gli studi di fisiognomica particolarmente fiorenti a Milano dopo la parabola di Leonardo da Vinci. E difatti nel lascito testamentario di Galizia, stilato pochi giorni prima di morire nel 1630, troviamo copie da Leonardo e Correggio, come meditazione personale sui testi figurativi.
Per un istante il mio pensiero prova a entrare in empatia con questo essere umano, che condusse una vita quasi segreta, povera di avvenimenti importanti, non si sposò mai, non ebbe figli, si dedicò totalmente all'arte e morì di peste a soli cinquantadue anni, di cui quaranta dedicati al dipingere. Torno al dipinto, l’intento rappresentativo di Fede: c’è volontà di realismo certo, il desiderio di catturare l’attimo in cui lo studioso ha posato gli occhiali sul tavolo, ma forse anche di più: questo attimo è colto non più come un accadere nel tempo, ma un prezioso istante di eternità.
Ecco, se questa mia interpretazione è vera, vorrei cercare di estenderla proprio alle sue nature morte. È evidente che queste composizioni, nello spirito della cultura seicentesca, possono essere viste come metafore della caducità della vita: ormai è tramontato il Rinascimento e l’epoca del Manierismo tende a intellettualizzare sempre più il mestiere di pittore, sulla base dell’intuizione che l’Idea presente nella mente dell’artista è scintilla divina. E ancora desidero aggiungere che è avvenuta la frattura tra Rinascimento e Barocco: non è più la figura umana al centro della rappresentazione pittorica, ma l’oggetto stesso, attraverso il quale l’artista esprime il proprio sentire e la sua anima.
Eppure anche questa corretta contestualizzazione storica non mi soddisfa pienamente, non arriva a cogliere la profondità delle nature morte di Fede.
Si potrebbe anche dire: in quanto esercizio di meditatio mortis l’artista sta cercando di cogliere la bellezza sull’orlo del disfacimento, una sorta di elogio dell’impermanenza. Il tema della Vanitas è presente, per esempio, anche nella Alzata con prugne, pere e una rosa, forse del 1602, appartenente a una collezione privata ed esposto a Trento: la rosa è dipinta nel suo appassire e quindi simboleggia l’inevitabile disfacimento della bellezza stessa – questo è reso mirabilmente nel tono biancastro della luce in cui è avvolta la rosa, come se fosse in procinto di svanire in essa. Ma è proprio così?
Ciò che rende la pittura di Fede unica, a mio avviso, non è l’adesione a un tema, né il concetto di Vanitas, non è neppure la rappresentazione esteriore di un oggetto, ma riuscire a cogliere l’interiorità. E quando dico interiorità, non intendo neppure l’interiorità dell’artista che guarda contrapposta all’esteriorità dell’oggetto osservato. In tedesco, è noto, natura morta si traduce Stilleben che letteralmente significa esattamente l’opposto: vita silente. Non è lo sguardo della pittoressa a cogliere in un attimo questa frutta, piuttosto quella luce particolarissima che permea la visione dell’artista è intima alle cose stesse – quei frutti e quei fiori di gelsomino sono sub specie aeternitatis.
Nella sua visione ogni dettaglio è colto nella propria essenzialità, con un colore vibrante, e uno stile semplice e severo, rappresentato in una relazione assoluta di volumi, di pieni e di vuoti, con lo spazio. Non sono più mere pesche e una mela cotogna che sta quasi annerendo, intrisa di una luminosità scura – ma epifania di colori – che necessariamente mi rimandano all’altro pittore, la cui visione ormai studio da anni, Paul Cézanne.
“…L’equilibrio interno dei colori di Cézanne, che non stanno né si spingono in primo piano, genera quest’aria calma, quasi vellutata…è una delle sue peculiarità usare per i suoi limoni e per le sue mele giallo cromo e lacca rossa allo stato assolutamente puro, egli sa come trattenere la loro sonorità all’interno del quadro…Le sue nature morte sono così meravigliosamente occupate con se stesse” (R.M.Rilke, lettera del 24 ottobre 1907).
Questa lettera, insieme a tutte quelle scritte in occasione della visita alla mostra di Cézanne al Grand Palais de Paris, può essere letta nella splendida edizione fatta per i tipi della Jaca Book nel 2018: alla meditazione su questo libro, che presenta anche la riproduzione di tutti i dipinti presenti nell’esposizione del 1907, volentieri rimando il lettore che davvero desiderasse approfondire l’esercizio dello sguardo contemplativo sull’opera d’arte.
Nel congedarmi mi permetto un ultimo suggerimento: la mostra ormai sta per finire e il quadro della Galizia tornerà nel suo abituale domicilio, che non è la Biblioteca Ambrosiana, ma il museo civico Ala Ponzone di Cremona. Qui vidi il quadro per la prima volta, ormai quarant’anni fa, e me ne innamorai, per cui ho gioito nel rivederlo in questa mostra, come rivedendo inaspettatamente un caro amico. Quello di Cremona è un piccolo museo ma ospita, oltre a Fede e a pregevoli dipinti di Cerano e di Procaccini, un sublime San Francesco in meditazione che si ispira direttamente al passo di Bonaventura da Bagnoregio: nei tratti del santo sarebbe possibile vedere un autoritratto del Caravaggio stesso. Dovremmo allora riflettere sulla possibile datazione di questo dipinto e su altre circostanze: infatti una copia di esso si trova nel Museo della Collegiata di Castell'Arquato, per cui è possibile ipotizzare che il dipinto fosse stato eseguito per una chiesa francescana a Napoli o Roma e poi giunto a Piacenza, sostituito da una copia.
Le prime notizie sul dipinto risalgono al 1836, quando il marchese Filippo Ala Ponzone lo donò al Comune di Cremona: allora non era ancora attribuito a Caravaggio, perfino il grande critico Longhi lo riteneva solo opera di un imitatore, sebbene ne riconoscesse la qualità di esecuzione. Nel 1951 però fu inserito nel catalogo della celeberrima mostra di Palazzo Reale, e in quella occasione, un altro esperto d’arte, Denis Mahon affermò che si trattava di un originale databile al 1606, ovvero una delle prime opere del periodo napoletano del pittore: questa tesi trovò conferma definitiva dopo pulitura del 1986, che evidenziò la qualità tecnica del Maestro. È un quadro mirabile, vicino nello stile alla Cena in Emmaus della Pinacoteca di Brera. San Francesco viene rappresentato curvo e sofferente mentre volge lo sguardo al crocifisso e al libro appoggiato sul teschio – è sempre una meditatio mortis, espressa in austeri dettagli: soprattutto in questi semplici oggetti traspare la grande intensità spirituale della predicazione volta al recupero della purezza dei valori evangelici. Fino al rinnegamento del proprio io: è possibile riconoscere nella fisionomia del Santo quella di Caravaggio stesso, colto in un momento di grande crisi spirituale?
(Sergio Gandini)