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Giovanni Pellizza da Volpedo
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Giovanni Pellizza da Volpedo, quasi come un tempo si diceva Andrea del Castagno e Marco d’Oggiono. Volpedo si trova in provincia di Alessandria, vicino a Tortona – si può dire che lo conosca da sempre, perché mio padre è piemontese, nativo della medesima provincia. E amava andare a Volpedo, soprattutto a pranzo in un luogo che, come certe vecchie trattorie di un tempo, era ospitato nella sala da pranzo di una cascina colonica. Nella mia memoria di bambino due elementi sono rimasti da allora: la cascina era situata fuori dal piccolo paese e occorreva attraversare il ponte sul torrente Curone – subito si arrivava nella piazza dove ancora alla domenica mattina si teneva il mercato che attirava tutti, agricoltori e signori anche dai paesi vicini: mi sembra di vedere i grandi animali, sconosciuti a chi era nato in città, e di sentire i sapori intensi di cibi che venivano offerti all’assaggio, come allora era costume fare. E se ora rifletto su questa opportunità che la vita mi ha offerto, quella di conoscere e camminare nelle vie e così di iniziare ad amare Volpedo ancora prima di sapere di Giovanni, provo un’intensa commozione.
È quindi più che doveroso per me segnalare l’apertura dal 26 settembre dell’esposizione Pellizza da Volpedo. I capolavori: resterà fino al 25 gennaio 2026 e rappresenta un significativo ritorno giacché proprio a Milano nel 1920 venne allestita l’importante mostra monografica presso la Galleria Pesaro. La galleria d'arte era stata creata nel 1917 dal collezionista Lino Pesaro e occupava parte degli ambienti dell’attuale museo Palazzo Poldi Pezzoli in Via Manzoni al civico 12: più precisamente la galleria era ospitata nell'ala sinistra del pianterreno del palazzo, erano tre sale in stile neoclassico in cui la presenza di colonne in granito creava un sapiente effetto di divisione, organizzato dallo stesso Pesaro in una cornice liberty, impreziosita da ferri battuti di Alessandro Mazzucotelli e mobili in noce di Eugenio Quarti. La galleria ospitò prevalentemente mostre d'arte contemporanea, organizzate secondo una concezione particolarmente moderna, in cui ai visitatori era data la possibilità di interagire e di confrontarsi con gli artisti: divenne così uno dei principali centri artistici e culturali in ambito milanese e nazionale, al punto da dimostrare a livello internazionale la centralità di Milano nel mondo artistico italiano. Qui, nel 1923 espose il primo nucleo di artisti del movimento Novecento (tra cui Funi, Sironi, Bucci), ma fu anche centro di promozione del Futurismo. Credo però che pochi ricordino che l'attività della galleria si concluse tragicamente il 31 dicembre 1937 con la Mostra dei sette di Brera, per il suicidio dello stesso Lino Pesaro, che era di origini ebraiche. Amedeo Angilella, uno degli espositori, in una lettera indirizzata a Giorgio Di Genova e da quest'ultimo pubblicata sulla sua Storia dell'arte italiana del '900, dichiarò: “Proprio la sera dell'ultimo giorno dell'esposizione è entrato un tizio, non so chi fosse, che con aria disperata ha annunciato che il proprietario si era suicidato perché in quel periodo gli ebrei erano perseguitati. Altro non posso dire, non era quello il tempo in cui si potessero fare commenti, quindi la cosa per noi sette è finita lì”.

La mostra attuale è organizzata dal Comune di Milano – GAM Galleria d’Arte Moderna insieme a METS Percorsi d’Arte, con la collaborazione col museo Pellizza da Volpedo, prestatori e ideatori di un percorso di visita che durante la mostra milanese si estenderà ai luoghi pellizziani: tale museo è nato nel 1990, in seguito alla donazione, già avvenuta nel 1966 da parte delle figlie  al Comune dello studio-atelier, ricco di importanti testimonianze sulla sua vita e produzione artistica e suo luogo di lavoro. Nel 1994 il museo fu aperto al pubblico e ricordo di averlo visitato poco dopo: era stato restaurato e riportato alle condizioni in cui lo aveva lasciato il pittore.

In verità Volpedo è oggi un paese di circa mille abitanti: non ha subito sostanziali modifiche da allora per cui invito il lettore non solo alla mostra milanese ma anche a visitare il museo e il paese stesso, in quanto la sua fisionomia non è mutata ed è possibile ritrovare quegli scorci del paese a fine Ottocento, che si possono vedere nei quadri presenti al GAM e perfino l'atmosfera delle tele che lo raffigurano.

Si tratta davvero di un’occasione unica in quanto il percorso espositivo della mostra di Milano riunisce quaranta lavori, tra dipinti e disegni, provenienti da collezioni pubbliche e private italiane e straniere: un nucleo di opere considerevole, se rapportato alla brevità della vita dell’artista, scomparso prematuramente a soli trentanove anni. La mostra è così raccolta nelle cinque sale al piano terra della Villa Reale (dedicate alle esposizioni temporanee della GAM) e prosegue al primo piano nella sala che ospita Il Quarto Stato. Qui si possono ammirare anche i cartoni preparatori del suo capolavoro, e infine anche l’immagine ormai iconica di Joseph Beuys prestata per l’occasione dalla storica galleria Marconi dove l’artista stesso aveva esposto. Insomma l’allestimento permette di seguire l’intera parabola artistica di Pellizza dagli anni della formazione fino alle estreme opere, presenta il valore aggiunto di estendere la visita anche alle raccolte permanenti del Galleria d’Arte Moderna in cui si trovano importanti tele di Previati, Grubicy, Segantini e Morbelli, e quindi di ricostruire il panorama complessivo in cui egli si mosse.

E bella mi sembra anche questa circostanza del ritorno, spero definitivo, de Il Quarto Stato alla GAM, avvenuta ormai nel luglio 2022, al termine delle varie peregrinazioni del quadro in altri luoghi, tra cui la sala della Giunta del Palazzo Marino e il Museo del Novecento di Milano.

Personalmente non considero Il Quarto Stato come il capolavoro di Pellizza ma certo è stato l’opera della sua breve vita, frutto di un lungo decennale processo creativo iniziato già nel 1891 con il bozzetto degli Ambasciatori della fame, nato dopo aver assistito a una manifestazione di protesta di un gruppo di operai e terminato nel 1901.

Analizzare questo dipinto richiederebbe certo un discorso a sé: mi limiterò a ciò che è essenziale. Il primo abbozzo venne appunto completato nell'aprile del 1894 e narra di una rivolta operaia avvenuta nella piazza Malaspina a Volpedo e tre soggetti sono posti davanti alla folla in protesta: questo terzetto posto dinanzi alla massa di gente sullo sfondo diventerà la peculiarità che ritorna e segna tutte le versioni successive dell’opera.  

In questa ricerca Giovanni realizza diverse varianti che dimostrano sia la sua personale ricerca di pittore sempre insoddisfatto della resa artistica del dipinto e attento alla resa cromatica nonché ai valori plastici, sia la presa di coscienza politica: sicuramente sulla decisione di riprendere questo opera per la terza volta pesò il brutale massacro perpetrato da Bava-Beccaris durante i disordini di Milano nel maggio 1898.

Eppure, al di là dell’ultimo titolo alla fine deciso da Pellizza con il quale il quadro è oggi conosciuto, il mondo raffigurato è un mondo misto di artigiani, operai e braccianti agricoli: i numerosi disegni e studi preparatori documentano che tutti i personaggi della prima fila corrispondono a modelli precisi, a persone che abitavano a Volpedo e che Giovanni conosceva in prima persona. A cominciare dalla donna scalza col bambino in braccio: è Teresa Bidone, figlia di Antonio e Tranquilla Mandirola, nata a Volpedo nel 1875 e che nel 1892 sposò Giovanni dal quale ebbe tre figli: Maria, Nerina e Pietro e che morì nel 1907 dopo aver dato alla luce il terzogenito.

Le figure della prima fila del dipinto sono a tutti gli effetti persone reali, non meri personaggi di un’azione politica, sono gli abitanti di Volpedo stessa, colti nella loro realtà quotidiana; eppure sono, nel medesimo tempo, figure pienamente ideali. È questa sintesi di realtà e idealità a rendere quest’opera così viva e straordinaria: la particolare soluzione compositiva evoca sia il realismo di una manifestazione di strada, sia il classicismo di un fregio antico: come ebbe a dire Pellizza stesso, riesce a fondere armoniosamente i “valori riferiti all'antica civiltà classica alla moderna consapevolezza dei propri diritti civili”. Non è facile retorica, Giovanni si dedicò a quest’opera interamente, utilizzando sia disegni preparatori sia provini fotografici: è reale e ideale nello stesso tempo, e da queste figure emana la stessa espressività composta e nitida che da quelle della Scuola di Atene di Raffaello. Questa è la mia personale emozione di fronte a questo quadro, ma il giudizio è condiviso anche dal critico Pasqualone, in un articolo apparso su geometrie fluide.com.
Aggiungo ancora che in una precedente versione Pellizza aveva scelto il titolo di Fiumana:

lo scopo di Pellizza era quello di restituire vitalità a un popolo che non era più “una natura morta, ma una massa vivente e palpitante, piena di speranze umili o di minacce oscure” come dice bene la critica Maria Mimita Lamberti in Storia dell'arte italiana. Forse preferisco proprio questo titolo: meglio esprime la fede di Giovanni nell’avvenire di un Ideale, per nulla inteso come una ideologia astratta, da realizzare in modo violento, contrapponendosi ad altri attori storici, ma come la certezza e l’evidenza di una inarrestabile forza naturale destinata a travolgere i privilegi e le ingiustizie di un mondo ormai storicamente vecchio e anacronistico.
 
Come sempre è mia abitudine, visitata la mostra, la rivedo dall’inizio in modo da fissare nella mente i dipinti coi quali ho sentito una maggiore risonanza interiore: volentieri invito il lettore a fare insieme questa passeggiata. Mentre la prima sala raccoglie i suoi esordi come pittore ancora naturalista, nella seconda appare subito un dipinto straordinario: Panni al sole. Occorre premettere un chiarimento: appare una data apocrifa (1905), scritta da terzi, e la firma dell’artista, aggiunta dopo la sua morte: questo ha spinto a interpretare l’opera come un radicale punto di arrivo di astrazione del colore. Studio più recenti hanno invece a rivedere questa ipotesi e a riportare la data, più verosimilmente, tra il 1894 e il 1895: il dipinto appare come una delle prime prove di divisionismo di Giovanni, applicato al motivo della biancheria al sole, di cui l’artista aveva già realizzato alcuni bozzetti dal vero.

Se confrontiamo questo con i quadri presenti nella prima sala, ancora immerso nella pesantezza della tavolozza verista di fine ottocento, appare meravigliosa la rivoluzione visiva resa possibile dall’incontro con il divisionismo creato da Seurat. Come è noto questo artista stendeva sulla tela piccoli punti di colore puro e distinto, anziché mescolare i colori sulla tavolozza, fondandosi su studi scientifici che dimostravano come l’occhio dell'osservatore, da una certa distanza, miscela i punti otticamente, fondendoli e creando la percezione di un colore più luminoso e vibrante di quanto non sarebbe con i pigmenti mescolati tradizionalmente. Pellizza non abbandonerà più questa tecnica rivoluzionaria anche se poi la evolverà in modo personale.

Un altro quadro che contemplo a lungo è Lo specchio della vita, il grande (cm 132×291) olio su tela del 1898 che viene dalla Galleria d’Arte Moderna Torino: un merito indubbio di questa esposizione è di aver raccolto quasi tutte le opere di Pellizza, alcune da collezioni private e quindi poco viste. La veduta è ambientata sul greto del Curone e propone un brano di natura privo di ogni presenza umana: nessuna tonalità cromatica risulta dominante, se non una vasta e accesa intensità di luce chiara e cristallina. La linea orizzontale dell’argine viene ripetuta dalla sequenza di pecore che giunge esattamente a metà dell’altezza della tela; a questa linea ideale convergono, pur senza toccarla direttamente, le pozze d’acqua in primo piano, ed essa ribadita dall’ampia pianura retrostante a cui convergono le morbide linee dei colli e delle macchie d’alberi. E penso che, per me almeno, il Giovanni più autentico è da ricercare proprio in questa visione poetica della natura come lui stesso ci rivela nelle sue parole: sento il bisogno di dipingere “quadri dove non sono pensieri filosofici e politici ma la natura semplice e schietta, fonte di sentimento e poesia”.

Eppure il sottotitolo rivela che essa si ispira al verso dantesco “E ciò che l’una fa, e l’altre fanno” (Purgatorio, canto III, 82): intuisco allora come questo quadro possa essere letto come un contraltare del Quarto Stato – qui le pecore si uniformano semplicemente all’istinto naturale, mentre nel mondo umano è presente la libertà di scelta ed è possibile modificare il proprio destino – ma solo in parte.

Mi soffermo poi sul pentittico L’amore nella vita, opera incompiuta e particolarmente travagliata, della quale che posso vedere per la prima volta insieme i tre dipinti realizzati del progetto originale, in cui il pittore voleva rappresentare il diverso modo di manifestarsi nelle varie età della vita di questo sentimento universale dalla grande intensità vitale, partendo dall’amore ingenuo, per passare a quello sentimentale, carnale, utilitario e mistico. Le tre tele rimaste, eseguite in tempi diversi ma comunque tutte entro il 1905, mostrano la perenne ricerca di Pellizza e la maestria ormai raggiunta nella grande varietà di esecuzione tecnica: a partire dal divisionismo con effetti di luminismo diffuso si passa poi alla massima saturazione del colore e infine a un progressivo spegnersi della luce.

Intuisco e riformulo immediatamente nella mente: il sogno d’amore o l’amore ideale, poi l'amore carnale, in cui appare la rappresentazione deformata dei due amanti, come se fossero visti attraverso l'occhio di una lente. E questa tecnica mi rimanda all’universo simbolico e poetico che era anche di Giovanni Segantini.

Il terzo e ultimo quadro rimane in parte un enigma: un vecchio si scalda accanto a una chiusa. Di primo acchito il quadro colpisce per l'intensa dominante rossa stesa dal pittore: ma cosa intendeva rappresentare? Come leggere in esso la quiete del mistico? Mi appare come un vero presagio del destino della vita terrena di Pellizza.

Poco dopo la morte di parto della moglie Teresa e del terzogenito appena neonato, il 14 giugno 1907 Giuseppe Pellizza si impicca nel proprio studio di Volpedo. Aveva appena trentanove anni. Come non pensare a Van Gogh, che si sparò il 27 luglio 1890 ad Auvers-sur-Oise e morì due giorni dopo, il 29 luglio, all'età di 37 anni – e la lista di pittori morti suicidi mi appare sempre impressionante, poiché comprendo bene come nessuno più di un pittore sente di amare i colori della vita.

In una nota diaristica del 16 giugno Umberto Boccioni commenta la notizia così: “Ieri si è ucciso a 39 anni. S’è impiccato dopo un mese dalla morte della moglie evidentemente vinto da tale scomparsa! […] Era così dolce, così sereno e così pieno di fiducia nell’avvenire! L’avevo conosciuto a Roma e avevamo molto discusso. Come artista non era forte. Era troppo tenue, troppo mite; nella vita forse era lo stesso e si è ucciso. È terribile.” Sempre a proposito del suicidio dell’amico, Boccioni trascrive nel suo diario questa frase tratta dal De profundis di Oscar Wilde: “La verità nell’arte è l’unità di una cosa con se stessa: ciò che è esterno fatto espressione con ciò che è interno”. 

Con questi pensieri nella mente contemplo a lungo l’ultima tela del trittico: forse l'artista al volgere della sua breve e inquieta esistenza si è davvero rifugiato nel seno di una natura non panica ma domestica, a un tempo ideale e rasserenatrice. Ma non intendo lasciare il lettore con questa immagine. Nelle due ultime sale stanno due opere, entrambe ultimate nel 1906, Il ponte, proveniente dalla pinacoteca di Tortona, e La neve, dal formato quadrato che si trova in una collezione privata: vanno lette, a mio avviso, in modo complementare, come commossa testimonianza dell’amore di Giovanni per la Natura. Il ponte è, ancora una volta, una presenza nella realtà di Volpedo, ma, nella visione dell’artista, essa è soltanto una linea che divide terra e cielo. Il cielo è un palpitare di azzurro tenue abitato da commosse nuvole rosa, e si annuncia anche il profilo indaco dei monti; la terra è ravvivata dal torrente, che specchia i colori sublimi del cielo in modo commovente. E mi viene subito da rettificare la precedente espressione: quella linea suggerita dal ponte non divide affatto, ma salda terra e cielo in una indivisibile unità. Il momento di questa veduta, soprattutto per i colori, rimanda all’autunno, mentre l’altro quadro ci racconta dell’inverno: in ragione della stagione i colori paiono subire una sorta di rarefazione, e ridursi solo a masse scure e al biancore immacolato della neve, eppure, guardando meglio, quel bianco è saturo di iridescenze e vibrazioni luminose, trasparente e trascendente.

Osservando con maggiore attenzione le due chiuse mi rimandano alla presenza misteriosa della chiusa nell’ultimo dei pannelli del trittico, in cui un vecchio si scalda al fuoco davanti a una chiusa con una vecchia in secondo piano, così da risultare pressoché invisibile. E colgo la profonda unità di ispirazione presente nel mondo di Giovanni.

Così ritorno nella seconda sala a contemplare di nuovo Sul fienile, la grande opera iniziata già nel 1892, esposta nel 1894, ma ancora ripresa nel 1895: consapevole della sua importanza, il pittore la considerava come il vero e proprio inizio di una sua nuova fase pittorica, già attenta ai temi sociali e capace di instaurare un più stringente rapporto col vero grazie all’utilizzo della nuova tecnica divisionistica. Se cedessimo alla tentazione narrativa potremmo vedere nell’opera quasi un racconto: un figlio della gleba partito da casa per guadagnare con marra e piccone il pane per la sua famiglia, si riduce a morire sul fienile lontano da essa e un sacerdote gli somministra il viatico – ma il paesaggio suggerito dai tetti appare piuttosto come quello ideale di Volpedo. Allora, di colpo, il quadro assume un nuovo significato, più vero: la tematica sociale resta presente, ma non più determinante, il quadro vorrebbe indicare piuttosto l’eterno contrasto tra la vita e la morte e, nell’istante supremo della morte, il vecchio è già tornato nella pace della casa. Ma la Bellezza dell’immagine è proprio nella potenza assoluta del contrasto tra la parte in primo piano, già avvolta nell’ombra della morte, e la visione della luce, in fondo alla veduta del paese.

L’esposizione si conclude correttamente con il quadro lasciato incompiuto da Pellizza: Membra stanche, detto anche Famiglia di Emigranti. Come sempre questa tela di notevoli dimensioni venne proceduta da studi preparatori, lo studio dei quali ci permette di cogliere come nel processo creativo il dato fenomenico e sociale si vada rarefacendo, in modo che la sintesi formale non lasci spazio a dettagli descrittivi. Nei disegni e bozzetti precedenti si vedono ancora alcune figure di manovali distribuite sul proscenio, anonime masse scure piegate su pesanti carriole che ricordano l'epopea dei lavoratori come nel Quarto Stato. Nell’opera definitiva invece, come già nel Il Ponte, l'eloquente messaggio sociale ha subito una radicale metamorfosi ed appare solo una più sottile idea simbolica: nato come soggetto sociale di compassione delle dure condizioni di vita dei lavoratori nelle risaie, costretti a migrazioni stagionali, il dipinto è ora un paesaggio dove risalta una catena montuosa dal profilo dentato. Per inciso ricordo l’amicizia profonda tra i due Giovanni, Pellizza e Segantini: proprio dopo un viaggio in Engadina del 1904, Pellizza aveva incominciato a scegliere le montagne alpine come sfondo grandioso e assoluto di prati e campagne della sua terra. Nell’armonia assoluta che lega uomo e natura si riassorbono gli episodi minuti di vita quotidiana che si svolgono sul greto del Curone: tutto intorno, la Natura, il nulla: solo la luce silenziosa della sera che scende lenta e portatrice di quiete. Come pittore non posso che sottolineare, infine, come le quattro figure siano sintetizzate in blocchi plastici e organizzate entro una forma a triangolo isoscele, di cui l’uomo sdraiato, parte del terreno, è la base, un’armonia di forme pure che mi rammentano la Grande Jatte di Seurat, mentre l’estrema saturazione del colore e l’intensificazione della gamma di toni scelti per aumentare la potenza espressiva, indica una grande apertura verso l’uso espressionista del colore. È la conclusione ideale della via di Pellizza, eppure non riesco a lasciare le sale senza ritornare a salutare Il sole o Il sole nascente, un vasto olio su tela, di forma quadrata, che personalmente ritengo da sempre la più adatta alla pura astrazione, del 1904, conservato a Roma, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna.

Scrivendo all’amico Occhini nell’aprile 1903 Pellizza gli parlava di questo suo quadro precisando di voler trattare “la bella natura che assorbe l’uomo e lo annienta per campeggiare essa stessa sfolgorando la sua immortale bellezza…”. Era questo intenso desiderio di cogliere gli spettacoli più emozionanti della natura che lo spingeva a salire, ancora in piena notte, le colline circostanti e raggiungere oltre Monleale la località Cenelli in regione Brada, per attendere, pronto davanti al suo cavalletto, l’apparire sfolgorante del sole. Come scriveva a Matteo Olivero egli cercava di rappresentare la natura nei suoi spettacoli più grandiosi: l’istante che genera la vita, il passaggio dalle tenebre alla luce era il punto nodale di tutto il mondo naturale e la pittura, dopo aver colto il manifestarsi della luce negli oggetti, poteva risalire alla generazione della vita. Così il sole così appare sulla linea dei colli colla sua immagine sferica che coincide col massimo bianco e da cui irraggia una fitta sequenza di tratti che vanno progressivamente allungandosi verso i bordi della tela, passando dal giallo all’arancio, al viola, al verde. Il bagliore non elimina ma riassorbe in sé e vela la percezione della natura circostante, dell’ampia valle in primo piano con alberi e cascinali di cui si intravedono le forme essenziali.

Anche quest’opera venne fraintesa negli ambienti del tempo: chi volle vederla nei termini di un angusto verismo, chi rimane ammirato dal mero effetto ottico, chi addirittura preferì salutarlo come il sole dell’avvenire, facendo del sole nascente, cioè dell’alba di un nuovo giorno, l’alba di un nuovo secolo che avrebbe potuto conoscere più a fondo l’essenza dell’universo e realizzare una rigenerazione sociale. Sono i miti del positivismo fin de siècle al quale la nostra epoca non può più prestare fede, mentre, a mio avviso, il motivo naturalistico del sole nascente incarna profondamente la volontà simbolista del maturo Pellizza. Da parte mia preferisco cogliere in questa tela l’autentica vena panteista di Giovanni, che poi si espresse nelle tele incentrate sul tema del ciclo nascita, morte, rinascita, prima analizzate, in cui l’uomo partecipa al ritmo della Natura senza essere il protagonista, ma semplice parte del Paesaggio – forse la vera tradizione di cui avrebbe desiderato far parte era quella di Theodore Rousseau, Millet, Corot, Constable e Turner che avevano dipinto per affermare l’autonomia e il valore assoluto del paesaggio, vero schermo attraverso il quale si rivela la Natura, e dietro di lei traluce il Divino.

​(Sergio Gandini)
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