Letture
Koan e calligrafia
Il Bìyán lù, in giapponese Hekigan roku, è forse il classico più importante della letteratura cinese ch’an. Potrebbe essere anche tradotto come il resoconto della scogliera azzurra, ma ormai è conosciuto come La Raccolta della Roccia Blu, almeno dal primo novembre 1978, da quando fu pubblicata da Ubaldini Editore in tre volumi la traduzione compiuta da Fabrizio Pregadio del testo trasposto e commentato da Thomas e J. C. Cleary, con l’autorevole prefazione di Taizan Maezumi Roshi.
Questo testo è ormai esaurito da tempo ma su internet è possibile sia reperire la ristampa anastatica sia ordinare l’opera come libro usato, ma anche scaricarla in formato pdf da diversi siti. Sono ormai quarant’anni che leggo questo testo e vi ritorno con attenzione e stupore sempre intatti, eppure esito nel parlare intorno ad esso.
Nella sostanza si presenta come una raccolta di casi pubblici che risalivano probabilmente alla dinastia Tang se non ancora prima: in essa sono esibiti cento aneddoti tramandati da racconti tradizionali di maestri e discepoli ch’an. Come è tipico di un testo così complesso esso affonda le sue radici autentiche nella tradizione orale e si presenta come un’opera a più mani: a parte la trasmissione orale dei casi pubblici (peraltro brevi e quindi facili da memorizzare) la Raccolta fu costruita dal grande maestro Hsueh Tou della dinastia Sung, che scelse i casi tra tutti quelli esistenti e soprattutto compose una poesia per ciascuno di essi. Ma appena sei anni dopo la sua morte, un altro eccellente maestro ch’an, Yuan Wu, presentò questo testo per la prima volta come una serie di lezioni ai suoi studenti durante il ritiro tradizionale della pratica estiva di novanta giorni, probabilmente tra il 1111 e il 1117: questo dato è confermato dalle parole stesse di Yuan Wu, che afferma letteralmente per tutta l'estate ho inventato complicazioni in modo verboso... e ho fatto inciampare tutti i monaci della terra. Dunque il libro si presenta costituito dalla serie dei casi tradizionali, accompagnati dai versi composti da Hsueh Tou, e suggellati dalle introduzioni, le osservazioni e i commenti di Yuan Wu. Già originariamente questi commentari obbedivano all’esigenza di allontanare gli studenti dalla tentazione di comprendere lo Zen concettualmente e intellettualmente invece che sulla base della propria esperienza immediata. Ma l’essere umano sembra davvero restio a impegnarsi direttamente e la storia contiene un ammaestramento che offre spunto alla riflessione: il successore di Yuan Wu, Dahui Zonggao (1089–1163) scrisse molte lettere agli studenti laici insegnando la pratica della concentrazione sui koan durante la meditazione, ma si rifiutava di spiegare e analizzare i koan presenti nella raccolta. Ma dal momento che Dahui dovette riconoscere che gli studenti preferivano impegnarsi in troppi discorsi intellettuali sui koan, bruciò i blocchi di legno usati per stampare la raccolta allo scopo di salvare i discepoli dall'illusione. In ogni caso qualche esemplare della Raccolta sopravvisse, se è vera la leggenda che narra come il grande Dōgen (1200–1253), che portò l’autentico ch’an in Giappone, durante una lunga visita in Cina si trovò davanti per la prima volta questo testo e rimase sveglio tutta la notte per farne una copia manoscritta. Difficile credere che sia bastata una notte, viste le dimensioni di questa scrittura, ma chiunque abbia familiarità con lo Shōbōgenzō, l’opera maggiore di Dōgen, non mancherà di rilevare le analogie e l’uso continuo dei koan che il Maestro mutuò dalla conoscenza diretta di questa raccolta. Comunque il testo venne ricostituito all'inizio del XIV secolo da un laico, Zhang Mingyuan, anche se rimase mancante delle parti conclusive.
La scheda di lettura dell’editrice Ubaldini ci informa che “La Raccolta della Roccia Blu è l’opera più venerata della tradizione buddhista zen, in quanto ci rivela che cos’è l’illuminazione, la vita illuminata, e come i patriarchi e i maestri del passato si sforzavano di raggiungerla, la ottenevano, la realizzavano e la praticavano. A mio avviso invece non giova leggere il testo con questo spirito; piuttosto mi limiterei ad affermare che Yuan Wu riesce a costruire un’esperienza di pratica in grado di comunicare l’essenza del ch’an.
Spiegare che cosa sia un koan mi sembra superfluo perché si tratta ormai di una nozione comune e, come tutte le nozioni di cui si parla troppo, corre solo il rischio di essere fraintesa; sarebbe semplicistico dichiarare che essi ci permettono di tornare bambini, quando era intatto il nostro sguardo meravigliato sul mondo, oppure che, mettendo in scacco sistematicamente l’intelletto, ci abituano all’idea che esso non è il nostro strumento più potente, o ancora spiegare che seminano dubbi nella mente dell’interlocutore e parlano direttamente al cuore, sulla scia del celeberrimo aforisma di Pascal: “Le cœur a ces raisons que la raison ne connait guère” – non è forse anche questo un koan?
Mi concentrerei piuttosto sul termine di cui mi sono servito all’inizio: questi aneddoti zen non sono affatto spiegati concettualmente, ma sono propriamente esibiti. Il satori, l’illuminazione, non è qualcosa che possa essere spiegato a parole – è soltanto una esperienza e come tale non può essere comunicata, si può solo cercare di favorire il complesso insieme di condizioni che possono attuarla.
Perciò non pretendiamo che il Bìyán lù ci riveli che cosa sia l’illuminazione e possa indicarci facili scorciatoie per aggirare gli ostacoli di una pratica quotidiana e assidua, ma innegabilmente questi casi sono il documento vivo di generazioni di pratica illuminata: dunque esercitiamo tutta l’apertura necessaria per ascoltare questi racconti e metterci in sintonia con i koan celati in essi – non sarà affatto facile, all’inizio, e quindi lasciamoci sorprendere e commuovere, irritare o respingere da questi bizzarre narrazioni. Avremo così la possibilità di fare la conoscenza diretta di Bodhidharma, di Lin Chi, di Hsueh Feng e di Yun Men, per esempio: infatti diversi saggi ch’an ritornano in alcuni casi differenti e potremo percorrere insieme a loro un tratto di Via, fino ad abituarci alla loro compagnia; altri invece come Kuei Shan e Mola di Ferro Liu sono protagonisti di un solo episodio e, tuttavia, la loro apparizione resta egualmente indimenticabile.
Dopo questa lunga ma indispensabile introduzione posso limitarmi solo a far assaggiare al lettore almeno un caso, e scelgo questo che mi sembra cadere a proposito dopo la breve introduzione alla calligrafia cinese proposta in uno dei ritiri offerti dalla nostra Associazione.
Ecco il caso: “Ch’en Ts’ao, presidente dei ministri, andò a trovare Tzu Fu. Quando Fu lo vide arrivare, disegnò immediatamente un cerchio. Ts’ao disse: “Arrivare in questo modo da parte mia è già perdere il punto essenziale; e quanto di più lo è continuare disegnando un cerchio”: Allora Fu chiuse la porta della stanza”.
L’alacre Yuan Wu fa precedere a ogni caso un suggerimento, lo accompagna da note e da un elaborato commento: al termine di esso però si arrende e cede rispettosamente la parola a Hsueh Tou, giacché considera le sue poesie infinitamente più eloquenti di qualunque spiegazione possibile, e poi di nuovo stila note di spiegazione alla poesia e un commento finale – eppure si dimostra maestro nel rispettare lo spirito autentico del ch’an: non aspettatevi da lui che possa spiegarvi questo caso, poiché si tratta di un koan e solo ciascuno di voi potrà parlare.
Infatti così annota a proposito di questo caso: Ci arriverete solo se lo vedete qui.
In qualsiasi altro luogo, non può essere rivelato: dev’essere preso e diviso con un viaggiatore dei mari e delle montagne privo di preoccupazioni…Qui deve essere una persona che non è intaccata dalle preoccupazioni o dall’assenza di preoccupazioni, da sentimenti spiacevoli o da situazioni piacevoli, o dai Buddha e dai Patriarchi: solo allora riuscirete a raccoglierlo nel modo giusto.
Si potrebbe continuare ancora a lungo intorno all’illuminazione – in fondo è come la Vita: è già qui e ora – se desideri ottenere ciò che già hai necessariamente finisci per allontanarti da esso, finché lo perderai. Questi adepti laici o monaci, ministri o persone comuni, sono sempre in cerca di qualcosa, non riescono a fare a meno di chiedere o pensare – basta praticare l’arte del vivere. Vivere è un’arte: occorre prendere e lasciare andare, secondo le circostanze.
Ognuno ha il gioiello e non se ne accorge – a volte sente perfino il peso di averlo.
La verità è solo nella relazione che permette una autentica condivisione.
A volte la vita è anche un peso – nessuno monaco o nessun illuminato può chiamarsi fuori dalla nascita/morte.
In un altro punto della Raccolta Yuan Wu osserva: Quando gli antichi agivano in questo modo, era qualcosa che non potevano fare a meno di fare.
È inutile cercare di scimmiottare gli antichi: non puoi ripetere la prontezza delle loro risposte ma osserva semplicemente la linearità e la limpidezza di esse. Nessuna sbavatura intellettuale o emotiva. Quando noi parliamo invece spesso siamo solo trascinati dalla naturale corrente delle parole, non riusciamo nemmeno a tenerci fermi a un significato o a una intenzione, aggiungiamo solo un balbettare, come diceva un maestro, per organizzare sintatticamente il vuoto.
Così potremmo aggiungere che in cinese la parola che significa gabbia può significare anche cerchio. Certamente il cerchio in sé può evocare un’immagine di apertura. Ma non potrai servirti di questa nozione per costruirti una ennesima interpretazione intellettualistica di questo koan.
Una gabbia può essere utile a prendere le tartarughe, non serve per le balene.
Scrivere kanji (i caratteri tradizionali della scrittura cinese) non deve essere un altro stratagemma per bloccare il Reale, come si fissano farfalle con uno spillo. Piuttosto senti la vita circolare nella tua scrittura?
La semplicità di Hsueh Tou è davvero meritevole di attenzione: esperto di tutta la letteratura ch’an, conosceva perfettamente il caso che si apprestava a considerare, bruciava un bastoncino d’incenso, scriveva la sua poesia.
Che in apparenza poteva anche parlare d’altro – eppure colpiva nel centro.
Purtroppo le poesie di Hsueh Tou non ci sono pervenute nei loro caratteri originali. Ma se chiudo gli occhi mi pare di vedere Hsueh Tou davanti a me, mentre brucia il bastoncino d’incenso e traccia in sōsho (il corsivo cinese chiamato anche scrittura folle o stile d'erba) la sua indecifrabile poesia.
Preparazione postura gesto – a noi rimangono solo delle parole, mentre sarebbe necessario penetrare lo spirito di quei segni.
Comunque così narra la traduzione della sua poesia:
Il gioiello gira in tondo, tintinnando come la giada –
Lo portano i cavalli, lo trascinano gli asini; caricalo su una nave di ferro.
Dividilo con un viaggiatore dei mari e delle montagne privo di preoccupazioni.
Quando va a pesca di tartarughe, cala una trappola a forma di gabbia.
Hsueh Tou disse anche: “Nessun monaco vestito di pezze al mondo riesce a saltar
fuori”.
(Sergio Gandini)
Questo testo è ormai esaurito da tempo ma su internet è possibile sia reperire la ristampa anastatica sia ordinare l’opera come libro usato, ma anche scaricarla in formato pdf da diversi siti. Sono ormai quarant’anni che leggo questo testo e vi ritorno con attenzione e stupore sempre intatti, eppure esito nel parlare intorno ad esso.
Nella sostanza si presenta come una raccolta di casi pubblici che risalivano probabilmente alla dinastia Tang se non ancora prima: in essa sono esibiti cento aneddoti tramandati da racconti tradizionali di maestri e discepoli ch’an. Come è tipico di un testo così complesso esso affonda le sue radici autentiche nella tradizione orale e si presenta come un’opera a più mani: a parte la trasmissione orale dei casi pubblici (peraltro brevi e quindi facili da memorizzare) la Raccolta fu costruita dal grande maestro Hsueh Tou della dinastia Sung, che scelse i casi tra tutti quelli esistenti e soprattutto compose una poesia per ciascuno di essi. Ma appena sei anni dopo la sua morte, un altro eccellente maestro ch’an, Yuan Wu, presentò questo testo per la prima volta come una serie di lezioni ai suoi studenti durante il ritiro tradizionale della pratica estiva di novanta giorni, probabilmente tra il 1111 e il 1117: questo dato è confermato dalle parole stesse di Yuan Wu, che afferma letteralmente per tutta l'estate ho inventato complicazioni in modo verboso... e ho fatto inciampare tutti i monaci della terra. Dunque il libro si presenta costituito dalla serie dei casi tradizionali, accompagnati dai versi composti da Hsueh Tou, e suggellati dalle introduzioni, le osservazioni e i commenti di Yuan Wu. Già originariamente questi commentari obbedivano all’esigenza di allontanare gli studenti dalla tentazione di comprendere lo Zen concettualmente e intellettualmente invece che sulla base della propria esperienza immediata. Ma l’essere umano sembra davvero restio a impegnarsi direttamente e la storia contiene un ammaestramento che offre spunto alla riflessione: il successore di Yuan Wu, Dahui Zonggao (1089–1163) scrisse molte lettere agli studenti laici insegnando la pratica della concentrazione sui koan durante la meditazione, ma si rifiutava di spiegare e analizzare i koan presenti nella raccolta. Ma dal momento che Dahui dovette riconoscere che gli studenti preferivano impegnarsi in troppi discorsi intellettuali sui koan, bruciò i blocchi di legno usati per stampare la raccolta allo scopo di salvare i discepoli dall'illusione. In ogni caso qualche esemplare della Raccolta sopravvisse, se è vera la leggenda che narra come il grande Dōgen (1200–1253), che portò l’autentico ch’an in Giappone, durante una lunga visita in Cina si trovò davanti per la prima volta questo testo e rimase sveglio tutta la notte per farne una copia manoscritta. Difficile credere che sia bastata una notte, viste le dimensioni di questa scrittura, ma chiunque abbia familiarità con lo Shōbōgenzō, l’opera maggiore di Dōgen, non mancherà di rilevare le analogie e l’uso continuo dei koan che il Maestro mutuò dalla conoscenza diretta di questa raccolta. Comunque il testo venne ricostituito all'inizio del XIV secolo da un laico, Zhang Mingyuan, anche se rimase mancante delle parti conclusive.
La scheda di lettura dell’editrice Ubaldini ci informa che “La Raccolta della Roccia Blu è l’opera più venerata della tradizione buddhista zen, in quanto ci rivela che cos’è l’illuminazione, la vita illuminata, e come i patriarchi e i maestri del passato si sforzavano di raggiungerla, la ottenevano, la realizzavano e la praticavano. A mio avviso invece non giova leggere il testo con questo spirito; piuttosto mi limiterei ad affermare che Yuan Wu riesce a costruire un’esperienza di pratica in grado di comunicare l’essenza del ch’an.
Spiegare che cosa sia un koan mi sembra superfluo perché si tratta ormai di una nozione comune e, come tutte le nozioni di cui si parla troppo, corre solo il rischio di essere fraintesa; sarebbe semplicistico dichiarare che essi ci permettono di tornare bambini, quando era intatto il nostro sguardo meravigliato sul mondo, oppure che, mettendo in scacco sistematicamente l’intelletto, ci abituano all’idea che esso non è il nostro strumento più potente, o ancora spiegare che seminano dubbi nella mente dell’interlocutore e parlano direttamente al cuore, sulla scia del celeberrimo aforisma di Pascal: “Le cœur a ces raisons que la raison ne connait guère” – non è forse anche questo un koan?
Mi concentrerei piuttosto sul termine di cui mi sono servito all’inizio: questi aneddoti zen non sono affatto spiegati concettualmente, ma sono propriamente esibiti. Il satori, l’illuminazione, non è qualcosa che possa essere spiegato a parole – è soltanto una esperienza e come tale non può essere comunicata, si può solo cercare di favorire il complesso insieme di condizioni che possono attuarla.
Perciò non pretendiamo che il Bìyán lù ci riveli che cosa sia l’illuminazione e possa indicarci facili scorciatoie per aggirare gli ostacoli di una pratica quotidiana e assidua, ma innegabilmente questi casi sono il documento vivo di generazioni di pratica illuminata: dunque esercitiamo tutta l’apertura necessaria per ascoltare questi racconti e metterci in sintonia con i koan celati in essi – non sarà affatto facile, all’inizio, e quindi lasciamoci sorprendere e commuovere, irritare o respingere da questi bizzarre narrazioni. Avremo così la possibilità di fare la conoscenza diretta di Bodhidharma, di Lin Chi, di Hsueh Feng e di Yun Men, per esempio: infatti diversi saggi ch’an ritornano in alcuni casi differenti e potremo percorrere insieme a loro un tratto di Via, fino ad abituarci alla loro compagnia; altri invece come Kuei Shan e Mola di Ferro Liu sono protagonisti di un solo episodio e, tuttavia, la loro apparizione resta egualmente indimenticabile.
Dopo questa lunga ma indispensabile introduzione posso limitarmi solo a far assaggiare al lettore almeno un caso, e scelgo questo che mi sembra cadere a proposito dopo la breve introduzione alla calligrafia cinese proposta in uno dei ritiri offerti dalla nostra Associazione.
Ecco il caso: “Ch’en Ts’ao, presidente dei ministri, andò a trovare Tzu Fu. Quando Fu lo vide arrivare, disegnò immediatamente un cerchio. Ts’ao disse: “Arrivare in questo modo da parte mia è già perdere il punto essenziale; e quanto di più lo è continuare disegnando un cerchio”: Allora Fu chiuse la porta della stanza”.
L’alacre Yuan Wu fa precedere a ogni caso un suggerimento, lo accompagna da note e da un elaborato commento: al termine di esso però si arrende e cede rispettosamente la parola a Hsueh Tou, giacché considera le sue poesie infinitamente più eloquenti di qualunque spiegazione possibile, e poi di nuovo stila note di spiegazione alla poesia e un commento finale – eppure si dimostra maestro nel rispettare lo spirito autentico del ch’an: non aspettatevi da lui che possa spiegarvi questo caso, poiché si tratta di un koan e solo ciascuno di voi potrà parlare.
Infatti così annota a proposito di questo caso: Ci arriverete solo se lo vedete qui.
In qualsiasi altro luogo, non può essere rivelato: dev’essere preso e diviso con un viaggiatore dei mari e delle montagne privo di preoccupazioni…Qui deve essere una persona che non è intaccata dalle preoccupazioni o dall’assenza di preoccupazioni, da sentimenti spiacevoli o da situazioni piacevoli, o dai Buddha e dai Patriarchi: solo allora riuscirete a raccoglierlo nel modo giusto.
Si potrebbe continuare ancora a lungo intorno all’illuminazione – in fondo è come la Vita: è già qui e ora – se desideri ottenere ciò che già hai necessariamente finisci per allontanarti da esso, finché lo perderai. Questi adepti laici o monaci, ministri o persone comuni, sono sempre in cerca di qualcosa, non riescono a fare a meno di chiedere o pensare – basta praticare l’arte del vivere. Vivere è un’arte: occorre prendere e lasciare andare, secondo le circostanze.
Ognuno ha il gioiello e non se ne accorge – a volte sente perfino il peso di averlo.
La verità è solo nella relazione che permette una autentica condivisione.
A volte la vita è anche un peso – nessuno monaco o nessun illuminato può chiamarsi fuori dalla nascita/morte.
In un altro punto della Raccolta Yuan Wu osserva: Quando gli antichi agivano in questo modo, era qualcosa che non potevano fare a meno di fare.
È inutile cercare di scimmiottare gli antichi: non puoi ripetere la prontezza delle loro risposte ma osserva semplicemente la linearità e la limpidezza di esse. Nessuna sbavatura intellettuale o emotiva. Quando noi parliamo invece spesso siamo solo trascinati dalla naturale corrente delle parole, non riusciamo nemmeno a tenerci fermi a un significato o a una intenzione, aggiungiamo solo un balbettare, come diceva un maestro, per organizzare sintatticamente il vuoto.
Così potremmo aggiungere che in cinese la parola che significa gabbia può significare anche cerchio. Certamente il cerchio in sé può evocare un’immagine di apertura. Ma non potrai servirti di questa nozione per costruirti una ennesima interpretazione intellettualistica di questo koan.
Una gabbia può essere utile a prendere le tartarughe, non serve per le balene.
Scrivere kanji (i caratteri tradizionali della scrittura cinese) non deve essere un altro stratagemma per bloccare il Reale, come si fissano farfalle con uno spillo. Piuttosto senti la vita circolare nella tua scrittura?
La semplicità di Hsueh Tou è davvero meritevole di attenzione: esperto di tutta la letteratura ch’an, conosceva perfettamente il caso che si apprestava a considerare, bruciava un bastoncino d’incenso, scriveva la sua poesia.
Che in apparenza poteva anche parlare d’altro – eppure colpiva nel centro.
Purtroppo le poesie di Hsueh Tou non ci sono pervenute nei loro caratteri originali. Ma se chiudo gli occhi mi pare di vedere Hsueh Tou davanti a me, mentre brucia il bastoncino d’incenso e traccia in sōsho (il corsivo cinese chiamato anche scrittura folle o stile d'erba) la sua indecifrabile poesia.
Preparazione postura gesto – a noi rimangono solo delle parole, mentre sarebbe necessario penetrare lo spirito di quei segni.
Comunque così narra la traduzione della sua poesia:
Il gioiello gira in tondo, tintinnando come la giada –
Lo portano i cavalli, lo trascinano gli asini; caricalo su una nave di ferro.
Dividilo con un viaggiatore dei mari e delle montagne privo di preoccupazioni.
Quando va a pesca di tartarughe, cala una trappola a forma di gabbia.
Hsueh Tou disse anche: “Nessun monaco vestito di pezze al mondo riesce a saltar
fuori”.
(Sergio Gandini)