Letture
In margine ad una esposizione di Munch
Desidero prima di tutto segnalare al lettore la grande occasione offerta a Milano dall’allestimento di una mostra dedicata a Munch e visibile dal 14 settembre 2024 al 26 gennaio 2025 a Palazzo Reale. Devo anche premettere che avevo letto articoli contrastanti su questa iniziativa e mi preme allora richiamare l’attenzione su questa opportunità, certamente Munch è uno degli artisti più noti attualmente, al punto che L’urlo è addirittura diventato un emoticon di WhatsApp: l’opera in mostra non è affatto presente nella sua versione più iconica, ma un filmato ricostruisce la sua potenza evocativa e le vicissitudini legate ai suoi furti. |
Ricordo che Palazzo Reale ospitò nel 1985 un’altra grande mostra dedicata a Munch: allora erano presenti duecento cinquanta cinque opere, a fronte delle cento di questa mostra; esse occupavano diversi piani del palazzo. Ma non credo sia utile più di tanto lamentarsi delle consuetudini espositive e del marketing ormai associato a qualsiasi evento: meglio visitare senza troppi preconcetti né rimpianti l’esposizione presente, come un’occasione per vedere dal vero i suoi quadri, rispettando lo spirito del pittore, che asseriva: “È impossibile spiegare un dipinto. La vera ragione che ha indotto a dipingerlo è l’impossibilità di spiegarsi in qualunque altro modo”.
Posso dire di conoscere Munch dall’adolescenza e quella memorabile mostra rappresentò per me un vero dono: avevo da poco iniziato a dipingere a olio e vissi sulla mia pelle questo passaggio dell’impressionismo (e, in effetti, i miei primi interessi artistici erano stati legati a questa corrente) all’espressionismo di cui Munch fu il vero fondatore accanto a Ensor. Dopo pochi anni visitai tutta la Norvegia e mi recai infine proprio a Oslo, dove era stato allestito dal 1963 il museo costituito da tutte le opere che il pittore aveva direttamente destinato alla sua città dopo la morte.
Non posso qui parlare di tutti i problemi legati al passaggio dall’impressionismo all’espressionismo, cui ho accennato durante il mio recente corso, ma, rispetto al celeberrimo Urlo, cedo volentieri la parola allo stesso Edvard: “Quando al tramonto le nuvole colpiscono i sensi così da sembrare una coltre sanguinante – sicuramente non basta dipingere nuvole ordinarie. Si agisce in modo diretto – tratteggiando l’impressione immeditata. L’immagine deve riprodurre il sangue delle nubi”.
Chiarisco così subito che in queste mie considerazioni preferisco avvalermi di qualche frammento scritto dal pittore stesso e questo non deve essere visto in contraddizione con l’esordio del mio saggio e nemmeno con le affermazioni di Munch stesso. Infatti l’assunto che non si può spiegare un dipinto andrebbe forse corretto in quello più modesto “non si può razionalizzare esaustivamente mediante parole tutto l’universo immaginativo presente in un dipinto”, se non altro perché il modo di comunicare di un’immagine appartiene a una forma di linguaggio specifica differente da quella verbale. Ma occorre riconoscere che questo è stato il problema specifico di tutti gli artisti a partire dalla grande rivoluzione iniziata con l’impressionismo: fino a quel momento, a parte poche ma essenziali eccezioni, come i trattati di Piero della Francesca e di Fibonacci, poi di Leonardo, nati in fondo dalla medesima esigenza teorica, quella di spiegare il nuovo modo di dipingere reso possibile dalla scoperta delle leggi della prospettiva, un artista poteva forse anche limitarsi a dipingere e tenere solo per sé le sue considerazioni.
Ma la situazione è radicalmente diversa a partire dall’ottocento: di fronte alle accuse della pittura ufficiale e dei critici stessi, il singolo avverte un sempre maggiore spaesamento e finisce per non riuscire più ad affidarsi solo al suo sentire, al suo gusto spesso poco educato rispetto all’arte, e a provare il desiderio legittimo di qualche chiarimento. Alcuni pittori, come Kandinsky e Mondrian, presero molto sul serio questa esigenza e offrirono contributi teorici sistematici per motivare il loro modo di dipingere, altri come Klee e lo stesso Munch preferirono svolgere queste riflessioni in silenzio e lasciarne traccia solo in qualche nota di diario.
Devo infine confessare che, nella presente mostra, non rimpiango tanto l’assenza dell’Urlo quanto quella della La bambina malata: di questo tema Edvard diede ovviamente diverse versioni, nella mostra è presente solo una variante a stampa, a differenza della mostra del 1985 in cui c’era il quadro del 1896, ma non quello del 1885, e questo sì sarebbe stato necessario nella ricorrenza del centenario.
Dell’evento che fu all’origine di questo dipinto troviamo traccia indelebile nelle note di Edvard, in cui il pittore chiarisce a se stesso, come espresse benissimo Gianfranco Bruno (questo saggio è presente nel catalogo della mostra del 1985), il grande storico dell’arte e pittore scomparso nel 2016, con le seguenti parole: “Munch chiarisce a se stesso il legame inscindibile tra autobiografia spirituale ed espressione artistica, individuando la propria vocazione nella necessità di risolvere nell’arte il suo disagio di fronte alle inesplicabili contraddizioni della vita umana” (pag. 30 del suddetto catalogo).
Un altro frammento dichiara appunto: “Che cos’è l’arte, realmente? Il risultato dell’insoddisfazione per la vita…” – e, forse, per fornire al lettore tutte le chiavi interpretative necessarie almeno per iniziare ad accostarsi all’enigma dell’arte di Munch, occorre mettere a fianco della prima questa seconda affermazione: “Io non dipingo ciò che vedo. Ma ciò che ho visto”.
È proprio in relazione a questo quadro che Marco Alessandrini, psichiatra e psicoterapeuta ma anche curatore di diversi libri dedicati all’analisi delle opere di poeti e pittori, nota acutamente: “…bisogna ricordare inoltre che il graffiamento – tramite spatola, oggetti a punta, unghie delle mani – apparteneva al metodo di lavoro e di “semplificazione” adottato da Munch per molti quadri”. (Edvard Munch, Frammenti sull’arte, a cura di Marco Alessandrini, Milano, 2007, nota 108 a p.105: da questo libro sono appunto tratte tutte le precedenti e seguenti citazioni). Vorrei solo aggiungere che questo modo totale di dipingere entrando in un contatto fisico e globale con la tela e ogni supporto pittorico possibile costituì per me una vera rivoluzione e rimase intimo al mio universo espressivo.
In verità, tutto il mondo familiare di Edvard è segnato da una serie di lutti: la madre muore di tubercolosi quando lui ha cinque anni, il padre soffre di un disturbo maniaco-depressivo, finché, appunto, l’amata sorella Sophie, che ha solo due anni più di Edvard, raffigurata nel quadro La bambina malata, muore a soli quindici anni della stessa malattia della madre. Eppure Edvard, questo bambino gracile, così precocemente segnato dalla vita, già disegna a sette anni, incoraggiato dalla zia, pittrice lei stessa, e annota nel suo diario l’otto novembre 1880: “Oggi ho deciso di diventare pittore”. E questa commovente annotazione mi riporta alla mente la confessione contenuta nel diario di un altro pittore, Paul Klee: “Io creo per non piangere”.
Ma lasciamo che sia Edvard stesso a parlare:
“La mia arte dev’essere valutata alla luce di un immane fardello ereditario. La tubercolosi nel ramo materno della mia famiglia, e la malattia psichica in quello paterno. La mia arte è un’autoconfessione. Per suo tramite io tento di far luce sul mio rapporto col mondo… Comunque sia, ho sempre pensato e sentito che la mia arte potrebbe aiutare gli altri a fare luce nella loro ricerca di verità”.
Probabilmente la chiave per entrare nel mondo di Munch è tutta in questa tensione: una vocazione artistica che nasce in un profondo disagio esistenziale, forse proprio risposta a esso, ma poi si apre alla luce.
E tuttavia la vicenda biografica di Munch continua a essere segnata negativamente: frequenta prima a Oslo poi a Berlino i tipici ambienti bohémien fin de siècle, madidi di nichilismo, malgrado i suoi sforzi l’ambiente artistico invidia la sua originalità e lo accetta poco e le sue relazioni umane, soprattutto con le donne, sono perlopiù disastrose. Questa personale saison en enfer ha un momento tragico nel 1902 quando una lite con la donna amata si conclude con una ferita per arma da fuoco, e continua con fasi alterne dovute agli eccessi alcolici fino al 1908 quando, infine, l’artista ha un irrimediabile crollo psichico aggravato da manie di persecuzione e allucinazioni; è salvato solo dal poeta Goldstein che riesce a ricoverarlo nella clinica psichiatrica del dottor Daniel Jacobsen, dove viene curato per otto mesi. Questo evento segna uno spartiacque nella vita di Munch: quando esce dalla clinica muta radicalmente stile di vita, smette di bere e limita il fumo, adotta una dieta vegetariana e salutista.
A questo punto vorrei introdurre una considerazione personale a sostegno di questa mostra: se è vero che la vita di Munch è divisa effettivamente in due periodi da questo evento e che, dal punto di vista strettamente innovativo, Munch, precursore dell’espressionismo ha già dipinto i suoi quadri più famosi prima del 1908, la mostra del 1985 privilegiava in modo significativo proprio questa primo periodo, mentre questa mostra, pur con un numero ridotto di opere, contiene quadri essenziali del secondo periodo.
Nel 1910 Munch viene invitato a partecipare al progetto per la decorazione della Oslo Universitetets Aula (l'aula magna dell'Università di Oslo): la Norvegia è divenuta indipendente dalla Svezia nel 1905 e questo edificio ebbe un grande valore simbolico. Munch vinse il concorso per decorare il nuovo salone dell'università per il centenario del 1911 e i lavori vennero terminati in loco nel 1916. Sempre leggendo i frammenti autobiografici di Edvard possiamo comprendere la svolta che questo lavoro rappresentò nella pittura di Munch, il valore che gli attribuiva e la cura con la quale si dedicò a lavorare su questo progetto. Una sezione della mostra contiene le opere preparatorie: fra esse spiccano ovviamente il Sole, Alma Mater e Storia. Occorre contemplare con attenzione queste opere per accorgersi della rivoluzione che Munch sta perseguendo nella sua pittura: questo trionfo dei colori chiari e vitali, certo reso possibile dalla sua rigenerazione esistenziale, non nasce dal nulla ma in verità recupera la profonda lezione di Gauguin e di Cézanne, i maestri che più avevano attratto Munch nelle sue prime visite a Parigi.
Non voglio certo entrare in una pericolosa discussione su quale sia il Munch più innovativo rispetto allo sviluppo storico dell’arte, la risposta sarebbe scontata, è il creatore dell’Espressionismo, intendo però chiarire che questa chiave interpretativa non può essere ritenuta la sola valida e lascio al lettore questa pagina di Munch datata 21 giugno 1933:
“Ho chiuso del tutto con i miei primi dipinti. Le mie opere si sono evolute, e io continuo a produrre. All’epoca in cui li ho realizzati, i miei primi lavori sono stati capiti, mentre invece non lo sono quelli che creo attualmente. Semplicemente non si riesce a concepire che l’opera di un pittore tenda a svilupparsi, anche in età avanzata”.
Ci troviamo quasi alla fine della mostra: la prima delle ultime due sale ospita una serie di autoritratti di Edvard davvero impressionante almeno in base a tre considerazioni. La prima è che essi ci permettono di comprendere perché Munch fu reputato, nei primi anni del secolo, come il più grande ritrattista del nord Europa; la seconda ci dimostra in modo mirabile il proseguire inesausto della ricerca pittorica. Ma la terza considerazione è forse la più significativa: in questo secondo periodo appaiono colori chiari, come abbiamo già rilevato, vaste campiture, un modo di trattare il colore a olio più simile all’acquerello, eppure la disperazione di Edvard è la medesima e tuttavia appare temperata da un sapore indefinibile che mi sento di chiamare compunzione e saggezza e che rimanda alla dimensione meditativa.
Osservando questi ritratti mi è balenato alla mente un altro frammento: “L’essere umano è nato dalla cristallizzazione dell’immagine di Dio”.
Nell’ultima sala che vorrebbe definire il lascito di Munch appaiono opere molto differenti tra loro, a volte luminose come quelle appena esaminate, altre sono dei notturni che però si rivelano privi di angoscia, anch’essi a loro modo luminosi, c’è anche una notte stellata che ci rimanda a Van Gogh; infine ritornano le Ragazze sul ponte, un’altra opera iconica di Munch che, per il suo indubbio fascino ma anche la sua meno evidente tensione drammatica sembra mettere d’accordo un po' tutti e viene significativamente scelta quasi sempre per realizzare il manifesto e le locandine della mostra. Quest’opera era presente anche nella mostra del 1985, ma allora si trattava della prima versione, ancora del 1900, dovuta a un breve periodo di relativa quiete; questo dipinto invece è datato 1927 ed è reso possibile dal maggiore equilibrio raggiunto dall’artista, e sarebbe bello poter vedere accanto le due opere per accorgersi delle sottili differenze. Accanto a quest’ultima appare una grande didascalia (di passaggio noto anche che la maggior parte delle didascalie che accompagnano la mostra sono realizzate in modo attento e preciso, e aiutano davvero il visitatore nel percorso critico) che riporta questo frammento: “La verità è che siamo soliti vedere con occhi diversi in momenti diversi. Accade di vedere diversamente al mattino rispetto alla sera. Il modo di vedere dipende anche dalla condizione mentale ed emotiva. Questa è la ragione per cui un determinato soggetto può essere visto da così numerose angolature, ed è questo a render l’arte tanto attraente”.
Credo che non si sarebbe potuto scegliere un frammento più significativo per salutare il visitatore e invitarlo a meditare sull’esperienza di Munch: la luce muta col passare delle ore – e questa è la lezione appresa da tutti gli impressionisti, a partire da Monet – ma nel caso di Munch, il nostro vedere muta anche essenzialmente in dipendenza dei nostri stati emotivi e mentali.
È ciò che Munch ha sempre messo al cento della sua indagine pittorica e gnoseologica. Infine, questo assunto può essere interpretato sempre in senso temporale ma in una modalità decisamente più ampia: il nostro vedere muta anche in relazione alle diverse epoche della nostra esistenza. Chissà se nella sera della sua vita Edvard ha trovato una quiete maggiore? Se così è stato, la vera Arte, che Edvard ha sempre trovato così attraente, ha davvero corrisposto al grande amore che Munch nutrì per lei.
(Sergio Gandini)
Posso dire di conoscere Munch dall’adolescenza e quella memorabile mostra rappresentò per me un vero dono: avevo da poco iniziato a dipingere a olio e vissi sulla mia pelle questo passaggio dell’impressionismo (e, in effetti, i miei primi interessi artistici erano stati legati a questa corrente) all’espressionismo di cui Munch fu il vero fondatore accanto a Ensor. Dopo pochi anni visitai tutta la Norvegia e mi recai infine proprio a Oslo, dove era stato allestito dal 1963 il museo costituito da tutte le opere che il pittore aveva direttamente destinato alla sua città dopo la morte.
Non posso qui parlare di tutti i problemi legati al passaggio dall’impressionismo all’espressionismo, cui ho accennato durante il mio recente corso, ma, rispetto al celeberrimo Urlo, cedo volentieri la parola allo stesso Edvard: “Quando al tramonto le nuvole colpiscono i sensi così da sembrare una coltre sanguinante – sicuramente non basta dipingere nuvole ordinarie. Si agisce in modo diretto – tratteggiando l’impressione immeditata. L’immagine deve riprodurre il sangue delle nubi”.
Chiarisco così subito che in queste mie considerazioni preferisco avvalermi di qualche frammento scritto dal pittore stesso e questo non deve essere visto in contraddizione con l’esordio del mio saggio e nemmeno con le affermazioni di Munch stesso. Infatti l’assunto che non si può spiegare un dipinto andrebbe forse corretto in quello più modesto “non si può razionalizzare esaustivamente mediante parole tutto l’universo immaginativo presente in un dipinto”, se non altro perché il modo di comunicare di un’immagine appartiene a una forma di linguaggio specifica differente da quella verbale. Ma occorre riconoscere che questo è stato il problema specifico di tutti gli artisti a partire dalla grande rivoluzione iniziata con l’impressionismo: fino a quel momento, a parte poche ma essenziali eccezioni, come i trattati di Piero della Francesca e di Fibonacci, poi di Leonardo, nati in fondo dalla medesima esigenza teorica, quella di spiegare il nuovo modo di dipingere reso possibile dalla scoperta delle leggi della prospettiva, un artista poteva forse anche limitarsi a dipingere e tenere solo per sé le sue considerazioni.
Ma la situazione è radicalmente diversa a partire dall’ottocento: di fronte alle accuse della pittura ufficiale e dei critici stessi, il singolo avverte un sempre maggiore spaesamento e finisce per non riuscire più ad affidarsi solo al suo sentire, al suo gusto spesso poco educato rispetto all’arte, e a provare il desiderio legittimo di qualche chiarimento. Alcuni pittori, come Kandinsky e Mondrian, presero molto sul serio questa esigenza e offrirono contributi teorici sistematici per motivare il loro modo di dipingere, altri come Klee e lo stesso Munch preferirono svolgere queste riflessioni in silenzio e lasciarne traccia solo in qualche nota di diario.
Devo infine confessare che, nella presente mostra, non rimpiango tanto l’assenza dell’Urlo quanto quella della La bambina malata: di questo tema Edvard diede ovviamente diverse versioni, nella mostra è presente solo una variante a stampa, a differenza della mostra del 1985 in cui c’era il quadro del 1896, ma non quello del 1885, e questo sì sarebbe stato necessario nella ricorrenza del centenario.
Dell’evento che fu all’origine di questo dipinto troviamo traccia indelebile nelle note di Edvard, in cui il pittore chiarisce a se stesso, come espresse benissimo Gianfranco Bruno (questo saggio è presente nel catalogo della mostra del 1985), il grande storico dell’arte e pittore scomparso nel 2016, con le seguenti parole: “Munch chiarisce a se stesso il legame inscindibile tra autobiografia spirituale ed espressione artistica, individuando la propria vocazione nella necessità di risolvere nell’arte il suo disagio di fronte alle inesplicabili contraddizioni della vita umana” (pag. 30 del suddetto catalogo).
Un altro frammento dichiara appunto: “Che cos’è l’arte, realmente? Il risultato dell’insoddisfazione per la vita…” – e, forse, per fornire al lettore tutte le chiavi interpretative necessarie almeno per iniziare ad accostarsi all’enigma dell’arte di Munch, occorre mettere a fianco della prima questa seconda affermazione: “Io non dipingo ciò che vedo. Ma ciò che ho visto”.
È proprio in relazione a questo quadro che Marco Alessandrini, psichiatra e psicoterapeuta ma anche curatore di diversi libri dedicati all’analisi delle opere di poeti e pittori, nota acutamente: “…bisogna ricordare inoltre che il graffiamento – tramite spatola, oggetti a punta, unghie delle mani – apparteneva al metodo di lavoro e di “semplificazione” adottato da Munch per molti quadri”. (Edvard Munch, Frammenti sull’arte, a cura di Marco Alessandrini, Milano, 2007, nota 108 a p.105: da questo libro sono appunto tratte tutte le precedenti e seguenti citazioni). Vorrei solo aggiungere che questo modo totale di dipingere entrando in un contatto fisico e globale con la tela e ogni supporto pittorico possibile costituì per me una vera rivoluzione e rimase intimo al mio universo espressivo.
In verità, tutto il mondo familiare di Edvard è segnato da una serie di lutti: la madre muore di tubercolosi quando lui ha cinque anni, il padre soffre di un disturbo maniaco-depressivo, finché, appunto, l’amata sorella Sophie, che ha solo due anni più di Edvard, raffigurata nel quadro La bambina malata, muore a soli quindici anni della stessa malattia della madre. Eppure Edvard, questo bambino gracile, così precocemente segnato dalla vita, già disegna a sette anni, incoraggiato dalla zia, pittrice lei stessa, e annota nel suo diario l’otto novembre 1880: “Oggi ho deciso di diventare pittore”. E questa commovente annotazione mi riporta alla mente la confessione contenuta nel diario di un altro pittore, Paul Klee: “Io creo per non piangere”.
Ma lasciamo che sia Edvard stesso a parlare:
“La mia arte dev’essere valutata alla luce di un immane fardello ereditario. La tubercolosi nel ramo materno della mia famiglia, e la malattia psichica in quello paterno. La mia arte è un’autoconfessione. Per suo tramite io tento di far luce sul mio rapporto col mondo… Comunque sia, ho sempre pensato e sentito che la mia arte potrebbe aiutare gli altri a fare luce nella loro ricerca di verità”.
Probabilmente la chiave per entrare nel mondo di Munch è tutta in questa tensione: una vocazione artistica che nasce in un profondo disagio esistenziale, forse proprio risposta a esso, ma poi si apre alla luce.
E tuttavia la vicenda biografica di Munch continua a essere segnata negativamente: frequenta prima a Oslo poi a Berlino i tipici ambienti bohémien fin de siècle, madidi di nichilismo, malgrado i suoi sforzi l’ambiente artistico invidia la sua originalità e lo accetta poco e le sue relazioni umane, soprattutto con le donne, sono perlopiù disastrose. Questa personale saison en enfer ha un momento tragico nel 1902 quando una lite con la donna amata si conclude con una ferita per arma da fuoco, e continua con fasi alterne dovute agli eccessi alcolici fino al 1908 quando, infine, l’artista ha un irrimediabile crollo psichico aggravato da manie di persecuzione e allucinazioni; è salvato solo dal poeta Goldstein che riesce a ricoverarlo nella clinica psichiatrica del dottor Daniel Jacobsen, dove viene curato per otto mesi. Questo evento segna uno spartiacque nella vita di Munch: quando esce dalla clinica muta radicalmente stile di vita, smette di bere e limita il fumo, adotta una dieta vegetariana e salutista.
A questo punto vorrei introdurre una considerazione personale a sostegno di questa mostra: se è vero che la vita di Munch è divisa effettivamente in due periodi da questo evento e che, dal punto di vista strettamente innovativo, Munch, precursore dell’espressionismo ha già dipinto i suoi quadri più famosi prima del 1908, la mostra del 1985 privilegiava in modo significativo proprio questa primo periodo, mentre questa mostra, pur con un numero ridotto di opere, contiene quadri essenziali del secondo periodo.
Nel 1910 Munch viene invitato a partecipare al progetto per la decorazione della Oslo Universitetets Aula (l'aula magna dell'Università di Oslo): la Norvegia è divenuta indipendente dalla Svezia nel 1905 e questo edificio ebbe un grande valore simbolico. Munch vinse il concorso per decorare il nuovo salone dell'università per il centenario del 1911 e i lavori vennero terminati in loco nel 1916. Sempre leggendo i frammenti autobiografici di Edvard possiamo comprendere la svolta che questo lavoro rappresentò nella pittura di Munch, il valore che gli attribuiva e la cura con la quale si dedicò a lavorare su questo progetto. Una sezione della mostra contiene le opere preparatorie: fra esse spiccano ovviamente il Sole, Alma Mater e Storia. Occorre contemplare con attenzione queste opere per accorgersi della rivoluzione che Munch sta perseguendo nella sua pittura: questo trionfo dei colori chiari e vitali, certo reso possibile dalla sua rigenerazione esistenziale, non nasce dal nulla ma in verità recupera la profonda lezione di Gauguin e di Cézanne, i maestri che più avevano attratto Munch nelle sue prime visite a Parigi.
Non voglio certo entrare in una pericolosa discussione su quale sia il Munch più innovativo rispetto allo sviluppo storico dell’arte, la risposta sarebbe scontata, è il creatore dell’Espressionismo, intendo però chiarire che questa chiave interpretativa non può essere ritenuta la sola valida e lascio al lettore questa pagina di Munch datata 21 giugno 1933:
“Ho chiuso del tutto con i miei primi dipinti. Le mie opere si sono evolute, e io continuo a produrre. All’epoca in cui li ho realizzati, i miei primi lavori sono stati capiti, mentre invece non lo sono quelli che creo attualmente. Semplicemente non si riesce a concepire che l’opera di un pittore tenda a svilupparsi, anche in età avanzata”.
Ci troviamo quasi alla fine della mostra: la prima delle ultime due sale ospita una serie di autoritratti di Edvard davvero impressionante almeno in base a tre considerazioni. La prima è che essi ci permettono di comprendere perché Munch fu reputato, nei primi anni del secolo, come il più grande ritrattista del nord Europa; la seconda ci dimostra in modo mirabile il proseguire inesausto della ricerca pittorica. Ma la terza considerazione è forse la più significativa: in questo secondo periodo appaiono colori chiari, come abbiamo già rilevato, vaste campiture, un modo di trattare il colore a olio più simile all’acquerello, eppure la disperazione di Edvard è la medesima e tuttavia appare temperata da un sapore indefinibile che mi sento di chiamare compunzione e saggezza e che rimanda alla dimensione meditativa.
Osservando questi ritratti mi è balenato alla mente un altro frammento: “L’essere umano è nato dalla cristallizzazione dell’immagine di Dio”.
Nell’ultima sala che vorrebbe definire il lascito di Munch appaiono opere molto differenti tra loro, a volte luminose come quelle appena esaminate, altre sono dei notturni che però si rivelano privi di angoscia, anch’essi a loro modo luminosi, c’è anche una notte stellata che ci rimanda a Van Gogh; infine ritornano le Ragazze sul ponte, un’altra opera iconica di Munch che, per il suo indubbio fascino ma anche la sua meno evidente tensione drammatica sembra mettere d’accordo un po' tutti e viene significativamente scelta quasi sempre per realizzare il manifesto e le locandine della mostra. Quest’opera era presente anche nella mostra del 1985, ma allora si trattava della prima versione, ancora del 1900, dovuta a un breve periodo di relativa quiete; questo dipinto invece è datato 1927 ed è reso possibile dal maggiore equilibrio raggiunto dall’artista, e sarebbe bello poter vedere accanto le due opere per accorgersi delle sottili differenze. Accanto a quest’ultima appare una grande didascalia (di passaggio noto anche che la maggior parte delle didascalie che accompagnano la mostra sono realizzate in modo attento e preciso, e aiutano davvero il visitatore nel percorso critico) che riporta questo frammento: “La verità è che siamo soliti vedere con occhi diversi in momenti diversi. Accade di vedere diversamente al mattino rispetto alla sera. Il modo di vedere dipende anche dalla condizione mentale ed emotiva. Questa è la ragione per cui un determinato soggetto può essere visto da così numerose angolature, ed è questo a render l’arte tanto attraente”.
Credo che non si sarebbe potuto scegliere un frammento più significativo per salutare il visitatore e invitarlo a meditare sull’esperienza di Munch: la luce muta col passare delle ore – e questa è la lezione appresa da tutti gli impressionisti, a partire da Monet – ma nel caso di Munch, il nostro vedere muta anche essenzialmente in dipendenza dei nostri stati emotivi e mentali.
È ciò che Munch ha sempre messo al cento della sua indagine pittorica e gnoseologica. Infine, questo assunto può essere interpretato sempre in senso temporale ma in una modalità decisamente più ampia: il nostro vedere muta anche in relazione alle diverse epoche della nostra esistenza. Chissà se nella sera della sua vita Edvard ha trovato una quiete maggiore? Se così è stato, la vera Arte, che Edvard ha sempre trovato così attraente, ha davvero corrisposto al grande amore che Munch nutrì per lei.
(Sergio Gandini)