Letture
ŚIVA E DIONISO: La religione della Natura e dell’Eros. Dalla preistoria all’avvenire di Alain Daniélou
“Anatomy of Restlessness: Selected Writings 1969-1989” è uno dei più noti libri di Bruce Chatwin, infaticabile viaggiatore e cultore del nomadismo e riunisce una serie di saggi scritti in momenti diversi e poi raccolti in seguito; “Livro do Desassossego”, edito nel 1982, a quasi cinquant'anni dalla morte del suo autore, raduna circa 450 frammenti di scrittura in prosa dello scrittore portoghese Fernando Pessoa, che fu essenzialmente un poeta. Irrequietezza, inquietudine, agitazione: tutti sinonimi per indicare che forse il pensare autentico nasce da una profonda esigenza di movimento che aspira a ricomporsi in un supremo equilibrio ma solo a condizione di passare attraverso gli innumerevoli conflitti dell’esistenza, una reale pace del cuore in mezzo al travaglio della vita. |
Se cerco un’idea che possa costituire la cifra simbolica di questo XX secolo ormai concluso mi viene da considerare proprio questo misterioso bisogno di movimento che percorre tanti diversi e rappresentativi testimoni della spiritualità di questa epoca. E vorrei anche avviare una riflessione in questo senso. Se, dal punto di vista concettuale è possibile certo rappresentarsi la spiritualità orientale e quella occidentale come le due rive di un grande ed eterno fiume che da millenni stanno di fronte l’una all’altra, il dato di fatto nuovo e significativo del XX secolo pare essere proprio questo che, a un certo punto, diversi esseri umani decidono consapevolmente di spostarsi da una riva all’altra, con determinazione. A che scopo? Solo per provare a immergersi dall’altra riva? Non sarebbe evidente che l’acqua è sempre la medesima? Che cosa davvero cercarono? E, infine, ciò che merita attenzione non è forse la complementarietà di questo movimento, al di là delle decisioni e delle motivazioni dei singoli?
Soffermo ora lo sguardo solo su due di loro, tra i tanti: Taisen Deshimaru e Alain Daniélou. Deshimaru era discepolo laico di Kōdō Sawaki, abate di Antaiji. Sawaki fu uno dei monaci zen più significativi del Giappone di questo secolo: come Maestro nel suo insegnamento mise al centro della pratica lo zazen e aprì le porte del monastero ai laici, organizzando periodicamente sesshin (periodi di solo zazen). Quando infine Deshimaru fu ordinato monaco nel 1965 rimase col Maestro ancora due anni, fino alla sua morte, e ricevette direttamente da lui la missione di portare e di divulgare lo zazen agli occidentali, che non conoscevano questa Via spirituale di meditazione se non attraverso i pochi libri esistenti su tale argomento.
Alain Daniélou era figlio di una fervente cattolica e di un politico bretone anticlericale, passaò la sua infanzia in campagna tra la biblioteca paterna ed il pianoforte, appassionandosi alla musica ed alla pittura. Compì i suoi studi universitari in America lavorando anche come pianista nei cinematografi per accompagnare i film muti; tornato in Francia, studiò composizione, canto e danza classica finché, attratto dai paesi esotici, nel 1932 iniziò una serie di viaggi, che lo portarono a visitare il Maghreb, il Medio Oriente, l'India, l'Indonesia, la Cina ed il Giappone. Stabilitosi infine in India nel 1937, si applicò allo studio di filosofia, musica e sanscrito nelle scuole tradizionali locali, venne iniziato all'induismo śivaita, a tal punto da divenire nel 1945 docente all'università hindu di Benares e a essere conosciuto col nome di Shiva Sharan (il favorito di Shiva). Tornato in Europa agli inizi degli anni sessanta si dedicò, fino alla fine della sua vita nel 1994, a un'intensa attività divulgativa della cultura indiana. Eppure questo vagabondo del Dharma in ambito accademico non è considerato un autore strettamente scientifico, come peraltro lo stesso Chatwin: nondimeno molte tra le sue opere vengono riconosciute di assoluto rilievo per la storia e la cultura indiana, e ripetutamente citate da noti indianisti come Jean Varenne. Quali le ragioni di questo destino? Il fatto è che il testo di Alain Daniélou che cercherò di presentare è un libro a tesi e come tale sospetto a priori nell’ambito della cultura accademica ossessionata da un presunto ideale di imparzialità oggettiva privo di fondamento. La storia del pensiero e della spiritualità, in verità, è fatta da essere umani in carne e ossa che nascono e muoiono, e si spostano alla ricerca di qualcosa: hanno una vocazione nomade, per dirla alla Chatwin, necessaria a rendere effettiva questa ricerca.
Un libro a tesi non incontra mai il favore degli eruditi perché prima o poi farà uso di qualche giudizio di valore che suona sempre sospetto ai loro delicati orecchi; in modo simile Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik, la prima opera matura, edita nel 1872, del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, altro grande precursore del nomadismo culturale per ragioni esistenziali, alla sua uscita incontrò la duplice condanna di filosofi e filologi, in quanto presentava, per i filologi tesi filosofiche prive di fondamenti scientifici, e per i filosofi considerazioni letterarie prive di robustezza concettuale.
Daniélou sostiene infatti questa tesi della Civiltà mediterranea, che, in sintesi, afferma l’esistenza di caratteri comuni tra le varie popolazioni originarie degli Iberi, Pelasgi, Etruschi, Berberi, Minoici, Ciprioti, Egiziani, Sumeri e Dravidi che sono ascrivibili alla comune origine da un unico ceppo, estraneo alle popolazioni indoeuropee (come i successivi invasori Ariani, Achei, Iranici) o semitiche (come Assiri, Caldei, Ebrei); tale antichissimo gruppo etnico, si era diffuso in età preistorica dall'Africa al Mediterraneo fino all'India e all'Oceano Pacifico. A causa di varie ondate migratorie a partire da 70-75.000 anni questa antica popolazione ancestrale di partenza si sarebbe divisa determinando l’insorgere di vari tipi etnici, a partire da quello Proto-australoide: quello australoide che si diffuse partendo dall'Africa orientale circa 60.000 anni fa, colonizzando tutta la zona tropicale fino al continente australiano, e quello dei Munda indiani.
Al lettore più attento non sarà forse sfuggito, a questo punto, il senso del mio iniziale riferimento a Chatwin: anche questo instancabile pellegrino in fondo era convinto di essere sulle tracce di un gruppo primordiale, di una sorta di civiltà originaria. Forse questo è l’aspetto più caduco di tale prospettiva che non sembra più godere del favore degli antropologi attuali, più orientati in senso multiculturale, se non altro per l’impossibilità reale di risalire scientificamente così indietro nella linea del tempo. Dobbiamo quindi per rispettare l’imperativo della scientificità rinunciare a qualsiasi tesi sulla esistenza di un essere umano originario?
Forse il ricercatore spirituale non è obbligato a priori a questa rinuncia: in lui il mito delle origini, quello dell’eterno ritorno dell’eguale, e quello della costruzione di una umanità ventura posso coesistere. Infatti il sottotitolo del libro di Daniélou mi sembra estremamente rivelativo della direzione della sua ricerca: proprio come Nietzsche che si aspettava in fondo un ritorno ai veri valori originari della tragedia greca impersonificati da Dioniso, anche Daniélou non è un semplice erudito che intende proporre qualche lettura originale del passato, ma un essere umano che desidera rispondere alla crisi di civiltà del quale è testimone e vorrebbe indicare una via di rinnovamento spirituale autentico.
L’interesse di questa prospettiva teorica è che non viene sostenuta in ambito puramente concettuale, Daniélou continuamente la mette alla prova e la arricchisce del materiale empirico di cui è venuto a conoscenza mediante i suoi viaggi: infatti il testo che propongo è di agevole lettura, poiché lo studioso è anche un grande affabulatore in grado di narrare miti antichissimi in una prosa limpida, come ha dimostrato nella sua lunga opera di divulgatore. Perciò si arriva senza nessuna particolare difficoltà né stanchezza alle ultime righe del libro e volentieri lo si rileggerebbe da capo, d’un fiato mentre, a questo punto, varrebbe davvero la pena di fermarsi e di iniziare a raccogliere alcuni degli stimoli ideali e delle provocazioni seminate dallo studioso in modo quasi nascosto nella sua scintillante prosa. La cultura scritta è davvero superiore a quella orale? Il monoteismo rappresenta davvero un progresso nella religione? L’agricoltura del tipo stanziale è davvero una conquista di civiltà rispetto ai nomadi cacciatori? Il matrimonio monogamico corrisponde a una tendenza innata negli esseri umani? Lasciamo ovviamente al lettore il compito di provare a rispondere a queste domande.
Certo Daniélou ha delle risposte: non è detto che noi possiamo o dobbiamo concordare con esse, ma possiamo anche solo ascoltare senza pregiudizi e osservare fino in fondo, in modo sereno, ciò che ha da dirci, anche se può essere estremamente difficile ascoltare senza preclusioni perché il testo contiene affermazioni taglienti che urtano contro convinzioni penetrate a fondo nelle nostre culture.
Per iniziare dalla fine, Daniélou ritiene la poliandria diffusa nelle culture matriarcali originarie: essa sussiste ancora in Tibet e presso i Khasi dell'Assam, e le tracce di questa antica usanza dei popoli munda si può verificare, per esempio, nelle leggende presenti nel poema epico Mahābhārata, nel quale i cinque eroi principali sono i fratelli Pandava che hanno una sola sposa di nome Draupadi.
Il contributo che vorrei offrire in questo saggio prevede due movimenti complementari: precisare lo sfondo concettuale implicito nelle argomentazioni di Danièlou, sempre ricche di digressioni e osservazioni esperienziali, ed evidenziare qualche punto davvero illuminante per introdurre alla dimensione spirituale da qualunque punto di partenza individuale si intenda procedere nella riflessione religiosa.
Alain Danièlou, grazie alla sua preparazione musicale, donò all'UNESCO la prima antologia di musica classica indiana al fine di conservarla per le generazioni future. Contrario a tutti gli ismi del suo tempo, al colonialismo, all'imperialismo, al comunismo ed alle religioni monoteiste cercò di mettere in evidenza tutti i limiti dell'Occidente nemico della natura e della creazione ed ostile verso la sessualità. Secondo il culto di Shiva il piacere e la sessualità sono indispensabili all'esistenza umana: realizzarsi nei giochi erotici è partecipare all'ordine naturale, al vero Dharma, e offre la possibilità di raggiungere la liberazione. Il piacere è la stessa tensione creatrice del Cosmo che attua la Vita e da questa evidenza Daniélou può affermare (ponendo in tal modo una innovativa chiave di lettura di tutto il Tantrismo che non possiamo approfondire in questa sede):
“L’atto d’amore può essere utilizzato come mezzo di perfezionamento e di conoscenza sottile, di ritorno al principio, di contatto diretto con Dio” (p.135)
A questo punto si arriva al vero obiettivo dell’indagine dall’uomo Daniélou che si immerge nella religiosità śivaita, andando alla ricerca direttamente sul campo, come farebbe ogni vero antropologo, di quelle remote pratiche cultuali ancora vive in alcune regioni dell’India, e che ha cercato di interpretare a livello teorico: infatti lo Śivaismo, dal quale lo studioso fa derivare lo stesso culto di Dioniso, è, per lui, la religione originaria, una religione naturale e non moralistica che crea i punti di contatto fra i diversi stati dell'essere, la sola che può esaudire i bisogni dell'uomo di oggi e di ogni epoca storica. Nell'universo tutto fa parte del Divino, non esiste lo spazio per un sacro contrapposto al profano.
Si chiarisce anche un altro dei fondamenti della sua prospettiva: questa componente originaria è antecedente alla successiva invasione dell’India attuata dalle popolazioni ariane, come afferma lo studioso in diversi passaggi: “A eccezione delle parti più antiche dei Veda tutti i successivi testi dell’induismo recano l’impronta delle idee filosofiche e delle tecniche rituali dell’antico Śivaismo più o meno adattati per essere integrati in un mondo teoricamente vedico. La stessa cosa avviene per il pensiero greco nei confronti dell’eredità minoica o pelasgica” (p. 134). L'indù viveva nell'eternità', per lui l’universo è formato da relazioni energetiche. Se andiamo al fondo di qualsivoglia cosa ritroviamo il rapporto fra una forza centripeta che condensa e quello di una forza centrifuga che disperde: il loro equilibrio origina il movimento circolare che determina sia il movimento degli astri sia quello degli atomi.
Cerco ancora di sintetizzare brevemente le visioni di rigenerazione alle quali egli arriva seguendo questa linea di pensiero: infatti, quando nel sostrato della Coscienza Universale, immobile e neutra, appare un vortice, una tendenza che si polarizza, si manifesta un'intenzione, una tensione orientata: la prima nozione che si forma nella coscienza latente che si sveglia è quella della paura. Da questa paura fondamentale nasce la Coscienza Cosmica, il desiderio di pensare, di creare, di produrre altro da se stessa; cosi appare il pensiero nella Coscienza Cosmica che dà vita all'Universo o meglio, come direbbe Daniélou nella sua visuale di profonda Unità, l'Universo non è distinto da questo pensiero. Il Dharma è la legge naturale del pensiero creatore, è la natura morale che regge e regola l’essenza profonda di tutto ciò che esiste, è l'oggetto di ogni conoscenza e di ogni scienza.
A questo punto mi permetto solo un ultimo riferimento all’uomo Danièlou, sempre fedele alle proprie convinzioni teoriche: attento da sempre al valore dei simboli, quando il Gange si ritirò e le acque si allontanarono dalla sua casa, egli lesse ciò come un segno, lasciò Benares e tornò in Occidente: non avrebbe mai voluto fare da spettatore alla globalizzazione dell'India. Tuttavia, malgrado questa forte prospettiva metafisica presente nella cultura indiana, Daniélou è sempre disposto a sottolineare, nella sua lettura dello Śivaismo, gli elementi che evidenziano la profonda umiltà che l’essere umano, necessariamente limitato, deve conservare sempre con estrema coerenza di fronte ai pericoli insiti nel lasciarsi andare ad affermazione eccessivamente dogmatiche:
“Le domande che l’uomo si pone sulla natura del mondo sono in realtà senza risposta. Lo Śivaismo raccomanda l’esperienza piuttosto che le speculazioni intellettuali. Nello Śiva Purāna il sapiente Sūta interroga Skanda; “La causa prima dell’universo è maschile, femminile o un essere intermedio, o una mescolanza dei due o qualcos’altro ancora? L’ātman ha una forma? È identificabile con il corpo con i sensi, il mentale, l’intelletto e l’ego? Skanda risponde: “Le speculazioni dei filosofi, a cominciare dalle storie concernenti il risultato delle azioni, il Karman, e i principi dell’esistenza, hanno dato luogo a interminabili controversie. Il saggio le considera con prudenza.” (p 137)
Per terminare, con una certa punta di dispiacere, questa breve rassegna di citazioni dirette delle parole del nostro autore, considerata anche la destinazione del presente saggio, non può mancare un illuminante riferimento all’insostituibile valore dello yoga (tecnica introdotta e coltivata da Śiva in persona) nell’esperienza dell’India: “Il primo fine delle tecniche yoga è ridurre al silenzio le divagazioni del pensiero per permettere un’apertura verso gli aspetti superiori dell’essere” (p. 138).
E questo in cui ritrovo l’eco delle parole dello stesso Patañjali: “L’essenza del metodo yoga sta nel calmare le agitazioni del mentale che allontano dalla realtà fisica e nell’utilizzare gli automatismi vitali e le forze istintive dell’uomo per reintegrarlo nell’ambiente naturale, nell’insieme della creazione. I metodi che liberano le forze istintive sono gli unici che permettano di stabilire un contatto col mondo vegetale, animale e sovrannaturale”. (p. 140) . L’universo di Śiva è il mondo della foresta, la cultura dei cacciatori contrapposta a quella sedentaria sviluppatasi nelle prime città generate dalla diffusione dell’agricoltura.
In questo mondo, più che le parole umane, hanno valore e forza le presenze naturali, e la persona umana autentica è quella che si conforma a queste voci non umane: “Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3,7). Anche se tali suoni naturali sono difficili, sempre più difficili da udire nel chiasso permanente cui ci hanno abituato le nostre metropoli globalizzate e la cultura promossa in esse, forse vale davvero la pena di ritornare metaforicamente a certi attimi di silenzio per ascoltare voci di verità: “Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elìa si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna” (Re 19, 11).
(Sergio Gandini)
Soffermo ora lo sguardo solo su due di loro, tra i tanti: Taisen Deshimaru e Alain Daniélou. Deshimaru era discepolo laico di Kōdō Sawaki, abate di Antaiji. Sawaki fu uno dei monaci zen più significativi del Giappone di questo secolo: come Maestro nel suo insegnamento mise al centro della pratica lo zazen e aprì le porte del monastero ai laici, organizzando periodicamente sesshin (periodi di solo zazen). Quando infine Deshimaru fu ordinato monaco nel 1965 rimase col Maestro ancora due anni, fino alla sua morte, e ricevette direttamente da lui la missione di portare e di divulgare lo zazen agli occidentali, che non conoscevano questa Via spirituale di meditazione se non attraverso i pochi libri esistenti su tale argomento.
Alain Daniélou era figlio di una fervente cattolica e di un politico bretone anticlericale, passaò la sua infanzia in campagna tra la biblioteca paterna ed il pianoforte, appassionandosi alla musica ed alla pittura. Compì i suoi studi universitari in America lavorando anche come pianista nei cinematografi per accompagnare i film muti; tornato in Francia, studiò composizione, canto e danza classica finché, attratto dai paesi esotici, nel 1932 iniziò una serie di viaggi, che lo portarono a visitare il Maghreb, il Medio Oriente, l'India, l'Indonesia, la Cina ed il Giappone. Stabilitosi infine in India nel 1937, si applicò allo studio di filosofia, musica e sanscrito nelle scuole tradizionali locali, venne iniziato all'induismo śivaita, a tal punto da divenire nel 1945 docente all'università hindu di Benares e a essere conosciuto col nome di Shiva Sharan (il favorito di Shiva). Tornato in Europa agli inizi degli anni sessanta si dedicò, fino alla fine della sua vita nel 1994, a un'intensa attività divulgativa della cultura indiana. Eppure questo vagabondo del Dharma in ambito accademico non è considerato un autore strettamente scientifico, come peraltro lo stesso Chatwin: nondimeno molte tra le sue opere vengono riconosciute di assoluto rilievo per la storia e la cultura indiana, e ripetutamente citate da noti indianisti come Jean Varenne. Quali le ragioni di questo destino? Il fatto è che il testo di Alain Daniélou che cercherò di presentare è un libro a tesi e come tale sospetto a priori nell’ambito della cultura accademica ossessionata da un presunto ideale di imparzialità oggettiva privo di fondamento. La storia del pensiero e della spiritualità, in verità, è fatta da essere umani in carne e ossa che nascono e muoiono, e si spostano alla ricerca di qualcosa: hanno una vocazione nomade, per dirla alla Chatwin, necessaria a rendere effettiva questa ricerca.
Un libro a tesi non incontra mai il favore degli eruditi perché prima o poi farà uso di qualche giudizio di valore che suona sempre sospetto ai loro delicati orecchi; in modo simile Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik, la prima opera matura, edita nel 1872, del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, altro grande precursore del nomadismo culturale per ragioni esistenziali, alla sua uscita incontrò la duplice condanna di filosofi e filologi, in quanto presentava, per i filologi tesi filosofiche prive di fondamenti scientifici, e per i filosofi considerazioni letterarie prive di robustezza concettuale.
Daniélou sostiene infatti questa tesi della Civiltà mediterranea, che, in sintesi, afferma l’esistenza di caratteri comuni tra le varie popolazioni originarie degli Iberi, Pelasgi, Etruschi, Berberi, Minoici, Ciprioti, Egiziani, Sumeri e Dravidi che sono ascrivibili alla comune origine da un unico ceppo, estraneo alle popolazioni indoeuropee (come i successivi invasori Ariani, Achei, Iranici) o semitiche (come Assiri, Caldei, Ebrei); tale antichissimo gruppo etnico, si era diffuso in età preistorica dall'Africa al Mediterraneo fino all'India e all'Oceano Pacifico. A causa di varie ondate migratorie a partire da 70-75.000 anni questa antica popolazione ancestrale di partenza si sarebbe divisa determinando l’insorgere di vari tipi etnici, a partire da quello Proto-australoide: quello australoide che si diffuse partendo dall'Africa orientale circa 60.000 anni fa, colonizzando tutta la zona tropicale fino al continente australiano, e quello dei Munda indiani.
Al lettore più attento non sarà forse sfuggito, a questo punto, il senso del mio iniziale riferimento a Chatwin: anche questo instancabile pellegrino in fondo era convinto di essere sulle tracce di un gruppo primordiale, di una sorta di civiltà originaria. Forse questo è l’aspetto più caduco di tale prospettiva che non sembra più godere del favore degli antropologi attuali, più orientati in senso multiculturale, se non altro per l’impossibilità reale di risalire scientificamente così indietro nella linea del tempo. Dobbiamo quindi per rispettare l’imperativo della scientificità rinunciare a qualsiasi tesi sulla esistenza di un essere umano originario?
Forse il ricercatore spirituale non è obbligato a priori a questa rinuncia: in lui il mito delle origini, quello dell’eterno ritorno dell’eguale, e quello della costruzione di una umanità ventura posso coesistere. Infatti il sottotitolo del libro di Daniélou mi sembra estremamente rivelativo della direzione della sua ricerca: proprio come Nietzsche che si aspettava in fondo un ritorno ai veri valori originari della tragedia greca impersonificati da Dioniso, anche Daniélou non è un semplice erudito che intende proporre qualche lettura originale del passato, ma un essere umano che desidera rispondere alla crisi di civiltà del quale è testimone e vorrebbe indicare una via di rinnovamento spirituale autentico.
L’interesse di questa prospettiva teorica è che non viene sostenuta in ambito puramente concettuale, Daniélou continuamente la mette alla prova e la arricchisce del materiale empirico di cui è venuto a conoscenza mediante i suoi viaggi: infatti il testo che propongo è di agevole lettura, poiché lo studioso è anche un grande affabulatore in grado di narrare miti antichissimi in una prosa limpida, come ha dimostrato nella sua lunga opera di divulgatore. Perciò si arriva senza nessuna particolare difficoltà né stanchezza alle ultime righe del libro e volentieri lo si rileggerebbe da capo, d’un fiato mentre, a questo punto, varrebbe davvero la pena di fermarsi e di iniziare a raccogliere alcuni degli stimoli ideali e delle provocazioni seminate dallo studioso in modo quasi nascosto nella sua scintillante prosa. La cultura scritta è davvero superiore a quella orale? Il monoteismo rappresenta davvero un progresso nella religione? L’agricoltura del tipo stanziale è davvero una conquista di civiltà rispetto ai nomadi cacciatori? Il matrimonio monogamico corrisponde a una tendenza innata negli esseri umani? Lasciamo ovviamente al lettore il compito di provare a rispondere a queste domande.
Certo Daniélou ha delle risposte: non è detto che noi possiamo o dobbiamo concordare con esse, ma possiamo anche solo ascoltare senza pregiudizi e osservare fino in fondo, in modo sereno, ciò che ha da dirci, anche se può essere estremamente difficile ascoltare senza preclusioni perché il testo contiene affermazioni taglienti che urtano contro convinzioni penetrate a fondo nelle nostre culture.
Per iniziare dalla fine, Daniélou ritiene la poliandria diffusa nelle culture matriarcali originarie: essa sussiste ancora in Tibet e presso i Khasi dell'Assam, e le tracce di questa antica usanza dei popoli munda si può verificare, per esempio, nelle leggende presenti nel poema epico Mahābhārata, nel quale i cinque eroi principali sono i fratelli Pandava che hanno una sola sposa di nome Draupadi.
Il contributo che vorrei offrire in questo saggio prevede due movimenti complementari: precisare lo sfondo concettuale implicito nelle argomentazioni di Danièlou, sempre ricche di digressioni e osservazioni esperienziali, ed evidenziare qualche punto davvero illuminante per introdurre alla dimensione spirituale da qualunque punto di partenza individuale si intenda procedere nella riflessione religiosa.
Alain Danièlou, grazie alla sua preparazione musicale, donò all'UNESCO la prima antologia di musica classica indiana al fine di conservarla per le generazioni future. Contrario a tutti gli ismi del suo tempo, al colonialismo, all'imperialismo, al comunismo ed alle religioni monoteiste cercò di mettere in evidenza tutti i limiti dell'Occidente nemico della natura e della creazione ed ostile verso la sessualità. Secondo il culto di Shiva il piacere e la sessualità sono indispensabili all'esistenza umana: realizzarsi nei giochi erotici è partecipare all'ordine naturale, al vero Dharma, e offre la possibilità di raggiungere la liberazione. Il piacere è la stessa tensione creatrice del Cosmo che attua la Vita e da questa evidenza Daniélou può affermare (ponendo in tal modo una innovativa chiave di lettura di tutto il Tantrismo che non possiamo approfondire in questa sede):
“L’atto d’amore può essere utilizzato come mezzo di perfezionamento e di conoscenza sottile, di ritorno al principio, di contatto diretto con Dio” (p.135)
A questo punto si arriva al vero obiettivo dell’indagine dall’uomo Daniélou che si immerge nella religiosità śivaita, andando alla ricerca direttamente sul campo, come farebbe ogni vero antropologo, di quelle remote pratiche cultuali ancora vive in alcune regioni dell’India, e che ha cercato di interpretare a livello teorico: infatti lo Śivaismo, dal quale lo studioso fa derivare lo stesso culto di Dioniso, è, per lui, la religione originaria, una religione naturale e non moralistica che crea i punti di contatto fra i diversi stati dell'essere, la sola che può esaudire i bisogni dell'uomo di oggi e di ogni epoca storica. Nell'universo tutto fa parte del Divino, non esiste lo spazio per un sacro contrapposto al profano.
Si chiarisce anche un altro dei fondamenti della sua prospettiva: questa componente originaria è antecedente alla successiva invasione dell’India attuata dalle popolazioni ariane, come afferma lo studioso in diversi passaggi: “A eccezione delle parti più antiche dei Veda tutti i successivi testi dell’induismo recano l’impronta delle idee filosofiche e delle tecniche rituali dell’antico Śivaismo più o meno adattati per essere integrati in un mondo teoricamente vedico. La stessa cosa avviene per il pensiero greco nei confronti dell’eredità minoica o pelasgica” (p. 134). L'indù viveva nell'eternità', per lui l’universo è formato da relazioni energetiche. Se andiamo al fondo di qualsivoglia cosa ritroviamo il rapporto fra una forza centripeta che condensa e quello di una forza centrifuga che disperde: il loro equilibrio origina il movimento circolare che determina sia il movimento degli astri sia quello degli atomi.
Cerco ancora di sintetizzare brevemente le visioni di rigenerazione alle quali egli arriva seguendo questa linea di pensiero: infatti, quando nel sostrato della Coscienza Universale, immobile e neutra, appare un vortice, una tendenza che si polarizza, si manifesta un'intenzione, una tensione orientata: la prima nozione che si forma nella coscienza latente che si sveglia è quella della paura. Da questa paura fondamentale nasce la Coscienza Cosmica, il desiderio di pensare, di creare, di produrre altro da se stessa; cosi appare il pensiero nella Coscienza Cosmica che dà vita all'Universo o meglio, come direbbe Daniélou nella sua visuale di profonda Unità, l'Universo non è distinto da questo pensiero. Il Dharma è la legge naturale del pensiero creatore, è la natura morale che regge e regola l’essenza profonda di tutto ciò che esiste, è l'oggetto di ogni conoscenza e di ogni scienza.
A questo punto mi permetto solo un ultimo riferimento all’uomo Danièlou, sempre fedele alle proprie convinzioni teoriche: attento da sempre al valore dei simboli, quando il Gange si ritirò e le acque si allontanarono dalla sua casa, egli lesse ciò come un segno, lasciò Benares e tornò in Occidente: non avrebbe mai voluto fare da spettatore alla globalizzazione dell'India. Tuttavia, malgrado questa forte prospettiva metafisica presente nella cultura indiana, Daniélou è sempre disposto a sottolineare, nella sua lettura dello Śivaismo, gli elementi che evidenziano la profonda umiltà che l’essere umano, necessariamente limitato, deve conservare sempre con estrema coerenza di fronte ai pericoli insiti nel lasciarsi andare ad affermazione eccessivamente dogmatiche:
“Le domande che l’uomo si pone sulla natura del mondo sono in realtà senza risposta. Lo Śivaismo raccomanda l’esperienza piuttosto che le speculazioni intellettuali. Nello Śiva Purāna il sapiente Sūta interroga Skanda; “La causa prima dell’universo è maschile, femminile o un essere intermedio, o una mescolanza dei due o qualcos’altro ancora? L’ātman ha una forma? È identificabile con il corpo con i sensi, il mentale, l’intelletto e l’ego? Skanda risponde: “Le speculazioni dei filosofi, a cominciare dalle storie concernenti il risultato delle azioni, il Karman, e i principi dell’esistenza, hanno dato luogo a interminabili controversie. Il saggio le considera con prudenza.” (p 137)
Per terminare, con una certa punta di dispiacere, questa breve rassegna di citazioni dirette delle parole del nostro autore, considerata anche la destinazione del presente saggio, non può mancare un illuminante riferimento all’insostituibile valore dello yoga (tecnica introdotta e coltivata da Śiva in persona) nell’esperienza dell’India: “Il primo fine delle tecniche yoga è ridurre al silenzio le divagazioni del pensiero per permettere un’apertura verso gli aspetti superiori dell’essere” (p. 138).
E questo in cui ritrovo l’eco delle parole dello stesso Patañjali: “L’essenza del metodo yoga sta nel calmare le agitazioni del mentale che allontano dalla realtà fisica e nell’utilizzare gli automatismi vitali e le forze istintive dell’uomo per reintegrarlo nell’ambiente naturale, nell’insieme della creazione. I metodi che liberano le forze istintive sono gli unici che permettano di stabilire un contatto col mondo vegetale, animale e sovrannaturale”. (p. 140) . L’universo di Śiva è il mondo della foresta, la cultura dei cacciatori contrapposta a quella sedentaria sviluppatasi nelle prime città generate dalla diffusione dell’agricoltura.
In questo mondo, più che le parole umane, hanno valore e forza le presenze naturali, e la persona umana autentica è quella che si conforma a queste voci non umane: “Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3,7). Anche se tali suoni naturali sono difficili, sempre più difficili da udire nel chiasso permanente cui ci hanno abituato le nostre metropoli globalizzate e la cultura promossa in esse, forse vale davvero la pena di ritornare metaforicamente a certi attimi di silenzio per ascoltare voci di verità: “Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elìa si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna” (Re 19, 11).
(Sergio Gandini)