Letture
Elogio della quiete
Leggo poesie dall’età di sei anni e ho letto e frequentato tanti poeti nel corso degli anni ma Bashō per me non rappresenta solo un poeta importante tra gli altri, è la Poesia. Oggi il lettore interessato dispone di numerose traduzioni e di valide bibliografie intorno a questo poeta, ma un tempo non era così. Del tutto casualmente venni in possesso di un libricino oggi pressoché introvabile: Poesie di Bashō nella collana La Meridiana, stampato a Firenze nel 1944. Fu un satori. Fu l’inizio. Nel corso degli anni, andando a Parigi trovai la traduzione francese della maggior parte delle sue poesie e soprattutto dei suoi diari di viaggio. |
Oggi la situazione è cambiata: sebbene non si possa dire che Bashō sia diventato di moda, a causa del pregiudizio etnocentrico della cultura europea, l’idea di haiku è universalmente nota, grazie anche alla mediazione della poesia americana del novecento, Ginsberg e Kerouac prima di tutto, e il suo nome è perlomeno conosciuto non solo dagli addetti ai lavori. Come dicevo all’inizio, oggi il lettore dispone di strumenti di conoscenza anche in lingua italiana: consiglierei la serie dei diari di viaggio curata da Lydia Origlia edita a Milano in piccoli libri a partire dal 1992 fino ad arrivare al volume “La vita del poeta Bashō e i suoi haiku” pubblicato nel 2019 e redatto dalla studiosa Keiko Ando Mei, vera ambasciatrice della cultura giapponese in Italia: iniziata in giovane età allo zen, la sua interpretazione della vita e della poesia di Bashō testimonia un’ intima conoscenza di questo autore che solo un giapponese può raggiungere.
Questi libri permettono di ricostruire con sufficiente esattezza le linee principali della sua vicenda biografica e rimando ad essi il lettore attento: mi limito perciò solo a qualche rapida notizia orientativa per cui fosse motivato a iniziare un percorso verso questo poeta.
La semplicità del dettato poetico non deve infatti trarre in inganno: com’è noto l’haiku è una brevissima poesia composta di sole diciassette sillabe, ma negli haiku di Bashō non ha posto nessuna improvvisazione ma solo un paziente lavoro di scavo e di rarefazione che mira a raggiungere l’essenza dell’espressione poetica. Comprendere Bashō è perciò un risultato al quale si può sperare di arrivare solo al termine di una lunga frequentazione di questo poeta, radicandosi nel cuore della sua esperienza poetica. Forse è necessario anche cercare di scrivere degli haiku: si tratta di un esercizio che potrebbe essere consigliato perfino a livello didattico a partire dalla più tenera età per coltivare davvero nei giovani l’amore verso la poesia, nell’autentico spirito di Bashō che ebbe nel corso della sua vita numerosi allievi e che, a partire da una certa età, visse in assoluta povertà solo grazie ai doni volontari dei suoi stessi amici. Per lui la poesia era un’attività che doveva essere esercitata tra amici, che presuppone una relazione Maestro-allievo inscritta in tutta la cultura orientale, era un atteggiamento e una pratica di vita.
Un luogo comune ancora presente in diversi studi biografici ripete che il poeta apparteneva alla classe militare ed in seguito venne ordinato monaco in un monastero zen. In realtà Bashō nacque da Matsuo Yozaemon, che fu un samurai di campagna, trasferitosi con la famiglia a servizio del castello di Tōdō Takatori, noto proprio per i famigerati ninja, spie al servizio del governo, e ormai divenuti famosi nella cultura cinematografica e popolare. Certo il poeta era stato destinato dal padre alla medesima attività di samurai, ma ebbe la fortuna di entrare come attendente nella casa di Tōdō Yoshitada, generale che comandava tutti i samurai di quel feudo; il figlio ed erede Yoshikiyo, che amava profondamente la poesia, era maggiore di due anni del poeta e si legò a Bashō con una profonda amicizia spirituale: fu grazie a lui che poté pubblicare in un’antologia i suoi primi componimenti poetici. Già nel 1666 però l’amico morì improvvisamente, il poeta lo pianse per anni e andò a depositare una ciocca dei suoi capelli sul monte Koya dove si trova un grande monastero buddista. Questo episodio è probabilmente all’origine della credenza che il poeta stesso fosse stato ordinato monaco: Bashō non ricevette mai un’ordinazione effettiva avendo un’indole libera e insofferente di ogni appartenenza, ma a partire da quella circostanza rinunciò al possibile lavoro militare, e visse sempre in condizioni di estrema povertà, in un autentico spirito di rinuncia al mondo. A partire da quel momento però il poeta si dedicò interamente alla poesia, entrando a servizio come domestico presso Kigin (poeta che godeva allora di una certa fama) e cercando, a sua volta, di campare a stento anche dei proventi esigui di maestro di haiku. In verità, Bashō non fu neppure l’inventore del genere haiku che era praticato da tempo, anche questo è solo un luogo comune, ma certo seppe rinnovare questo genere profondamente, mediante il suo spirito poetico e praticandolo come ragione di vita.
Tra i suoi allievi di quel periodo c’era anche un ricco commerciante di pesce, che provvedeva addirittura a rifornire la casa dello Shogun: probabilmente fu lui a donare al poeta, vicino a Fukagawa, un vecchio rifugio della guardia notturna della pescheria che fungeva ormai da ripostiglio, ed aiutato dai suoi amici-discepoli egli lo riadattò e ne fece la sua umile dimora forse a partire dal 1680. Matsuo Munefusa era infatti il vero nome di Bashō – si tratta solo solo uno pseudonimo, e il poeta nel corso della sua vita ne aveva già assunti diversi altri, e poiché, proprio accanto alla piccola capanna dove si era ritirato c’era un albero di banano, dono di un discepolo, e bashō significa in giapponese appunto banano, a partire a quel momento egli stesso assunse quel nome.
Parlare ancora di Bashō sarebbe superfluo, come aggiungere altri luoghi comuni quali il fatto che fosse un viaggiatore instancabile: le sue opere in prosa non sono altro che diari di viaggio e all’interno di essi troviamo i più intensi fra i suoi haiku; altrettanto inutile ricordare che la sua estetica fa coincidere i dettami dello zen con una sensibilità nuova che caratterizza la società in evoluzione, concentrandosi sulla ricerca del vuoto, la semplicità scarna, la natura colta nel costante mutamento delle stagioni, fino alla rappresentazione in vividi ritratti della vita quotidiana e popolare, che già apparteneva allo spirito originario degli haiku.
È superfluo ricordare il già noto e detto da altri senza provare almeno a entrare, per un istante, nella poesia autentica di Bashō. Ma cercare di parlare davvero di haiku, come dicevo già all’inizio, è arduo giacché questo genere di poesia, nell’aspirazione del poeta, nutre l’aspirazione a cogliere solo l’essenziale. In questa sede posso solo cercare di incuriosire il lettore, commentando in profondità un solo haiku della sua vasta produzione, aspirando di esprimere questo che è il paradosso essenziale della sua poesia, cioè come in una forma poetica così esigua possa venir racchiuso un mondo intero. D’altronde una poesia cinese recita appunto: “tutto l’universo non è che un’unica perla brillante”. Perciò scelgo una nota di viaggio Heikan no setsu (elogio della quiete), in realtà una nota di una pagina, scritta un anno prima della morte, avvenuta nel corso del suo ultimo viaggio nel 1694. In verità per capire davvero questa breve pagina sarebbe necessario scriverne decine. Provo però a rispettare lo spirito d’essenzialità proprio del poeta.
La vecchiaia sopraggiunge rapida come il sogno di una notte – in questa frase si condensa l’insegnamento del poeta che avverte l’imminenza dell’estremo viaggio. In margine a questa evidenza esistenziale Bashō sviluppa delle considerazioni in forma assolutamente libera e pindarica, che possono essere afferrate solo con una approfondita conoscenza dei riferimenti. Compare infatti il Vecchio Eremita del Nanka, in giapponese Sōshi, che altri non è che Chuangzi, il filosofo taoista. Spetta a lui presentare il cuore dell’insegnamento: solo chi lascia andare ogni distinzione, anche quella vissuta tragicamente nella propria carne, di vecchiaia e giovinezza, può sperare di attraversare le pianure del Tao e, infine chiusa la porta dell’umile capanno, avere come amica l’assenza di amici. Un modo stupendo per esprimere l’ideale eremitico che Bashō ha praticato per tutta la sua vita, con una coerenza estrema.
Ma infine appare l’haiku, unico in questa breve nota di viaggio in cui il poeta non è andato da nessuna parte, ma è stato davvero solo nella sua intimità.
Nella tradizione proposta da Lydia Origlia suona così:
Convolvoli
Sul recinto intorno alla porta
Che di giorno sprango
Traduzione esatta nella sostanza ma qui misuriamo la rarefazione di Bashō e l’estrema problematicità di ogni traduzione possibile. Nell’originale il carattere iniziale è Asagao, carattere composto che indica certo questo fiore ma che, letteralmente, significa volti del mattino. Il poeta che chiusa la porta del suo eremo a mezzogiorno sta dunque lasciando fuori questi fiori misteriosi che sono i volti del mattino. A che cosa veramente si riferisce questa espressione?
Bisogna ritornare all’inizio del brano in cui il poeta, rispettoso sia dei precetti buddisti sia delle regole confuciane cui direttamente allude, ammonisce l’uomo nobile a prendere le distanze da tre cose: le donne da giovane, le liti nella maturità, gli attaccamenti da vecchio. Rispetto a queste tre passioni la condanna del saggio è ferma, eppure solo la passione amorosa viene trattata con indulgenza: e giovani pescatrici, quali appaiono nel testo, di certo anche al poeta poteva capitare talvolta di vedere ancora in quel luogo. Forse varrebbe ancora la pena di aggiungere due circostanze: proprio nella primavera del medesimo anno era morto il nipote e figlio adottivo di Bashō ed era riapparsa nella sua vita una donna che era stata forse la sua amante e che si era fatta monaca da tempo.
Ella si era presentata accompagnata da tre fanciulli alla porta del poeta che, prontamente, aveva loro trovato alloggio in una casa vicina e, a partire da quel momento, Bashō stesso si ritira nella propria capanna, rifiutando perfino le visite degli allievi. Forse solo queste circostanze possono spiegare quel misto di distacco e di commozione per la bellezza che pervade, malgrado tutto, questa pagina profondamente autobiografica. Nel poeta non appare nessuna condanna della passione amorosa ma solo una velata nostalgia di bellezza – appare con estrema discrezione, soltanto a chi la sappia vedere.
Per trovare qualcosa di vagamente simile, in intensità, bisogna cercare a fondo nell’universo orientale. Magari in questa poesia di Dōgen: proprio lui l’austero fondatore della scuola soto in Giappone e che scrisse per tutta la sua vita poesie (da poco rese accessibili nella loro interezza grazie all’attenta traduzione di Aldo Tollini, Firenze, 2019). Qui il fondatore di una scuola monastica confessa la sua sensibilità verso la Bellezza, nelle sue forme effimere e impermanenti, forse rivelando un perplesso senso di colpa ma, infine, dimostrando tutta la sua profonda umanità.
Sebbene ammiri
La luna del mio cuore
Nel grande cielo,
mi perdo nell’oscurità
e amo i colori
Così, solo alla luce di queste lunghe premesse e precisazioni, oso proporre la mia personale versione dell’haiku (che rispetta il numero canonico di sillabe) che chiude questo diario di viaggio intorno alla propria intimità ed esperienza di vita:
Volti d’aurora
Intorno alla soglia
Di giorno chiusa
(Sergio Gandini)
Questi libri permettono di ricostruire con sufficiente esattezza le linee principali della sua vicenda biografica e rimando ad essi il lettore attento: mi limito perciò solo a qualche rapida notizia orientativa per cui fosse motivato a iniziare un percorso verso questo poeta.
La semplicità del dettato poetico non deve infatti trarre in inganno: com’è noto l’haiku è una brevissima poesia composta di sole diciassette sillabe, ma negli haiku di Bashō non ha posto nessuna improvvisazione ma solo un paziente lavoro di scavo e di rarefazione che mira a raggiungere l’essenza dell’espressione poetica. Comprendere Bashō è perciò un risultato al quale si può sperare di arrivare solo al termine di una lunga frequentazione di questo poeta, radicandosi nel cuore della sua esperienza poetica. Forse è necessario anche cercare di scrivere degli haiku: si tratta di un esercizio che potrebbe essere consigliato perfino a livello didattico a partire dalla più tenera età per coltivare davvero nei giovani l’amore verso la poesia, nell’autentico spirito di Bashō che ebbe nel corso della sua vita numerosi allievi e che, a partire da una certa età, visse in assoluta povertà solo grazie ai doni volontari dei suoi stessi amici. Per lui la poesia era un’attività che doveva essere esercitata tra amici, che presuppone una relazione Maestro-allievo inscritta in tutta la cultura orientale, era un atteggiamento e una pratica di vita.
Un luogo comune ancora presente in diversi studi biografici ripete che il poeta apparteneva alla classe militare ed in seguito venne ordinato monaco in un monastero zen. In realtà Bashō nacque da Matsuo Yozaemon, che fu un samurai di campagna, trasferitosi con la famiglia a servizio del castello di Tōdō Takatori, noto proprio per i famigerati ninja, spie al servizio del governo, e ormai divenuti famosi nella cultura cinematografica e popolare. Certo il poeta era stato destinato dal padre alla medesima attività di samurai, ma ebbe la fortuna di entrare come attendente nella casa di Tōdō Yoshitada, generale che comandava tutti i samurai di quel feudo; il figlio ed erede Yoshikiyo, che amava profondamente la poesia, era maggiore di due anni del poeta e si legò a Bashō con una profonda amicizia spirituale: fu grazie a lui che poté pubblicare in un’antologia i suoi primi componimenti poetici. Già nel 1666 però l’amico morì improvvisamente, il poeta lo pianse per anni e andò a depositare una ciocca dei suoi capelli sul monte Koya dove si trova un grande monastero buddista. Questo episodio è probabilmente all’origine della credenza che il poeta stesso fosse stato ordinato monaco: Bashō non ricevette mai un’ordinazione effettiva avendo un’indole libera e insofferente di ogni appartenenza, ma a partire da quella circostanza rinunciò al possibile lavoro militare, e visse sempre in condizioni di estrema povertà, in un autentico spirito di rinuncia al mondo. A partire da quel momento però il poeta si dedicò interamente alla poesia, entrando a servizio come domestico presso Kigin (poeta che godeva allora di una certa fama) e cercando, a sua volta, di campare a stento anche dei proventi esigui di maestro di haiku. In verità, Bashō non fu neppure l’inventore del genere haiku che era praticato da tempo, anche questo è solo un luogo comune, ma certo seppe rinnovare questo genere profondamente, mediante il suo spirito poetico e praticandolo come ragione di vita.
Tra i suoi allievi di quel periodo c’era anche un ricco commerciante di pesce, che provvedeva addirittura a rifornire la casa dello Shogun: probabilmente fu lui a donare al poeta, vicino a Fukagawa, un vecchio rifugio della guardia notturna della pescheria che fungeva ormai da ripostiglio, ed aiutato dai suoi amici-discepoli egli lo riadattò e ne fece la sua umile dimora forse a partire dal 1680. Matsuo Munefusa era infatti il vero nome di Bashō – si tratta solo solo uno pseudonimo, e il poeta nel corso della sua vita ne aveva già assunti diversi altri, e poiché, proprio accanto alla piccola capanna dove si era ritirato c’era un albero di banano, dono di un discepolo, e bashō significa in giapponese appunto banano, a partire a quel momento egli stesso assunse quel nome.
Parlare ancora di Bashō sarebbe superfluo, come aggiungere altri luoghi comuni quali il fatto che fosse un viaggiatore instancabile: le sue opere in prosa non sono altro che diari di viaggio e all’interno di essi troviamo i più intensi fra i suoi haiku; altrettanto inutile ricordare che la sua estetica fa coincidere i dettami dello zen con una sensibilità nuova che caratterizza la società in evoluzione, concentrandosi sulla ricerca del vuoto, la semplicità scarna, la natura colta nel costante mutamento delle stagioni, fino alla rappresentazione in vividi ritratti della vita quotidiana e popolare, che già apparteneva allo spirito originario degli haiku.
È superfluo ricordare il già noto e detto da altri senza provare almeno a entrare, per un istante, nella poesia autentica di Bashō. Ma cercare di parlare davvero di haiku, come dicevo già all’inizio, è arduo giacché questo genere di poesia, nell’aspirazione del poeta, nutre l’aspirazione a cogliere solo l’essenziale. In questa sede posso solo cercare di incuriosire il lettore, commentando in profondità un solo haiku della sua vasta produzione, aspirando di esprimere questo che è il paradosso essenziale della sua poesia, cioè come in una forma poetica così esigua possa venir racchiuso un mondo intero. D’altronde una poesia cinese recita appunto: “tutto l’universo non è che un’unica perla brillante”. Perciò scelgo una nota di viaggio Heikan no setsu (elogio della quiete), in realtà una nota di una pagina, scritta un anno prima della morte, avvenuta nel corso del suo ultimo viaggio nel 1694. In verità per capire davvero questa breve pagina sarebbe necessario scriverne decine. Provo però a rispettare lo spirito d’essenzialità proprio del poeta.
La vecchiaia sopraggiunge rapida come il sogno di una notte – in questa frase si condensa l’insegnamento del poeta che avverte l’imminenza dell’estremo viaggio. In margine a questa evidenza esistenziale Bashō sviluppa delle considerazioni in forma assolutamente libera e pindarica, che possono essere afferrate solo con una approfondita conoscenza dei riferimenti. Compare infatti il Vecchio Eremita del Nanka, in giapponese Sōshi, che altri non è che Chuangzi, il filosofo taoista. Spetta a lui presentare il cuore dell’insegnamento: solo chi lascia andare ogni distinzione, anche quella vissuta tragicamente nella propria carne, di vecchiaia e giovinezza, può sperare di attraversare le pianure del Tao e, infine chiusa la porta dell’umile capanno, avere come amica l’assenza di amici. Un modo stupendo per esprimere l’ideale eremitico che Bashō ha praticato per tutta la sua vita, con una coerenza estrema.
Ma infine appare l’haiku, unico in questa breve nota di viaggio in cui il poeta non è andato da nessuna parte, ma è stato davvero solo nella sua intimità.
Nella tradizione proposta da Lydia Origlia suona così:
Convolvoli
Sul recinto intorno alla porta
Che di giorno sprango
Traduzione esatta nella sostanza ma qui misuriamo la rarefazione di Bashō e l’estrema problematicità di ogni traduzione possibile. Nell’originale il carattere iniziale è Asagao, carattere composto che indica certo questo fiore ma che, letteralmente, significa volti del mattino. Il poeta che chiusa la porta del suo eremo a mezzogiorno sta dunque lasciando fuori questi fiori misteriosi che sono i volti del mattino. A che cosa veramente si riferisce questa espressione?
Bisogna ritornare all’inizio del brano in cui il poeta, rispettoso sia dei precetti buddisti sia delle regole confuciane cui direttamente allude, ammonisce l’uomo nobile a prendere le distanze da tre cose: le donne da giovane, le liti nella maturità, gli attaccamenti da vecchio. Rispetto a queste tre passioni la condanna del saggio è ferma, eppure solo la passione amorosa viene trattata con indulgenza: e giovani pescatrici, quali appaiono nel testo, di certo anche al poeta poteva capitare talvolta di vedere ancora in quel luogo. Forse varrebbe ancora la pena di aggiungere due circostanze: proprio nella primavera del medesimo anno era morto il nipote e figlio adottivo di Bashō ed era riapparsa nella sua vita una donna che era stata forse la sua amante e che si era fatta monaca da tempo.
Ella si era presentata accompagnata da tre fanciulli alla porta del poeta che, prontamente, aveva loro trovato alloggio in una casa vicina e, a partire da quel momento, Bashō stesso si ritira nella propria capanna, rifiutando perfino le visite degli allievi. Forse solo queste circostanze possono spiegare quel misto di distacco e di commozione per la bellezza che pervade, malgrado tutto, questa pagina profondamente autobiografica. Nel poeta non appare nessuna condanna della passione amorosa ma solo una velata nostalgia di bellezza – appare con estrema discrezione, soltanto a chi la sappia vedere.
Per trovare qualcosa di vagamente simile, in intensità, bisogna cercare a fondo nell’universo orientale. Magari in questa poesia di Dōgen: proprio lui l’austero fondatore della scuola soto in Giappone e che scrisse per tutta la sua vita poesie (da poco rese accessibili nella loro interezza grazie all’attenta traduzione di Aldo Tollini, Firenze, 2019). Qui il fondatore di una scuola monastica confessa la sua sensibilità verso la Bellezza, nelle sue forme effimere e impermanenti, forse rivelando un perplesso senso di colpa ma, infine, dimostrando tutta la sua profonda umanità.
Sebbene ammiri
La luna del mio cuore
Nel grande cielo,
mi perdo nell’oscurità
e amo i colori
Così, solo alla luce di queste lunghe premesse e precisazioni, oso proporre la mia personale versione dell’haiku (che rispetta il numero canonico di sillabe) che chiude questo diario di viaggio intorno alla propria intimità ed esperienza di vita:
Volti d’aurora
Intorno alla soglia
Di giorno chiusa
(Sergio Gandini)