Letture
Byung-Chul Han. Un percorso di lettura
Parte III. Invito alla contemplazione
Parte III. Invito alla contemplazione
In vari passaggi delle sue opere Byung-Chul Han tocca il tema della vita contemplativa. L’intento di questo ultimo scritto dedicato al suo pensiero vorrebbe essere quello di mettere insieme alcune di queste riflessioni sparse nelle sue opere fino a qui analizzate, ricostruendo così un quadro organico riguardo a cosa vuol dire contemplare per il filosofo coreano. |
La società della stanchezza
“Con l’espressione “vita contemplativa” non si dovrebbe rievocare il mondo in cui essa è nata originariamente. Tale “vita” è vincolata a quell’esperienza dell’essere per la quale ciò che è bello e perfetto è immutabile e immortale, e si sottrae a ogni umana possibilità di coglierlo. La sua atmosfera fondamentale è lo stupore per l’esser-così delle cose, il quale è libero da ogni attuabilità e processualità. Lo stupore viene sostituito dal moderno dubbio cartesiano. La facoltà contemplativa, tuttavia, non è necessariamente vincolata all’essere immortale. Anche ciò che incerto, impalpabile o fugace si rivela solo a un’attenzione profonda e contemplativa. Ugualmente, anche al prolungato e lento si accede solo con l’indugiare contemplativo. Le forme e gli stati della durata si sottraggono all’iperattività. Paul Cézanne, questo maestro dell’attenzione profonda, contemplativa, ha osservato una volta che sarebbe stato in grado di vedere anche l’odore delle cose. La visualizzazione degli odori richiede un’attenzione profonda. Nello stato contemplativo ci si ritrae, per così dire, fuori di sé e ci si immerge nelle cose.”.
(Vedi il capitolo “La noia profonda”, p.35 de La società della stanchezza)
“Imparare a vedere significa “assuefare l’occhio alla calma, alla pazienza, al lasciare-venire-a sé”, ossia rendere l’occhio abile all’attenzione profonda e contemplativa, a uno sguardo lento e prolungato. Questo imparare-a-vedere sarebbe la “prima istruzione alla spiritualità”. Si dovrebbe imparare “a non reagire subito a uno stimolo, bensì padroneggiare gli istinti che inibiscono, che concludono”. La mancanza di spirito, la meschinità si fonderebbero sull’”incapacità di resistere a uno stimolo”, di contrapporgli un “no”.”.
(Vedi il capitolo “La pedagogia del vedere”, p.47 de La società della stanchezza)
“La stanchezza da esaurimento è una stanchezza della potenza positiva. Rende incapaci di fare qualcosa. La stanchezza che ispira è una stanchezza della potenza negativa, ossia del non-fare. […] L’intervallo è un tempo senza lavoro […] Handke descrive questo intervallo come un tempo di pace. La stanchezza è disarmante. Nel lungo, lento sguardo di chi è stanco sorge la risolutezza della quiete.”.
(Vedi il capitolo “La società della stanchezza”, p.72 de La società della stanchezza)
Tematiche: Saper indugiare/soffermarsi; non reagire istantaneamente (potenza negativa), saper tollerare e vivere la noia e la stanchezza come porte che aprono ad un salto della coscienza, dal primato del lavoro al primato del riposo.
Psicopolitica e Filosofia del buddhismo zen
“E’ […] possibile una compassione (Mitgefühl) cosmica, un sentimento oceanico del mondo (Weltgefühl), che non è diretto ad una persona in particolare. Né l’emozione né l’affetto raggiungono l’ampiezza che caratterizza il sentimento: sono un’espressione della soggettività.”.
(Vedi il capitolo “Il capitalismo dell’emozione”, pp.52-53 di Psicopolitica)
“Ogni arte d’ispirazione buddhista zen si basa su una singolare esperienza della metamorfosi. Un detto zen recita: “Avendo contemplato a fondo il paesaggio Hsiao-Hsing, m’inoltro con la barca nell’immagine dipinta”. Contemplare a fondo il paesaggio non significa coglierlo in modo completo: cogliere un oggetto in modo completo significherebbe impadronirsene totalmente. Contemplare a fondo il paesaggio significa invece immergersi nel paesaggio, ignorando se stessi. Colui che contempla non ha qui il paesaggio davanti a sé come un oggetto (Gegen-Stand); piuttosto, si fonde con il paesaggio. Sul dipinto Neve serale sulla terra, quando fiume e cielo trapassano l’uno nell’altro Yü-chien scrive: “L’infinita vastità di fiume e cielo è l’infinita vastità del cuore”. Il cuore non è qui l’organo dell’interiorità. Esso, per così dire, pulsa trasferito fuori. La sua vastità è coestensiva a quella del paesaggio. Fiume e cielo trapassano l’uno nell’altro, e fluiscono nel cuore de-interiorizzato e svuotato, nel cuore di nessuno.
Yü-chien incornicia in queste parole la sua opera Barche a vela fanno ritorno nella baia lontana:
Una regione sconfinata entra nella punta del pennello. Le vele si sono abbassate nel fiume autunnale, nascoste nei vapori della sera. Ancora non si è spenta l’ultima luce del tramonto, ma già cominciano a tremolare le lampade dei pescatori. In una barca due vecchi parlano tranquilli della regione di Jiang-nan.
Questo paesaggio è sconfinato perché fluisce. I vapori della sera avvolgono le vele. La barca quasi non si distingue dal fiume autunnale. Luce e oscurità si confondono. E là dove il paesaggio sconfinato entra nella punta del pennello, là il pittore è il paesaggio. Dipinge essendosi trasferito nel paesaggio. Il pittore rispecchia in sé, in un sé di nessuno, il paesaggio. Il paesaggio dipinge il paesaggio. E’ questo a condurre il pennello. Il paesaggio viene visto così come esso vede se stesso, non inserito nella visuale prospettica del pittore. Il pennello, diventato uno con il paesaggio, non permetterebbe quella distanza che renderebbe possibile un vedere prospettico, oggettivante. E dove una regione sconfinata si fonde con la punta del pennello, ogni tratto di pennello è l’intero paesaggio. Ogni singolo tratto respira il tutto, l’intero paesaggio di Hsiao-Hsing. In realtà, nella pittura paesaggistica zen non viene “dipinto” o “eseguito” nulla. Non ci sono parti che vengono accumulate o riunite per comporre un tutto.”.
(Vedi il capitolo “Nessuno”, pp.86-87 di Filosofia del buddhismo zen)
Tematiche: Superamento della dimensione psicologica e soggettiva; immersione attraverso il sentimento nel mondo.
Il profumo del tempo
“Pur con tutto lo scetticismo verso la teologia del “radicamento” e della “patria”, occorre però prestare ascolto al suo (di Heidegger nda) indirizzarsi verso ciò che è permanente e lento. Vi sono infatti realmente eventi, forme o vibrazioni accessibili soltanto a uno sguardo lungo e contemplativo e che restano invece nascosti a uno sguardo operativo: si sottrae alla presa violenta tutto ciò che è fine, fugace, inapparente, insignificante, fluttuante o retrocedente.
Heidegger è allora in cammino verso un altro tempo che non sia un tempo del lavoro, verso il tempo di ciò che permane ed è lento, che rende possibile l’indugiare. Se il lavoro mira, in fondo, al dominio e all’incorporazione, annullando la distanza dalle cose, lo sguardo contemplativo, invece, le risparmia, lasciandole nel loro spazio e nel loro splendore’’.
(Vedi il capitolo “L’odore della quercia”, pp. 89-90 de Il profumo del tempo)
“Se si toglie alla vita ogni elemento contemplativo, essa finisce col soffrire di un’iperattività letale. L’uomo soffoca nel proprio stesso fare. E’ necessaria dunque una rivitalizzazione della vita contemplativa per aprire spazi di respiro. Forse lo spirito stesso nasce da un’eccedenza di tempo, da un otium, anzi da una lentezza di respiro. Si potrebbe allora reinterpretare lo pneuma nel suo significato sia di respiro sia di spirito: chi resta senza fiato, è anche senza spirito. La democratizzazione del lavoro dovrebbe essere allora seguita da una democratizzazione dell’otium, perché la prima non degeneri in schiavitù di tutti.’’.
(Vedi il capitolo ‘’Vita contemplativa’’, p.132 de Il profumo del tempo)
Tematiche: Indugiare come capacità di cogliere risonanze sottili delle cose e degli eventi; democratizzazione della vita contemplativa.
Le non cose
“Il sacro è un fenomeno del silenzio. Ci fa tendere l’orecchio: ‘’Myein, iniziare, significa etimologicamente ‘’chiudere’’ – gli occhi, ma soprattutto la bocca. All’inizio dei riti sacri, l’araldo “comandava il silenzio” (epitattei ten siopen)”. Oggi viviamo in un tempo senza consacrazione. Il verbo fondamentale del nostro tempo non è “chiudere” bensì aprire, “gli occhi, ma soprattutto la bocca”. L’ipercomunicazione, il baccano comunicativo sconsacrano e profanano il mondo. Nessuno sta in ascolto. Ciascuno produce sé stesso. Ecco perché il capitalismo non ama il silenzio. Il capitalismo informativo ingenera la coazione a comunicare.
Il silenzio acuisce l’attenzione nei confronti dell’ordine superiore, che tuttavia non dev’essere necessariamente una struttura di dominio e potere. Il silenzio può essere quanto di più pacifico, affabile, foriero di gioia. Chi comanda può costringere i sottoposti a tacere, ma il silenzio imposto non è silenzio. Il vero silenzio è libero da imposizioni. Non opprime, bensì eleva. Non deruba: regala.
Cézanne vede nel fare silenzio il compito stesso del pittore. La montagna Saint-Victorie gli appare come uno svettante massiccio di silenzio al quale egli deve obbedire. Cézanne fa silenzio ritirandosi e diventando nessuno. Diventa una persona che sta in ascolto:
Tutta la sua volontà deve essere silenziosa. L’artista deve far tacere in sé stesso tutte le voci dei pregiudizi, deve dimenticare, dimenticare, fare silenzio, essere un’eco perfetta. Allora, sulla lastra sensibile si potrà inscrivere tutto il paesaggio.
Lo stare in ascolto è l’atteggiamento religioso per eccellenza. L’Hyperion di Hölderlin dichiara: Tutto il mio essere tace e si tende in ascolto, quando l’onda lieve dell’aria scherza sul mio petto. Perso nel vasto azzurro, levo spesso lo sguardo all’etere o lo affondo nel sacro mare, ed è come se uno spirito fraterno mi abbracciasse, e il dolore della solitudine si sciogliesse nella vita della divinità. Essere uno col Tutto: è questa, la vita della divinità, questo il paradiso dell’uomo. Essere uno col Tutto ciò che vive, ritornare in un beato oblio di sé nel Tutto della Natura: questo è il culmine dei pensieri e delle gioie, la sacra cima del monte, il luogo della calma eterna.
Noi non conosciamo più quel sacro tacere che ci eleva alla vita divina, fino al cielo. La beata dimenticanza di sé cede il passo all’eccessiva autoproduzione dell’ego. L’ipercomunicazione digitale, la connessione senza confini non crea legami, non crea mondi. Anzi, ha un effetto isolante e accentua la solitudine. L’io isolato, privo di mondo, depresso, si allontana da quell’esser soli foriero di gioia, da quella sacra cima del monte.”.
(Vedi il capitolo “Silenzio”, pp.97-98 de Le non cose)
Tematiche: Silenzio e ascolto.
La scomparsa dei riti
“I riti creano una comunità della risonanza capace di armonia, di un ritmo comune: I riti creano assi di risonanza consolidati in chiave socioculturale, lungo i quali sono esperibili relazioni di risonanza verticale (verso gli dei, il cosmo, il tempo, l’eternità), orizzontale (nella società civile), e diagonale (in rapporto alle cose).
Senza risonanza si viene ributtati in se stessi, si viene isolati. Il crescente narcisismo si oppone all’esperienza risonante. La risonanza non è un’eco del sé, le è anzi insita la dimensione dell’Altro, essa significa armonia. La depressione nasce dal punto zero della risonanza. L’odierna crisi della comunità è una crisi della risonanza: la comunicazione digitale è costituita da camere di riverbero nelle quali si sente soprattutto la propria voce mentre si parla. I like, i friend e i follower non preparano alcun terreno risonante, rafforzano solo l’eco del sé.”.
(Vedi il capitolo “Coazione a produrre”, p.22 de La scomparsa dei riti)
“Dio benedice e santifica il settimo giorno. Il riposo del sabato conferisce all’opera di creazione la consacrazione divina. Non è mera inattività – rappresenta, anzi, una parte essenziale della creazione. Si esprime così Rashi nel suo commento alla Genesi: Dopo i sei giorni della creazione, che cosa mancava ancora all’universo? La menucha [“l’inoperosità”, “il riposo”]. Venne il sabato, venne la menucha e l’universo fu compiuto.
Il riposo del sabato non segue la creazione, piuttosto la porta a conclusione: senza di esso, la creazione è incompleta. Il settimo giorno Dio non si riposa per il lavoro fatto. Il riposo è più che altro la sua natura, esso completa la creazione, è l’essenza della creazione. Per cui, quando subordiniamo il riposo al lavoro, ci sfugge il divino.
Il sabato è per Franz Rosenzweig una “festa della creazione”, una “festa di riposo e contemplazione”, una festa del completamento. Durante il sabato ognuno “lascia riposare la sua lingua dalla chiacchera quotidiana” e si dedica al “silenzioso ascolto della voce di Dio”. Il sabato richiede silenzio, bisogna tenere chiusa la bocca. L’ascoltare in silenzio unisce le persone e crea una comunità senza comunicazione:
Poiché solo nel silenzio si è uniti, la parola unisce ma coloro che sono uniti tacciono, la liturgia, lo specchio ustorio che fa convergere i raggi del sole dell’eternità nel piccolo cerchio dell’anno deve introdurre gli uomini in questo silenzio. Certo anche in essa il silenzio comune può essere solo il punto finale e tutto ciò che precede non è che propedeutico a questo silenzio ultimo. In tale educazione domina ancora la parola. La parola stessa deve condurre l’uomo al punto in cui egli impara a tacere comunitariamente. L’inizio di questa educazione è che l’uomo impari ad ascoltare.
Il sacro richiede il silenzio:
Myein, iniziare, significa etimologicamente ‘’chiudere’’ – gli occhi, ma soprattutto la bocca. All’inizio dei riti sacri, l’araldo ‘’comandava il silenzio” (epitattei ten siopen).
Il silenzio fa ascoltare, va di pari passo con una particolare ricettività, con un’attenzione profonda e contemplativa. L’odierna coazione a comunicare fa invece sì che non riusciamo più a chiudere né gli occhi, né la bocca – dissacra la vita.”.
(Vedi il capitolo “Festa e religione”, pp. 53-54 de La scomparsa dei riti)
Tematiche: Comunità della risonanza; riposo festivo e ascolto silenzioso.
Breve riflessione conclusiva
Sembra di poter scorgere due tendenze fondamentali nella comprensione della contemplazione da parte di Byung-Chul Han.
In primo luogo contemplare vuol dire soffermarsi, abbandonare la postura del lavoratore a favore del riposo dell’artista che contempla il mondo e ne coglie le sfumature sottili, invisibili allo sguardo dell’uomo affaccendato nella cura della vita di tutti i giorni. Questa è quella che potremmo chiamare contemplazione artistica del mondo.
L’altro influsso nel pensare del filosofo coreano sembra essere la visione “monista” proveniente da certo pensiero orientale che cerca il superamento dell’ego nella fusione con il “tutto” naturale. Questa visione sembra venire a Byung-Chul Han primariamente dalla sua comprensione del buddhismo zen e viene ritrovata nell’esperienza artistica europea, ad esempio nel modo di creare di Cézanne e nell’esperienza del romanticismo.
Naturalmente queste sono tendenze presenti nel suo pensare ma il suo pensiero non può essere ridotto a una semplice somma delle due tendenze. Inoltre sebbene siano frequenti gli accenni alla contemplazione nelle sue opere, Byung-Chul Han non ha ancora pubblicato un testo specificamente dedicato al tema e non sembra aver tematizzato in modo coerente la questione fino ad oggi. Per il momento non ci resta che accogliere l’invito a contemplare e sperare in futuri approfondimenti.
(Lapo Chittaro)
“Con l’espressione “vita contemplativa” non si dovrebbe rievocare il mondo in cui essa è nata originariamente. Tale “vita” è vincolata a quell’esperienza dell’essere per la quale ciò che è bello e perfetto è immutabile e immortale, e si sottrae a ogni umana possibilità di coglierlo. La sua atmosfera fondamentale è lo stupore per l’esser-così delle cose, il quale è libero da ogni attuabilità e processualità. Lo stupore viene sostituito dal moderno dubbio cartesiano. La facoltà contemplativa, tuttavia, non è necessariamente vincolata all’essere immortale. Anche ciò che incerto, impalpabile o fugace si rivela solo a un’attenzione profonda e contemplativa. Ugualmente, anche al prolungato e lento si accede solo con l’indugiare contemplativo. Le forme e gli stati della durata si sottraggono all’iperattività. Paul Cézanne, questo maestro dell’attenzione profonda, contemplativa, ha osservato una volta che sarebbe stato in grado di vedere anche l’odore delle cose. La visualizzazione degli odori richiede un’attenzione profonda. Nello stato contemplativo ci si ritrae, per così dire, fuori di sé e ci si immerge nelle cose.”.
(Vedi il capitolo “La noia profonda”, p.35 de La società della stanchezza)
“Imparare a vedere significa “assuefare l’occhio alla calma, alla pazienza, al lasciare-venire-a sé”, ossia rendere l’occhio abile all’attenzione profonda e contemplativa, a uno sguardo lento e prolungato. Questo imparare-a-vedere sarebbe la “prima istruzione alla spiritualità”. Si dovrebbe imparare “a non reagire subito a uno stimolo, bensì padroneggiare gli istinti che inibiscono, che concludono”. La mancanza di spirito, la meschinità si fonderebbero sull’”incapacità di resistere a uno stimolo”, di contrapporgli un “no”.”.
(Vedi il capitolo “La pedagogia del vedere”, p.47 de La società della stanchezza)
“La stanchezza da esaurimento è una stanchezza della potenza positiva. Rende incapaci di fare qualcosa. La stanchezza che ispira è una stanchezza della potenza negativa, ossia del non-fare. […] L’intervallo è un tempo senza lavoro […] Handke descrive questo intervallo come un tempo di pace. La stanchezza è disarmante. Nel lungo, lento sguardo di chi è stanco sorge la risolutezza della quiete.”.
(Vedi il capitolo “La società della stanchezza”, p.72 de La società della stanchezza)
Tematiche: Saper indugiare/soffermarsi; non reagire istantaneamente (potenza negativa), saper tollerare e vivere la noia e la stanchezza come porte che aprono ad un salto della coscienza, dal primato del lavoro al primato del riposo.
Psicopolitica e Filosofia del buddhismo zen
“E’ […] possibile una compassione (Mitgefühl) cosmica, un sentimento oceanico del mondo (Weltgefühl), che non è diretto ad una persona in particolare. Né l’emozione né l’affetto raggiungono l’ampiezza che caratterizza il sentimento: sono un’espressione della soggettività.”.
(Vedi il capitolo “Il capitalismo dell’emozione”, pp.52-53 di Psicopolitica)
“Ogni arte d’ispirazione buddhista zen si basa su una singolare esperienza della metamorfosi. Un detto zen recita: “Avendo contemplato a fondo il paesaggio Hsiao-Hsing, m’inoltro con la barca nell’immagine dipinta”. Contemplare a fondo il paesaggio non significa coglierlo in modo completo: cogliere un oggetto in modo completo significherebbe impadronirsene totalmente. Contemplare a fondo il paesaggio significa invece immergersi nel paesaggio, ignorando se stessi. Colui che contempla non ha qui il paesaggio davanti a sé come un oggetto (Gegen-Stand); piuttosto, si fonde con il paesaggio. Sul dipinto Neve serale sulla terra, quando fiume e cielo trapassano l’uno nell’altro Yü-chien scrive: “L’infinita vastità di fiume e cielo è l’infinita vastità del cuore”. Il cuore non è qui l’organo dell’interiorità. Esso, per così dire, pulsa trasferito fuori. La sua vastità è coestensiva a quella del paesaggio. Fiume e cielo trapassano l’uno nell’altro, e fluiscono nel cuore de-interiorizzato e svuotato, nel cuore di nessuno.
Yü-chien incornicia in queste parole la sua opera Barche a vela fanno ritorno nella baia lontana:
Una regione sconfinata entra nella punta del pennello. Le vele si sono abbassate nel fiume autunnale, nascoste nei vapori della sera. Ancora non si è spenta l’ultima luce del tramonto, ma già cominciano a tremolare le lampade dei pescatori. In una barca due vecchi parlano tranquilli della regione di Jiang-nan.
Questo paesaggio è sconfinato perché fluisce. I vapori della sera avvolgono le vele. La barca quasi non si distingue dal fiume autunnale. Luce e oscurità si confondono. E là dove il paesaggio sconfinato entra nella punta del pennello, là il pittore è il paesaggio. Dipinge essendosi trasferito nel paesaggio. Il pittore rispecchia in sé, in un sé di nessuno, il paesaggio. Il paesaggio dipinge il paesaggio. E’ questo a condurre il pennello. Il paesaggio viene visto così come esso vede se stesso, non inserito nella visuale prospettica del pittore. Il pennello, diventato uno con il paesaggio, non permetterebbe quella distanza che renderebbe possibile un vedere prospettico, oggettivante. E dove una regione sconfinata si fonde con la punta del pennello, ogni tratto di pennello è l’intero paesaggio. Ogni singolo tratto respira il tutto, l’intero paesaggio di Hsiao-Hsing. In realtà, nella pittura paesaggistica zen non viene “dipinto” o “eseguito” nulla. Non ci sono parti che vengono accumulate o riunite per comporre un tutto.”.
(Vedi il capitolo “Nessuno”, pp.86-87 di Filosofia del buddhismo zen)
Tematiche: Superamento della dimensione psicologica e soggettiva; immersione attraverso il sentimento nel mondo.
Il profumo del tempo
“Pur con tutto lo scetticismo verso la teologia del “radicamento” e della “patria”, occorre però prestare ascolto al suo (di Heidegger nda) indirizzarsi verso ciò che è permanente e lento. Vi sono infatti realmente eventi, forme o vibrazioni accessibili soltanto a uno sguardo lungo e contemplativo e che restano invece nascosti a uno sguardo operativo: si sottrae alla presa violenta tutto ciò che è fine, fugace, inapparente, insignificante, fluttuante o retrocedente.
Heidegger è allora in cammino verso un altro tempo che non sia un tempo del lavoro, verso il tempo di ciò che permane ed è lento, che rende possibile l’indugiare. Se il lavoro mira, in fondo, al dominio e all’incorporazione, annullando la distanza dalle cose, lo sguardo contemplativo, invece, le risparmia, lasciandole nel loro spazio e nel loro splendore’’.
(Vedi il capitolo “L’odore della quercia”, pp. 89-90 de Il profumo del tempo)
“Se si toglie alla vita ogni elemento contemplativo, essa finisce col soffrire di un’iperattività letale. L’uomo soffoca nel proprio stesso fare. E’ necessaria dunque una rivitalizzazione della vita contemplativa per aprire spazi di respiro. Forse lo spirito stesso nasce da un’eccedenza di tempo, da un otium, anzi da una lentezza di respiro. Si potrebbe allora reinterpretare lo pneuma nel suo significato sia di respiro sia di spirito: chi resta senza fiato, è anche senza spirito. La democratizzazione del lavoro dovrebbe essere allora seguita da una democratizzazione dell’otium, perché la prima non degeneri in schiavitù di tutti.’’.
(Vedi il capitolo ‘’Vita contemplativa’’, p.132 de Il profumo del tempo)
Tematiche: Indugiare come capacità di cogliere risonanze sottili delle cose e degli eventi; democratizzazione della vita contemplativa.
Le non cose
“Il sacro è un fenomeno del silenzio. Ci fa tendere l’orecchio: ‘’Myein, iniziare, significa etimologicamente ‘’chiudere’’ – gli occhi, ma soprattutto la bocca. All’inizio dei riti sacri, l’araldo “comandava il silenzio” (epitattei ten siopen)”. Oggi viviamo in un tempo senza consacrazione. Il verbo fondamentale del nostro tempo non è “chiudere” bensì aprire, “gli occhi, ma soprattutto la bocca”. L’ipercomunicazione, il baccano comunicativo sconsacrano e profanano il mondo. Nessuno sta in ascolto. Ciascuno produce sé stesso. Ecco perché il capitalismo non ama il silenzio. Il capitalismo informativo ingenera la coazione a comunicare.
Il silenzio acuisce l’attenzione nei confronti dell’ordine superiore, che tuttavia non dev’essere necessariamente una struttura di dominio e potere. Il silenzio può essere quanto di più pacifico, affabile, foriero di gioia. Chi comanda può costringere i sottoposti a tacere, ma il silenzio imposto non è silenzio. Il vero silenzio è libero da imposizioni. Non opprime, bensì eleva. Non deruba: regala.
Cézanne vede nel fare silenzio il compito stesso del pittore. La montagna Saint-Victorie gli appare come uno svettante massiccio di silenzio al quale egli deve obbedire. Cézanne fa silenzio ritirandosi e diventando nessuno. Diventa una persona che sta in ascolto:
Tutta la sua volontà deve essere silenziosa. L’artista deve far tacere in sé stesso tutte le voci dei pregiudizi, deve dimenticare, dimenticare, fare silenzio, essere un’eco perfetta. Allora, sulla lastra sensibile si potrà inscrivere tutto il paesaggio.
Lo stare in ascolto è l’atteggiamento religioso per eccellenza. L’Hyperion di Hölderlin dichiara: Tutto il mio essere tace e si tende in ascolto, quando l’onda lieve dell’aria scherza sul mio petto. Perso nel vasto azzurro, levo spesso lo sguardo all’etere o lo affondo nel sacro mare, ed è come se uno spirito fraterno mi abbracciasse, e il dolore della solitudine si sciogliesse nella vita della divinità. Essere uno col Tutto: è questa, la vita della divinità, questo il paradiso dell’uomo. Essere uno col Tutto ciò che vive, ritornare in un beato oblio di sé nel Tutto della Natura: questo è il culmine dei pensieri e delle gioie, la sacra cima del monte, il luogo della calma eterna.
Noi non conosciamo più quel sacro tacere che ci eleva alla vita divina, fino al cielo. La beata dimenticanza di sé cede il passo all’eccessiva autoproduzione dell’ego. L’ipercomunicazione digitale, la connessione senza confini non crea legami, non crea mondi. Anzi, ha un effetto isolante e accentua la solitudine. L’io isolato, privo di mondo, depresso, si allontana da quell’esser soli foriero di gioia, da quella sacra cima del monte.”.
(Vedi il capitolo “Silenzio”, pp.97-98 de Le non cose)
Tematiche: Silenzio e ascolto.
La scomparsa dei riti
“I riti creano una comunità della risonanza capace di armonia, di un ritmo comune: I riti creano assi di risonanza consolidati in chiave socioculturale, lungo i quali sono esperibili relazioni di risonanza verticale (verso gli dei, il cosmo, il tempo, l’eternità), orizzontale (nella società civile), e diagonale (in rapporto alle cose).
Senza risonanza si viene ributtati in se stessi, si viene isolati. Il crescente narcisismo si oppone all’esperienza risonante. La risonanza non è un’eco del sé, le è anzi insita la dimensione dell’Altro, essa significa armonia. La depressione nasce dal punto zero della risonanza. L’odierna crisi della comunità è una crisi della risonanza: la comunicazione digitale è costituita da camere di riverbero nelle quali si sente soprattutto la propria voce mentre si parla. I like, i friend e i follower non preparano alcun terreno risonante, rafforzano solo l’eco del sé.”.
(Vedi il capitolo “Coazione a produrre”, p.22 de La scomparsa dei riti)
“Dio benedice e santifica il settimo giorno. Il riposo del sabato conferisce all’opera di creazione la consacrazione divina. Non è mera inattività – rappresenta, anzi, una parte essenziale della creazione. Si esprime così Rashi nel suo commento alla Genesi: Dopo i sei giorni della creazione, che cosa mancava ancora all’universo? La menucha [“l’inoperosità”, “il riposo”]. Venne il sabato, venne la menucha e l’universo fu compiuto.
Il riposo del sabato non segue la creazione, piuttosto la porta a conclusione: senza di esso, la creazione è incompleta. Il settimo giorno Dio non si riposa per il lavoro fatto. Il riposo è più che altro la sua natura, esso completa la creazione, è l’essenza della creazione. Per cui, quando subordiniamo il riposo al lavoro, ci sfugge il divino.
Il sabato è per Franz Rosenzweig una “festa della creazione”, una “festa di riposo e contemplazione”, una festa del completamento. Durante il sabato ognuno “lascia riposare la sua lingua dalla chiacchera quotidiana” e si dedica al “silenzioso ascolto della voce di Dio”. Il sabato richiede silenzio, bisogna tenere chiusa la bocca. L’ascoltare in silenzio unisce le persone e crea una comunità senza comunicazione:
Poiché solo nel silenzio si è uniti, la parola unisce ma coloro che sono uniti tacciono, la liturgia, lo specchio ustorio che fa convergere i raggi del sole dell’eternità nel piccolo cerchio dell’anno deve introdurre gli uomini in questo silenzio. Certo anche in essa il silenzio comune può essere solo il punto finale e tutto ciò che precede non è che propedeutico a questo silenzio ultimo. In tale educazione domina ancora la parola. La parola stessa deve condurre l’uomo al punto in cui egli impara a tacere comunitariamente. L’inizio di questa educazione è che l’uomo impari ad ascoltare.
Il sacro richiede il silenzio:
Myein, iniziare, significa etimologicamente ‘’chiudere’’ – gli occhi, ma soprattutto la bocca. All’inizio dei riti sacri, l’araldo ‘’comandava il silenzio” (epitattei ten siopen).
Il silenzio fa ascoltare, va di pari passo con una particolare ricettività, con un’attenzione profonda e contemplativa. L’odierna coazione a comunicare fa invece sì che non riusciamo più a chiudere né gli occhi, né la bocca – dissacra la vita.”.
(Vedi il capitolo “Festa e religione”, pp. 53-54 de La scomparsa dei riti)
Tematiche: Comunità della risonanza; riposo festivo e ascolto silenzioso.
Breve riflessione conclusiva
Sembra di poter scorgere due tendenze fondamentali nella comprensione della contemplazione da parte di Byung-Chul Han.
In primo luogo contemplare vuol dire soffermarsi, abbandonare la postura del lavoratore a favore del riposo dell’artista che contempla il mondo e ne coglie le sfumature sottili, invisibili allo sguardo dell’uomo affaccendato nella cura della vita di tutti i giorni. Questa è quella che potremmo chiamare contemplazione artistica del mondo.
L’altro influsso nel pensare del filosofo coreano sembra essere la visione “monista” proveniente da certo pensiero orientale che cerca il superamento dell’ego nella fusione con il “tutto” naturale. Questa visione sembra venire a Byung-Chul Han primariamente dalla sua comprensione del buddhismo zen e viene ritrovata nell’esperienza artistica europea, ad esempio nel modo di creare di Cézanne e nell’esperienza del romanticismo.
Naturalmente queste sono tendenze presenti nel suo pensare ma il suo pensiero non può essere ridotto a una semplice somma delle due tendenze. Inoltre sebbene siano frequenti gli accenni alla contemplazione nelle sue opere, Byung-Chul Han non ha ancora pubblicato un testo specificamente dedicato al tema e non sembra aver tematizzato in modo coerente la questione fino ad oggi. Per il momento non ci resta che accogliere l’invito a contemplare e sperare in futuri approfondimenti.
(Lapo Chittaro)