Letture
Vittore Capraccio e la sua "Fuga in Egitto".
Sono appena stato a Venezia e non posso non segnalare questa importante circostanza: a Palazzo Ducale è allestita dal 18 Marzo al 18 Giugno la mostra “Vittore Carpaccio: Master Storyteller of Renaissance Venice”. L’informativa dell’evento ci avverte che si tratta della prima mostra monografica a Venezia dopo la epocale esposizione del 1963 e nasce dall’esigenza di guardare con occhi nuovi a questo grande pittore: raccolgo subito questo invito che mi risuona intimo. |
Non sappiamo già tutto di Carpaccio, questo elegante e prezioso affabulatore di storie che aveva destato l’ammirazione di Ruskin e Proust, i quali hanno contribuito a farne l’icona del gusto veneziano? Fu proprio John Ruskin a definire le “Due dame” del museo Correr il più bel quadro del mondo e come ci ha ricordato Francesca Grego in un articolo comparso su Arte.it che già allora, il 12 giugno 2020, evidenziava con largo anticipo la futura esposizione. Il titolo della mostra, ovviamente in inglese, sottolinea un’occasione precisa: il prestito da parte della National Gallery di Washington del quadro “La fuga in Egitto”, dipinto per il quale viene avanzata l’ipotesi di una precisa e nuova datazione: 1516-1518.
Questa circostanza non è affatto secondaria e mi ha fatto riflettere sul profondo valore degli studi storici anche nell’ambito dell’arte; infatti quest’opera nel corso degli anni ha diviso i differenti studiosi, è stata attribuita ad Antonello da Messina e a Giovanni Bellini, per esempio: tali discussioni implicitamente dimostrano che si tratta di una tela davvero di valore, ma nel frattempo attestano le difficoltà di riconoscere in esso la mano di Carpaccio. Nel classico catalogo Fabbri edito nel 1967 questa opera era repertoriata con una differente datazione e appariva marginale rispetto alla sua produzione.
La mostra a Palazzo Ducale, valorizzata da un’accurata illuminazione e da un ricco apparato iconografico, è davvero unica del suo genere ed esige di essere visitala con estrema attenzione, in quanto offre la possibilità di vedere anche la “Madonna che legge” della National Gallery di Washington e presenta un’intera sezione della sua vasta produzione grafica, nella quale spiccano per importanza i disegni preparatori del ciclo delle “Storie di Sant’Orsola”. Forse non tutti sanno che Carpaccio è autore del più ampio corpus sopravvissuto di disegni di studio del primo Rinascimento: la mostra quindi offre la possibilità toccare con mano l’importanza del disegno per un autentico pittore.
Eppure Venezia ha il privilegio di custodire, intatto nella sua sede originaria, nella Scuola Dàlmata dei Santi Giorgio e Trifone, forse il più rappresentativo di tutti i cicli dipinti dal pittore, i sette telèri detti anche della Scuola di San Giorgio degli Schiavoni. Spiccano fra essi per forza rappresentativa “San Giorgio e il drago” e “Sant'Agostino nello studio”. Il San Giorgio unisce in sé energia, eleganza e segreto perturbamento: appare sullo sfondo a sinistra, stupenda e metafisica, una città che potrebbe essere una Venezia idealizzata, a destra la principessa colta in ardente trepidazione e preghiera, mentre il Santo è fotografato per sempre nell’istante in cui infila dentro le fauci spalancate del drago la lancia del trionfo, ma gli occhi corrono a tutti i teschi e resti di membra umane di coloro che sono stati uccisi e divorati dal drago, resti che sono sparsi a terra; il tutto intriso di una luce che sa di sangue e sofferenza. Il Santo ha infine vinto in questa lotta tremenda e quasi impari; se questa lotta non fosse quella che, più semplicemente, ciascuno di noi deve quotidianamente affrontare coi propri demòni interiori?
L’altro dipinto viene chiamato anche “Visione di sant'Agostino”, difficile vedere un quadro più intrinsecamente meditativo: il santo è raffigurato nella sua camera mentre sta studiando, l’ambiente del suo studio è analizzato nei minimi particolari, come sempre da questo pittore, che dedica una rigorosa attenzione descrittiva a ogni dettaglio della scena, gli oggetti silenti e i dorsi dei libri, l’altare e le travature del soffitto, la sedia e gli incunaboli aperti, fino all’enigmatica presenza del barboncino bianco che sarebbe parso al proprio posto forse meglio se messo in compagnia di una delle due dame celebrate da Ruskin. Il Santo però ha interrotto lo studio per un istante e guarda fuori dalla finestra dalla quale entra la luce: è raro trovare nella storia dell’arte una rappresentazione più efficace della illuminazione interiore che accade tra le presenze ovvie del quotidiano come avrebbe voluto un maestro zen.
Ma la chiesa conserva anche Orazione nell'Orto del Getsemani, un quadro altrettanto unico: nella storia dell’arte infatti le scene notturne sono molto rare nel periodo rinascimentale – qui invece possiamo contemplare un Gesù in una stupenda veste rosso fuoco, intento a pregare a mani giunte, inginocchiato, mentre i tre discepoli sono vinti dal sonno del Nemico, evidente metafora del bisogno di vegliare sempre che è l’aspirazione del vero cristiano; la scena è immersa in una luce crepuscolare indefinita (si sta avvicinando l’aurora? Oppure il tramonto è avvenuto da tempo?), da cui emergono scheletri di alberi e di rocce e, lontano, cielo colline pianura poggiata in un’unica tonalità blu di prussia.
Ruskin e Proust poterono quindi vedere a San Giorgio degli Schiavoni dipinti davvero unici. Anch’io vedendo la mostra ho dovuto lottare con la tentazione di correre a rivedere il ciclo di San Giorgio: mi sembrava impossibile lasciare la città senza aver compiuto il dovuto pellegrinaggio verso questo luogo carico di storia e di bellezza. Ho però già visitato questo luogo e studiato questi dipinti, li conosco bene; inoltre ero a Venezia solo per un giorno, e avevo vagato nella città prima dell’alba.
Così, dopo aver veduto le opere presenti in mostra, ho fatto una scelta consapevole, lasciandole affondare nelle acque della memoria, dove sono sempre presenti, al fine di dedicarmi interamente a questo solo dipinto. E sottolineo anche l’intelligenza dei curatori della mostra che hanno deliberatamente scelto di riservare una stanza solo alla “La fuga in Egitto”.
Da solo, mi sono seduto davanti a questo quadro.
È una tempera su tavola, di dimensioni ridotte 73×111cm rispetto ai grandi teleri di San Giorgio. Il tema, in effetti, non è tra quelli solitamente preferiti per un formato così grande: compare perlopiù nei termini di predella, cioè come tavoletta rettangolare, spesso dipinta a più riquadri, che corre lungo la base di un polittico o di una pala d'altare. Si tratta di una circostanza particolare che fa presuppore una committenza privata, ipotesi avvalorata dagli stemmi nobiliari presenti della cornice del quadro, che è ancora quella originale.
Inizio a svolgere questa riflessione: Carpaccio infatti è celebrato soprattutto per i suoi cicli, serie coordinate di grandi teleri che tramandano articolati racconti sacri, sceneggiati nella loro eloquente narrazione visiva, oggi la diremmo perfettamente cinematografica; essi furono realizzati per le sale di riunione di confraternite religiose laicali, a Venezia dette scuole, con una freschezza che piace al gusto popolare. In fondo questo artista fu di fatto uno degli inventori della pittura europea di genere, un insuperato raccontatore di storie, come ci ricorda il titolo inglese della mostra stessa.
Ho così iniziato a guardare questa opera con occhi nuovi.
Merito del curatore nell’averla posta da sola – come al termine di un viaggio. È possibile che in una singola opera l’autore cerchi di condensare tutto il suo messaggio? Una domanda che difficilmente potrebbe avere una risposta; forse non è necessario presupporre questa consapevolezza, semplicemente in ciascuna opera l’artista mette dentro tutte le sue esperienze precedenti. L’adozione speciale della prospettiva leggera conferisce al dipinto singolare curvatura, quasi il pittore avesse fatto uso di un obiettivo grandangolare, un 28 mm; nelle riprese di paesaggio e architettura tale tecnica esalta la sensazione di spazio e di profondità, in questo caso però essa imprime al quadro una sensazione di movimento che esprime efficacemente la realtà della fuga. L’asino procede in modo composto e assorto, quasi tirato da un preoccupato San Giuseppe, mentre la Madonna appare imperturbabile, tiene in braccio saldamente il bambino. In primo piano le creature vegetali dipinte con tutta l’amorosa cura a cui il pittore ci ha abituato nel corso di tutta la sua produzione; è però sera certo, come appare evidente dalla prevalenza dei grigi così diversi dai colori sapienti e squillanti di Carpaccio nei grandi teleri.
Qual è lo stato d’animo di colui che dipinge? Il pittore si avverte forse alla sera della propria vita? L’asino in primo piano è grigio, i filari di piante in alto che sottolineano la curvatura sono una terra di cassel quasi neri, il corso d’acqua è un grigio di payne. Proprio in basso a terra quel grigio incolore ritorna a essere terra quasi dorata eppure ancora intrisa di grigio. Sono davvero scomparsi quei colori squillanti cui Carpaccio ci ha abituati?
Sono rimasti – però rarefatti. Nei manti nelle montagne nel cielo nelle nuvole.
Il monte più alto quasi nascosto dal grande albero è del medesimo blu del risvolto del manto della Madonna; è difficile immaginare un colore più intenso e più spirituale, il pittore che lo ha raggiunto quasi ha timore di usarlo e lo impiega in due dettagli in apparenza insignificanti, il monte in alto e il risvolto del manto. Ma qui questo colore è, in verità, al centro del quadro: se fosse posto tra colori altrettanto saturi forse rischieremmo di non vederlo ma qui, in mezzo a tale incredibile armonia di grigi, quel colore squilla come una campana. Si riverbera nel resto del dipinto: il manto della madonna è d’oro ma intessuto con un’altra splendida tonalità d’azzurro appena meno viva e blu è anche la tunica di San Giuseppe – azzurro e oro il manto della madonna come le nuvole che corrono in cielo.
Fuga in Egitto – e se il pittore in quell’anziano san Giuseppe avesse voluto adombrare se stesso? Il pittore che accompagna la Madonna timidamente, modestamente con gli occhi bassi, potrebbe essere metafora della propria vocazione artistica – la Madonna avvolta in quel meraviglioso manto (nella mostra si cerca di spiegare precisamente come veniva realizzato nella moda veneziana del tempo) diventa figura della Bellezza stessa. La Madonna che ha in braccio il Bambino non è forse l’immagine più adeguata della bontà/bellezza per l’animo di questa artista? Carpaccio sta osservando tutta la sua fortunata storia di pittore e ci consegna una confessione intima dei valori autentici di Bellezza che ha cercato di perseguire nel corso di tutta la sua produzione.
È necessario iniziare a meditare a lungo davanti a un quadro – solo così è possibile vedere. Qualcosa cui forse il pittore non aveva pensato che inconsciamente – eppure il significato più profondo, più nascosto.
Mi viene alla mente una stupenda poesia di Adam Zagajewski, con la quale lascio volentieri il mio lettore continuare la sua personale meditazione davanti alla bellezza misteriosa di questo indescrivibile dipinto.
Arde la carta di fugaci segreti;
le confidenze del cielo che si spegne sommesso
non si lasciano annotare o ricordare.
(Sergio Gandini)
Questa circostanza non è affatto secondaria e mi ha fatto riflettere sul profondo valore degli studi storici anche nell’ambito dell’arte; infatti quest’opera nel corso degli anni ha diviso i differenti studiosi, è stata attribuita ad Antonello da Messina e a Giovanni Bellini, per esempio: tali discussioni implicitamente dimostrano che si tratta di una tela davvero di valore, ma nel frattempo attestano le difficoltà di riconoscere in esso la mano di Carpaccio. Nel classico catalogo Fabbri edito nel 1967 questa opera era repertoriata con una differente datazione e appariva marginale rispetto alla sua produzione.
La mostra a Palazzo Ducale, valorizzata da un’accurata illuminazione e da un ricco apparato iconografico, è davvero unica del suo genere ed esige di essere visitala con estrema attenzione, in quanto offre la possibilità di vedere anche la “Madonna che legge” della National Gallery di Washington e presenta un’intera sezione della sua vasta produzione grafica, nella quale spiccano per importanza i disegni preparatori del ciclo delle “Storie di Sant’Orsola”. Forse non tutti sanno che Carpaccio è autore del più ampio corpus sopravvissuto di disegni di studio del primo Rinascimento: la mostra quindi offre la possibilità toccare con mano l’importanza del disegno per un autentico pittore.
Eppure Venezia ha il privilegio di custodire, intatto nella sua sede originaria, nella Scuola Dàlmata dei Santi Giorgio e Trifone, forse il più rappresentativo di tutti i cicli dipinti dal pittore, i sette telèri detti anche della Scuola di San Giorgio degli Schiavoni. Spiccano fra essi per forza rappresentativa “San Giorgio e il drago” e “Sant'Agostino nello studio”. Il San Giorgio unisce in sé energia, eleganza e segreto perturbamento: appare sullo sfondo a sinistra, stupenda e metafisica, una città che potrebbe essere una Venezia idealizzata, a destra la principessa colta in ardente trepidazione e preghiera, mentre il Santo è fotografato per sempre nell’istante in cui infila dentro le fauci spalancate del drago la lancia del trionfo, ma gli occhi corrono a tutti i teschi e resti di membra umane di coloro che sono stati uccisi e divorati dal drago, resti che sono sparsi a terra; il tutto intriso di una luce che sa di sangue e sofferenza. Il Santo ha infine vinto in questa lotta tremenda e quasi impari; se questa lotta non fosse quella che, più semplicemente, ciascuno di noi deve quotidianamente affrontare coi propri demòni interiori?
L’altro dipinto viene chiamato anche “Visione di sant'Agostino”, difficile vedere un quadro più intrinsecamente meditativo: il santo è raffigurato nella sua camera mentre sta studiando, l’ambiente del suo studio è analizzato nei minimi particolari, come sempre da questo pittore, che dedica una rigorosa attenzione descrittiva a ogni dettaglio della scena, gli oggetti silenti e i dorsi dei libri, l’altare e le travature del soffitto, la sedia e gli incunaboli aperti, fino all’enigmatica presenza del barboncino bianco che sarebbe parso al proprio posto forse meglio se messo in compagnia di una delle due dame celebrate da Ruskin. Il Santo però ha interrotto lo studio per un istante e guarda fuori dalla finestra dalla quale entra la luce: è raro trovare nella storia dell’arte una rappresentazione più efficace della illuminazione interiore che accade tra le presenze ovvie del quotidiano come avrebbe voluto un maestro zen.
Ma la chiesa conserva anche Orazione nell'Orto del Getsemani, un quadro altrettanto unico: nella storia dell’arte infatti le scene notturne sono molto rare nel periodo rinascimentale – qui invece possiamo contemplare un Gesù in una stupenda veste rosso fuoco, intento a pregare a mani giunte, inginocchiato, mentre i tre discepoli sono vinti dal sonno del Nemico, evidente metafora del bisogno di vegliare sempre che è l’aspirazione del vero cristiano; la scena è immersa in una luce crepuscolare indefinita (si sta avvicinando l’aurora? Oppure il tramonto è avvenuto da tempo?), da cui emergono scheletri di alberi e di rocce e, lontano, cielo colline pianura poggiata in un’unica tonalità blu di prussia.
Ruskin e Proust poterono quindi vedere a San Giorgio degli Schiavoni dipinti davvero unici. Anch’io vedendo la mostra ho dovuto lottare con la tentazione di correre a rivedere il ciclo di San Giorgio: mi sembrava impossibile lasciare la città senza aver compiuto il dovuto pellegrinaggio verso questo luogo carico di storia e di bellezza. Ho però già visitato questo luogo e studiato questi dipinti, li conosco bene; inoltre ero a Venezia solo per un giorno, e avevo vagato nella città prima dell’alba.
Così, dopo aver veduto le opere presenti in mostra, ho fatto una scelta consapevole, lasciandole affondare nelle acque della memoria, dove sono sempre presenti, al fine di dedicarmi interamente a questo solo dipinto. E sottolineo anche l’intelligenza dei curatori della mostra che hanno deliberatamente scelto di riservare una stanza solo alla “La fuga in Egitto”.
Da solo, mi sono seduto davanti a questo quadro.
È una tempera su tavola, di dimensioni ridotte 73×111cm rispetto ai grandi teleri di San Giorgio. Il tema, in effetti, non è tra quelli solitamente preferiti per un formato così grande: compare perlopiù nei termini di predella, cioè come tavoletta rettangolare, spesso dipinta a più riquadri, che corre lungo la base di un polittico o di una pala d'altare. Si tratta di una circostanza particolare che fa presuppore una committenza privata, ipotesi avvalorata dagli stemmi nobiliari presenti della cornice del quadro, che è ancora quella originale.
Inizio a svolgere questa riflessione: Carpaccio infatti è celebrato soprattutto per i suoi cicli, serie coordinate di grandi teleri che tramandano articolati racconti sacri, sceneggiati nella loro eloquente narrazione visiva, oggi la diremmo perfettamente cinematografica; essi furono realizzati per le sale di riunione di confraternite religiose laicali, a Venezia dette scuole, con una freschezza che piace al gusto popolare. In fondo questo artista fu di fatto uno degli inventori della pittura europea di genere, un insuperato raccontatore di storie, come ci ricorda il titolo inglese della mostra stessa.
Ho così iniziato a guardare questa opera con occhi nuovi.
Merito del curatore nell’averla posta da sola – come al termine di un viaggio. È possibile che in una singola opera l’autore cerchi di condensare tutto il suo messaggio? Una domanda che difficilmente potrebbe avere una risposta; forse non è necessario presupporre questa consapevolezza, semplicemente in ciascuna opera l’artista mette dentro tutte le sue esperienze precedenti. L’adozione speciale della prospettiva leggera conferisce al dipinto singolare curvatura, quasi il pittore avesse fatto uso di un obiettivo grandangolare, un 28 mm; nelle riprese di paesaggio e architettura tale tecnica esalta la sensazione di spazio e di profondità, in questo caso però essa imprime al quadro una sensazione di movimento che esprime efficacemente la realtà della fuga. L’asino procede in modo composto e assorto, quasi tirato da un preoccupato San Giuseppe, mentre la Madonna appare imperturbabile, tiene in braccio saldamente il bambino. In primo piano le creature vegetali dipinte con tutta l’amorosa cura a cui il pittore ci ha abituato nel corso di tutta la sua produzione; è però sera certo, come appare evidente dalla prevalenza dei grigi così diversi dai colori sapienti e squillanti di Carpaccio nei grandi teleri.
Qual è lo stato d’animo di colui che dipinge? Il pittore si avverte forse alla sera della propria vita? L’asino in primo piano è grigio, i filari di piante in alto che sottolineano la curvatura sono una terra di cassel quasi neri, il corso d’acqua è un grigio di payne. Proprio in basso a terra quel grigio incolore ritorna a essere terra quasi dorata eppure ancora intrisa di grigio. Sono davvero scomparsi quei colori squillanti cui Carpaccio ci ha abituati?
Sono rimasti – però rarefatti. Nei manti nelle montagne nel cielo nelle nuvole.
Il monte più alto quasi nascosto dal grande albero è del medesimo blu del risvolto del manto della Madonna; è difficile immaginare un colore più intenso e più spirituale, il pittore che lo ha raggiunto quasi ha timore di usarlo e lo impiega in due dettagli in apparenza insignificanti, il monte in alto e il risvolto del manto. Ma qui questo colore è, in verità, al centro del quadro: se fosse posto tra colori altrettanto saturi forse rischieremmo di non vederlo ma qui, in mezzo a tale incredibile armonia di grigi, quel colore squilla come una campana. Si riverbera nel resto del dipinto: il manto della madonna è d’oro ma intessuto con un’altra splendida tonalità d’azzurro appena meno viva e blu è anche la tunica di San Giuseppe – azzurro e oro il manto della madonna come le nuvole che corrono in cielo.
Fuga in Egitto – e se il pittore in quell’anziano san Giuseppe avesse voluto adombrare se stesso? Il pittore che accompagna la Madonna timidamente, modestamente con gli occhi bassi, potrebbe essere metafora della propria vocazione artistica – la Madonna avvolta in quel meraviglioso manto (nella mostra si cerca di spiegare precisamente come veniva realizzato nella moda veneziana del tempo) diventa figura della Bellezza stessa. La Madonna che ha in braccio il Bambino non è forse l’immagine più adeguata della bontà/bellezza per l’animo di questa artista? Carpaccio sta osservando tutta la sua fortunata storia di pittore e ci consegna una confessione intima dei valori autentici di Bellezza che ha cercato di perseguire nel corso di tutta la sua produzione.
È necessario iniziare a meditare a lungo davanti a un quadro – solo così è possibile vedere. Qualcosa cui forse il pittore non aveva pensato che inconsciamente – eppure il significato più profondo, più nascosto.
Mi viene alla mente una stupenda poesia di Adam Zagajewski, con la quale lascio volentieri il mio lettore continuare la sua personale meditazione davanti alla bellezza misteriosa di questo indescrivibile dipinto.
Arde la carta di fugaci segreti;
le confidenze del cielo che si spegne sommesso
non si lasciano annotare o ricordare.
(Sergio Gandini)