Letture
Mente di principiante: quel che rimane di un grande insegnamento.
Parte prima: Ezra Bayda, cuore zen. Il mio incontro con lo Zen è stato un po' casuale, un’incursione dovuta inizialmente alla mera curiosità didattica di confrontare la tradizione a me più cara (quella Theravada) con le altre presenti nel grande mare del Buddhismo; poi, è diventato un motivo di approfondimento nell’ottica di un approccio interreligioso di cui non credo di poter fare a meno. Le ragioni di queste righe sono legate all’intima esigenza di mettere un po' di ordine, accompagnata, grazie alla dimensione collettiva che Mediatio ci offre, dall’opportunità di condividere con altri compagni di viaggio. |
Lo spunto offerto dal corso tenuto da Maciej Bielawski su Shunryu Suzuki – roshi, mi ha messo di fronte ad un interrogativo che era andato costruendosi nel mio percorso disordinato di letture fuori zona. In che modo gli autori contemporanei ai quali mi sono avvicinata sono legati al grande maestro, al Suzuki popolare reso famoso dal libro – non libro Mente zen, mente di principiante?
Ezra Bayda (Atlantic City, 1944) dopo avere praticato secondo la tradizione di Gurdgjief, nel 1978 si avvicina allo Zen, seguendo Taizan Maizumi roshi (insegnante Zen che ha combinato gli insegnamenti Soto e Rinzai) e Jakusho Kwong roshi (scuola Soto). Nel 1992 diventa discepolo di Charlotte Joko Beck (su cui si dirà meglio in altro momento), da cui riceve la trasmissione del Dharma nel 1998 presso lo Zen Center di San Diego, dove ha continuato ad insegnare fino al 2019.
“Although I have practiced Zen meditation for many years, in this book I have tried to expand the definition of practice beyond just meditation technique to include any genuine meditation-based approach. It doesn’t matter to me whether you sit Zen, vipassana, Tibetan or whatever. What matters is whether you want practice to include your everyday living” (Being Zen - Bringing Meditation to Life, Shambhala, 2003, pag, XIII).
“Sebbene io abbia praticato la meditazione Zen per molti anni, in questo libro ho provato ad estendere la definizione di pratica oltre una mera tecnica meditativa per includervi ogni autentico approccio basato sulla meditazione. Non mi importa se tu siedi secondo la tradizione Zen, o la vipassana o la tradizione tibetana o qualsiasi altra. Ciò che conta è se tu vuoi praticare per includere la tua vita di tutti i giorni". (traduzione nostra).
Questa sorta di breve dichiarazione programmatica dell’autore, che raramente parla con terminologia specificamente Zen, come lui stesso pure dice (“the reader will notice that throughout this book I rarely use Zen or Buddhist terminology, such as emptiness or nonduality”, op. cit., ibidem), mi sembra la caratteristica connotativa del nostro nonché la nota sottile che maggiormente lo avvicina al grande Suzuky. Ezra si colloca nel solco di quel “metodo”, quel modo di fare “pratica” pensato per gli occidentali, laici, con la mente sgombra e capaci perciò di avvicinarsi meglio ad una tradizione così antica e strutturata e perciò forse un po' distante.
E così, fedele a questa premessa, egli sviluppa il suo insegnamento leggero, ma preciso, calato sempre nella realtà quotidiana.
Ritrovo la semplicità e l’essenzialità di Suzuki nelle pagine scorrevoli e fluenti di Ezra, continuamente alla ricerca del metodo più semplice per insegnare a stare con quello che c’è. Temi cruciali del suo insegnamento: lavorare sulla paura, sui meccanismi di difesa della nostra mente, sugli espedienti che mettiamo in essere continuamente per schivare il dolore, invece di incontrarlo, di farne il nostro maestro. E anche lui, come i suoi maestri, usa continuamente la domanda (i koan).
Cos’è la pratica?
“L’essenza della vita di pratica è coltivare la consapevolezza. Questo processo ha due aspetti fondamentali. Il primo è chiarire il processo. Il secondo è fare esperienza, entrare con la consapevolezza nella realtà fisica del momento presente” (Star bene in acque torbide, Ubaldini editore, 2007, pag. 13).
Emerge il lui, in tutto il suo insegnamento, l’importanza di una pratica costante e precisa, fondata sull’aggancio al corpo ed alle esperienze fisiche, un continuo tornare al respiro e alle sensazioni corporee che si accompagnano ad ogni emozione. Un continuo chiedersi “che cos’è questo?” di fronte ad ogni emozione che ci spazza via, chiedersi “che cos’è questo?” (di nuovo, il koan). Stare, abitare, “risiedere” nella sensazione fisica ci strappa via dalla testa e ci riporta nel qui e ora. Ma tutto ciò va fatto con gentilezza, con tanta delicatezza non giudicante. Ho trovato utilissima la sua pratica (evidentemente presa in prestito dalla Joko Beck) di etichettare i pensieri.
“La pratica di etichettare i pensieri svolge una parte importante in questo processo. Se non etichettiamo i pensieri a mano a mano che li vediamo, molto probabilmente continueremo a crederli veri. Etichettare i pensieri implica ripetere a noi stessi, qualsiasi pensiero ci attraversi la mente: “E’ presente il pensiero ritenuto vero che la vita non è giusta” oppure “E’ presente il pensiero ritenuto vero che non me ne va mai bene una”. Etichettiamo i pensieri come se avessimo un pappagallo sulla spalla. Questa pratica spezza l’identificazione con i pensieri, elimina il nostro coinvolgimento in essi. In più abbiamo la possibilità di vedere con molta precisione a cosa crediamo” (Op. cit., pag. 20).
L’importanza di accompagnare i meditanti passo dopo passo nell’individuazione dei meccanismi mentali diventa in Ezra l’eredità più significativa dei maestri, diretti e indiretti, a cui ha attinto.
Potremmo continuare ancora e ancora nel seguire i percorsi che l’Autore traccia nei suoi pochi, ma significativi, libri.
Mi piace ricordare almeno un altro suo insegnamento che, a mio avviso, è di una forza dirompente.
Insistere sulla differenza sottile, ma efficace, tra “lasciar andare” e “lasciar essere”. Insegnamento ripetuto che attraversa tutti i suoi scritti e discorsi. Un po' come l’uso strategico delle domande che mettono con le spalle al muro.
“Lasciar andare è una delle espressioni più popolari della pratica spirituale. E’ anche un modo di dire comune. Lasciar andare significa essenzialmente che possiamo, e dobbiamo, abbandonare qualcosa che non ci fa bene, come per esempio un atteggiamento dannoso o un’emozione opprimente (…) Provare a lasciar andare equivale, in un certo qual modo, a cercare di liberarci delle cose che non ci piacciono, specialmente dei pensieri e delle sensazioni che reputiamo difficili. Li vediamo come nemici e vorremmo che la vita fosse diversa.
Lasciar essere può sembrare la stessa cosa, ma in realtà è del tutto diverso. Lasciar essere significa non provare ad abbandonare (lasciar andare) nulla, né provare a cambiare le cose o a sforzarsi di accettarle. Piuttosto, riconosciamo semplicemente quello che c’è e gli diciamo di sì, e ciò significa che siamo disponibili a sentirlo così com’è. Non è necessario che ci piaccia, né d’altra parte dobbiamo vederlo come un ostacolo o un nemico; dobbiamo solo essere disponibili a sperimentare quello che la nostra vita è in questo momento. Invece di vederlo come un nemico, lo vediamo come il nostro sentiero, e questo è essenzialmente diverso” (La vita autentica, Ubaldini editore, pag. 108).
Voglio chiudere con una poesia che auguro possa rendere più lieve la nostra pratica quotidiana, quando la domanda incalzante e l’impazienza irruente ci impediscono di vedere che il sentiero è proprio lì, sotto i nostri occhi.
Poesia
E qual’è il sentiero?
Impara ad abitare ciò che la vita propone.
Impara a prestare attenzione alle cose
che bloccano il flusso di una vita più aperta
e vederle come la vera via del risveglio:
costrutti, identità,
esitazioni, difese,
paure, autocritiche e accuse,
tutto ció che ci separa dall’accettare la vita.
E qual è il sentiero?
Rinunciare alla ricerca di consolazione
e alla fuga dal dolore.
Aprirsi alla volontà di essere
semplicemente in questo istante
così com’è.
Non più tanto pronti a cadere
nel vortice inarrestabile della mente.
Praticare è risvegliarsi al vero Sé:
nessuno in particolare, nessuna meta.
Abitando nel cuore, basta essere.
Siamo tanto di più che questo corpo,
che questo dramma personale.
Abbarbicati alla paura,
alla vergogna, al dolore,
perdiamo la gratitudine di una vita spontanea.
Come si manifesta, adesso, il nostro aggrapparci alle opinioni?
Rilassando il giudizio incessante della mente ci risvegliamo al cuore che cerca il risveglio.
E quando si alza il velo della separazione,
La vita si rivela come vuole.
Liberi dal sogno autocentrato
possiamo donarci agli altri,
come un uccello bianco nella neve.
Il tempo vola.
Non esitare.
Accogli grato questa vita preziosa.
Ezra Bayda (Cuore Zen, Ubaldini editore)
Piccola bibliografia di Ezra Bayda (tutti i testi sono editi da Ubaldini):
Essere Zen
Cuore Zen
La vita autentica
Le radici della felicità
Star bene in acque torbide
Invecchiare, guida per principianti
© Annunziata Candida Fusco
Ezra Bayda (Atlantic City, 1944) dopo avere praticato secondo la tradizione di Gurdgjief, nel 1978 si avvicina allo Zen, seguendo Taizan Maizumi roshi (insegnante Zen che ha combinato gli insegnamenti Soto e Rinzai) e Jakusho Kwong roshi (scuola Soto). Nel 1992 diventa discepolo di Charlotte Joko Beck (su cui si dirà meglio in altro momento), da cui riceve la trasmissione del Dharma nel 1998 presso lo Zen Center di San Diego, dove ha continuato ad insegnare fino al 2019.
“Although I have practiced Zen meditation for many years, in this book I have tried to expand the definition of practice beyond just meditation technique to include any genuine meditation-based approach. It doesn’t matter to me whether you sit Zen, vipassana, Tibetan or whatever. What matters is whether you want practice to include your everyday living” (Being Zen - Bringing Meditation to Life, Shambhala, 2003, pag, XIII).
“Sebbene io abbia praticato la meditazione Zen per molti anni, in questo libro ho provato ad estendere la definizione di pratica oltre una mera tecnica meditativa per includervi ogni autentico approccio basato sulla meditazione. Non mi importa se tu siedi secondo la tradizione Zen, o la vipassana o la tradizione tibetana o qualsiasi altra. Ciò che conta è se tu vuoi praticare per includere la tua vita di tutti i giorni". (traduzione nostra).
Questa sorta di breve dichiarazione programmatica dell’autore, che raramente parla con terminologia specificamente Zen, come lui stesso pure dice (“the reader will notice that throughout this book I rarely use Zen or Buddhist terminology, such as emptiness or nonduality”, op. cit., ibidem), mi sembra la caratteristica connotativa del nostro nonché la nota sottile che maggiormente lo avvicina al grande Suzuky. Ezra si colloca nel solco di quel “metodo”, quel modo di fare “pratica” pensato per gli occidentali, laici, con la mente sgombra e capaci perciò di avvicinarsi meglio ad una tradizione così antica e strutturata e perciò forse un po' distante.
E così, fedele a questa premessa, egli sviluppa il suo insegnamento leggero, ma preciso, calato sempre nella realtà quotidiana.
Ritrovo la semplicità e l’essenzialità di Suzuki nelle pagine scorrevoli e fluenti di Ezra, continuamente alla ricerca del metodo più semplice per insegnare a stare con quello che c’è. Temi cruciali del suo insegnamento: lavorare sulla paura, sui meccanismi di difesa della nostra mente, sugli espedienti che mettiamo in essere continuamente per schivare il dolore, invece di incontrarlo, di farne il nostro maestro. E anche lui, come i suoi maestri, usa continuamente la domanda (i koan).
Cos’è la pratica?
“L’essenza della vita di pratica è coltivare la consapevolezza. Questo processo ha due aspetti fondamentali. Il primo è chiarire il processo. Il secondo è fare esperienza, entrare con la consapevolezza nella realtà fisica del momento presente” (Star bene in acque torbide, Ubaldini editore, 2007, pag. 13).
Emerge il lui, in tutto il suo insegnamento, l’importanza di una pratica costante e precisa, fondata sull’aggancio al corpo ed alle esperienze fisiche, un continuo tornare al respiro e alle sensazioni corporee che si accompagnano ad ogni emozione. Un continuo chiedersi “che cos’è questo?” di fronte ad ogni emozione che ci spazza via, chiedersi “che cos’è questo?” (di nuovo, il koan). Stare, abitare, “risiedere” nella sensazione fisica ci strappa via dalla testa e ci riporta nel qui e ora. Ma tutto ciò va fatto con gentilezza, con tanta delicatezza non giudicante. Ho trovato utilissima la sua pratica (evidentemente presa in prestito dalla Joko Beck) di etichettare i pensieri.
“La pratica di etichettare i pensieri svolge una parte importante in questo processo. Se non etichettiamo i pensieri a mano a mano che li vediamo, molto probabilmente continueremo a crederli veri. Etichettare i pensieri implica ripetere a noi stessi, qualsiasi pensiero ci attraversi la mente: “E’ presente il pensiero ritenuto vero che la vita non è giusta” oppure “E’ presente il pensiero ritenuto vero che non me ne va mai bene una”. Etichettiamo i pensieri come se avessimo un pappagallo sulla spalla. Questa pratica spezza l’identificazione con i pensieri, elimina il nostro coinvolgimento in essi. In più abbiamo la possibilità di vedere con molta precisione a cosa crediamo” (Op. cit., pag. 20).
L’importanza di accompagnare i meditanti passo dopo passo nell’individuazione dei meccanismi mentali diventa in Ezra l’eredità più significativa dei maestri, diretti e indiretti, a cui ha attinto.
Potremmo continuare ancora e ancora nel seguire i percorsi che l’Autore traccia nei suoi pochi, ma significativi, libri.
Mi piace ricordare almeno un altro suo insegnamento che, a mio avviso, è di una forza dirompente.
Insistere sulla differenza sottile, ma efficace, tra “lasciar andare” e “lasciar essere”. Insegnamento ripetuto che attraversa tutti i suoi scritti e discorsi. Un po' come l’uso strategico delle domande che mettono con le spalle al muro.
“Lasciar andare è una delle espressioni più popolari della pratica spirituale. E’ anche un modo di dire comune. Lasciar andare significa essenzialmente che possiamo, e dobbiamo, abbandonare qualcosa che non ci fa bene, come per esempio un atteggiamento dannoso o un’emozione opprimente (…) Provare a lasciar andare equivale, in un certo qual modo, a cercare di liberarci delle cose che non ci piacciono, specialmente dei pensieri e delle sensazioni che reputiamo difficili. Li vediamo come nemici e vorremmo che la vita fosse diversa.
Lasciar essere può sembrare la stessa cosa, ma in realtà è del tutto diverso. Lasciar essere significa non provare ad abbandonare (lasciar andare) nulla, né provare a cambiare le cose o a sforzarsi di accettarle. Piuttosto, riconosciamo semplicemente quello che c’è e gli diciamo di sì, e ciò significa che siamo disponibili a sentirlo così com’è. Non è necessario che ci piaccia, né d’altra parte dobbiamo vederlo come un ostacolo o un nemico; dobbiamo solo essere disponibili a sperimentare quello che la nostra vita è in questo momento. Invece di vederlo come un nemico, lo vediamo come il nostro sentiero, e questo è essenzialmente diverso” (La vita autentica, Ubaldini editore, pag. 108).
Voglio chiudere con una poesia che auguro possa rendere più lieve la nostra pratica quotidiana, quando la domanda incalzante e l’impazienza irruente ci impediscono di vedere che il sentiero è proprio lì, sotto i nostri occhi.
Poesia
E qual’è il sentiero?
Impara ad abitare ciò che la vita propone.
Impara a prestare attenzione alle cose
che bloccano il flusso di una vita più aperta
e vederle come la vera via del risveglio:
costrutti, identità,
esitazioni, difese,
paure, autocritiche e accuse,
tutto ció che ci separa dall’accettare la vita.
E qual è il sentiero?
Rinunciare alla ricerca di consolazione
e alla fuga dal dolore.
Aprirsi alla volontà di essere
semplicemente in questo istante
così com’è.
Non più tanto pronti a cadere
nel vortice inarrestabile della mente.
Praticare è risvegliarsi al vero Sé:
nessuno in particolare, nessuna meta.
Abitando nel cuore, basta essere.
Siamo tanto di più che questo corpo,
che questo dramma personale.
Abbarbicati alla paura,
alla vergogna, al dolore,
perdiamo la gratitudine di una vita spontanea.
Come si manifesta, adesso, il nostro aggrapparci alle opinioni?
Rilassando il giudizio incessante della mente ci risvegliamo al cuore che cerca il risveglio.
E quando si alza il velo della separazione,
La vita si rivela come vuole.
Liberi dal sogno autocentrato
possiamo donarci agli altri,
come un uccello bianco nella neve.
Il tempo vola.
Non esitare.
Accogli grato questa vita preziosa.
Ezra Bayda (Cuore Zen, Ubaldini editore)
Piccola bibliografia di Ezra Bayda (tutti i testi sono editi da Ubaldini):
Essere Zen
Cuore Zen
La vita autentica
Le radici della felicità
Star bene in acque torbide
Invecchiare, guida per principianti
© Annunziata Candida Fusco