Letture
Giovanni Gerolamo Savoldo
Di recente ha fatto notizia la scoperta una piccola tavola di pioppo dalle dimensioni di circa 46 cm per 34 cm: rappresenta una Maddalena con il volto di Chiara Fancelli, moglie del Perugino. Il dipinto era già noto, in quanto faceva parte di una collezione privata all'estero, ma finora non era mai stato attribuito al celebre artista italiano. L'annuncio della scoperta è stato rilasciato durante la conferenza internazionale intitolata "La Bellezza Ideale - La visione della perfezione di Raffaello Sanzio" a Pergola (Pesaro Urbino), anticipando quanto sarebbe stato pubblicato sulla rivista scientifica "Open Science, Art and Science" sotto il titolo "La Maddalena di Raffaello ovvero quando l'allievo supera il Maestro". |
La proposta di questa nuova attribuzione è stata possibile grazie ad alcuni studi portati avanti dalla sede di Ascoli Piceno dell'Università di Camerino, che si fonda su una serie di dati poi interpretati da un pool di esperti internazionali tra i quali lo studioso Jean-Charles Pomerol, professore della Sorbona di Parigi.
Non intendo addentrarmi oltre nella discussione di questi problemi, ma mi viene da notare come il fatto può costituire una notizia in virtù del nome di Raffaello: se si trattasse solo del Perugino, l’impianto della presentazione non sarebbe così rilevante. Mi chiedo piuttosto quale sia lo stato dell’arte se ciò che interessa è solo un nome e non la qualità di un dipinto, perché da tempo non si cerca di educare a godere veramente di un’opera d’arte, a comprenderne il valore in sé, e invece si è tanto preoccupati delle attribuzioni e della fama legata ai nomi degli artisti.
Per esempio, ci si riferisce comunemente al Maestro Espressionista di Santa Chiara: con tale denominazione si indicano gli affreschi frammentari nel braccio destro del transetto e a quelli nelle vele della crociera principale della basilica di Santa Chiara ad Assisi; tale artista non deve essere confuso col Maestro di Santa Chiara, pittore dai modi pregiotteschi presente nella stessa basilica, con una tavola con la figura di Santa Chiara e storie della sua vita. Thode, all'inizio del Novecento, cercò di caratterizzare per primo questa personalità anonima, seguito da Roberto Longhi, che felicemente lo definì come agrodolce espressionista, circoscrivendo la sua attività ad Assisi tra il 1315 e il 1330. Penso anche ai tanti anonimi maestri bizantini, per esempio, quello autore del Crocifisso conservato a Pisa, al Museo Nazionale di San Matteo, una stupenda tempera su tavola sagomata del 1230 circa. Sempre a Pisa fu attivo il Maestro di San Martino, di nuovo studiato da Longhi che cercò di ricostruire un corpus di opere attorno a questo artista, da lui giudicato tra i migliori maestri del Duecento. Pittori probabilmente destinati a restare anonimi – così penso naturalmente a Dionigi Pseudo-Areopagita o allo scrittore inglese autore della Nube della non conoscenza, per nulla preoccupati del loro destino di anonimato.
All’inizio di settembre il nostro Maurizio Stefania e Daniele Rocchi hanno tenuto un interessante concerto per due clavicembali nel piccolo oratorio della chiesa di San Bernardino a Lallio: l’ambiente è interamente affrescato e si è conservato intatto. L’oratorio fu costruito nel 1450 per volontà di Eustacchio Licini detto “Cacciaguerra”, frate non professo del convento delle Grazie fondato da S. Bernardino. È stato riconosciuto monumento nazionale per l’importanza storica ed artistica, come pregevole documento del manierismo lombardo. Nelle due cappelle laterali, aggiunte nel 1532, si trovano affreschi di diversi santi cari alla devozione popolare. Nei sottarchi della navata sono raffigurati le Sibille e i Profeti. I 99 dipinti di cui è adornato l’interno sono opera di Gerolamo Colleoni (1500 – 1570), di Cristoforo Baschenis il Vecchio (1520 – 1613) e di un autore ignoto: raffigurano la vita della Madonna, di S. Caterina d’Alessandria, di S. Bernardino e alla passione, morte e resurrezione di Cristo; perfino la facciata esterna era ricoperta di affreschi che, nel 1967, sono stati staccati per sottrarli alla rovina completa e attualmente sono collocati nella sagrestia della chiesa parrocchiale.
Assistere al concerto mi ha dato la possibilità di esercitare, accanto al sentire, il vedere. Per vedere davvero occorre tempo e insieme distacco; prima avevo esaminato gli affreschi con lentezza sufficiente, soffermandomi su quelli che più colpivano la mia attenzione. Ora, seduto al mio posto, mentre sono intento soprattutto ad ascoltare la mente inizia a vedere davvero; non esamina più un particolare, il soggetto di un affresco piuttosto che quello di un altro, ma si lascia avvolgere dall’impressione complessiva dell’ambiente sonoro e visivo nel quale sono immerso. È bello che il piccolo oratorio sia interamente affrescato, custodisce il cuore in una preziosa intimità – non sono spinto più ad analizzare i dettagli, ma a restare in questa pienezza di colori e di forme suggerite da questi colori che si fanno disegni e immagini. Così mi accorgo della profonda unità che emana dall’ambiente: seppure Colleoni e Baschenis abbiano riferimenti differenti sono accumunati dalla medesima sensibilità verso la luce chiara e definita, perfino squillante del primo rinascimento. Semplificando molto si potrebbe dire che ancora ignorano la lezione del chiaroscuro annunciata da Leonardo. Quando ormai mi sono abituato all’idea di leggere il luogo secondo questi riferimenti formali, di colpo mi appare evidente la nota stridente, la presenza, proprio al centro dell’ambiente, di una tavola del tutto diversa, opera di qualcuno che invece doveva aver avuto modo di imparare a fondo la lezione del chiaroscuro, fin al punto di portarla alle estreme conseguenze.
Chi è questo pittore? Perché proprio al centro di questo ambiente si trova una tela di questa fattura? Vorrei che il lettore potesse avere le medesime esperienze di sconcerto e di curiosità che ho provato io mentre assistevo al concerto, affinché lui stesso mettesse in moto dentro di sé quelle medesime percezioni che favoriscono la ricerca.
Occorre iniziare a guardare davvero con attenzione per vedere qualcosa, non avere già comodi riferimenti e presunte risposte che spengono sul nascere ogni domandare.
Chi ha collocato questa tela in un ambiente unitario e uniforme era consapevole della percezione di rottura che avrebbe prodotto? Lo ha fatto deliberatamente o casualmente?
Forse non potremo mai saperlo ma quella percezione di disarmonia produce come effetto comprendere che cosa è la pittura del primo rinascimento e che cosa inizia ad accadere dopo. Fino al punto in cui, per me che contemplo, scompaiono tutti i soggetti e tutte le pitture di sfondo chiaro e rimane evidente solo la provocazione del chiaroscuro.
Chi potrebbe essere quel pittore?
La risposta a questo interrogativo non riuscirò ad averla durante il concerto né subito dopo, malgrado le mie conoscenze di storia dell’arte mi abbiano spinto a continuare a fare ipotesi – la risposta affiorerà solo dopo, grazie ai misteriosi percorsi della memoria involontaria. Ma sono grato di questa possibilità di interrogarmi e della quiete donatami dalla musica durante il concerto che ha permesso il mio contemplare.
E sono spinto a questa ulteriore riflessione: forse il mio ignorare chi fosse davvero quel pittore non è stato affatto un ostacolo alla mia contemplazione.
Potrebbe perfino aver favorito la mia concentrazione sul solo dipinto in sé. Forse che un’opera sia anonima, per tornare al tema dal quale aveva reso l’avvio il mio scritto, non è affatto un ostacolo, ma anzi elimina dalla nostra mente pregiudizi e avversioni, la lascia libera di concentrarsi solo su ciò che vale la pena di riflettere.
Solo alla fine del concerto, frugando fra i materiali a disposizione in sala ho trovato una parziale risposta: si tratta di una pietà di Gerolamo Savoldo.
La soluzione però non è così semplice, come ho scoperto in seguito iniziando a documentarmi. Intanto però ho chiarito la mia segreta intuizione: avevo già avuto modo di ammirare quel quadro in più di un’occasione al Kunsthistorisches Museum di Vienna dove si trova lo stupendo originale. Ma allora lo avevo davvero veduto? Vorrei proporre al lettore questa considerazione che amo fare: forse i musei non sono i luoghi dove devono stare le opere d’arte. I musei sono un’invenzione recente di matrice illuminista, obbediscono alle logiche della comodità e del consumo: può essere utile andare al Louvre ed essere esposti a un corso accelerato che metta alla prova le nostre cognizioni di storia dell’arte, ma è verosimile che la nostra attenzione riesca a restare costante per un’ora e basta. Per apprezzare veramente le opere presenti al Louvre forse sarebbe necessaria una settimana. Un quadro dovrebbe stare nel luogo originale.
Penso per esempio a uno dei dipinti che amo di più, gli affreschi con San Giorgio e la principessa nella basilica veronese di Santa Anastasia: sono collocati a una altezza sovraumana, risultano poco visibili senza un binocolo, ma sono contento di saperli là e se desidero analizzarli nei loro particolari mi basta qualche buona riproduzione.
Per le opere successive? Forse le case sono l’ambiente naturale dei dipinti, da quando iniziò il gusto della collezione: una sorta di via di mezzo tra la casa dell’artista in cui l’opera è nata ma solo per andarsene, e un museo in cui rischia di passare inosservata in mezzo a tante altre opere. Sono contento dunque che questo quadro di Savoldo sia proprio in questo oratorio, anche se le circostanze grazie alle quali è arrivato possono apparire del tutto contingenti: così può essere ammirato stando in una posizione centrale e forse suggerire anche a altri riflessioni sugli svolgimenti della pittura rinascimentale.
Per inciso: difficile sostenere che il quadro sia proprio di Savoldo, più probabile che si tratti di una replica dovuta alla sua scuola. Ma nemmeno questo è sicuro, potrebbe anche essere proprio di sua mano: il costume di fare copie a richiesta di uno stesso soggetto era diffuso tra i pittori di quel periodo e in particolare proprio in Savoldo. Per esempio, dalla sua Maddalena, uno dei suoi quadri più famosi, si conoscono almeno quattro versioni sicuramente autografe. Quella più famosa si trova alla National Gallery di Londra: è un dipinto a olio su tela di medie dimensioni (89,1x82,4 cm) databile al 1535-1540.
Provo a iniziare la mia immersione meditativa proprio da questo quadro.
Maria Maddalena viene raffigurata vicino a un muretto, dove ha appoggiato l’ampolla che racchiude l'olio usato per profumare il corpo di Cristo. Lo sfondo potrebbe rappresentare la Laguna di Venezia, solcata da alcuni barconi. L'episodio biblico narrato in Giovanni (20, 1-2) l’ha per sempre fissata alla domenica mattina dopo la Crocifissione, quando va alla tomba di Gesù e la trova vuota. Appare interamente avvolta in un grande mantello di seta cangiante con riflessi argentei, ci fissa, con una sofferta letizia in cui ancora traspare qualcosa della malizia di un tempo, ma la postura risulta così castigata rispetto alla sua vita passata, e mostra sulle labbra un sorriso indefinibile. Si racconta che quando Mosè discese con le tavole della legge il suo volto era raggiante per essere stato a lungo alla presenza dell’Adonai. Forse, siamo noi a restare davanti alla delusione e alla sorpresa causate dall’evidenza del sepolcro vuoto, noi ai quali per mancanza di fede non è dato vedere, ma Maddalena ha veduto e il suo sguardo testimonia. Nella versione a Londra il mantello è avvolto in una pura luce lunare, ma in quella al Getty Museum di Los Angeles è interamente d’oro come doveva essere il volto di Mosè – nel volto di lei appare qualcosa di straordinario, in quel sorriso sublime, il sorriso di chi ha veduto, e si è mutato nell’evidenza della Presenza – noi possiamo attraverso il suo sguardo almeno intuire.
Ecco forse non si può parlare di Savoldo e intorno alla sua pittura, ma occorre prima di tutto guardare. Giovanni Gerolamo Savoldo non è d’altronde un pittore molto noto: il suo nome viene naturalmente associato a Moretto da Brescia e al Romanino ma, in questa triade ideale, ha finito per essere lasciato in ombra, addirittura il primo studio monografico intorno alla sua pittura è stato pubblicato negli anni Sessanta. Diversi sono i motivi di questa scarsa fama: il primo, almeno a mio giudizio, è proprio il suo estro fantasioso, la sua relativamente scarsa produzione, la natura di essa, rivolta particolarmente ai privati piuttosto che a luoghi pubblici, poi la circostanza che la sua produzione si sia svolta quasi sempre lontano da Brescia, infine la mancanza di documentazione sicura (ignoriamo infatti l'anno esatto della sua nascita collocabile tra il 1480 e il 1485, e quello della morte avvenuta dopo il 1548), infine l'attribuzione nel passato di sue opere ad altri maestri. Insomma la profonda originalità di Savoldo, se non si può dire che deve essere ancora da scoprire, non ha ancora ottenuto il riconoscimento che merita.
Proporre una serie di rimandi possibili, affermare che Savoldo è erede del realismo e luminismo lombardo, del senso poetico della natura e del colore veneto, delle strutture formali della tradizione toscana, mi sembra che potrebbe tessere un interessante elogio di Savoldo e potrei continuare in questi collegamenti molteplici, spingermi in avanti e asserire che in lui si annuncia il mondo notturno e le grandi visioni che saranno di Caravaggio, di Rembrandt e di Velasquez; nel contempo, tutto questo mi pare ancora troppo poco perché Savoldo è prima di tutto Savoldo e dovrebbe essere compreso in sé.
Non posso non sottolineare un altro elemento di particolare intimità che ho scoperto con questo pittore, la sua singolare predilezione per il tema della Fuga in Egitto (alla tela realizzata sul medesimo tema da Carpaccio avevo già dedicato il mio saggio precedente):
addirittura Savoldo ne ha realizzato, almeno secondo le informazioni che attualmente abbiamo, cinque versioni differenti. Sarei tentato di dire che proprio su questo tema il pittore ha lavorato dagli esordi della sua pittura fino alla fine: la tela della collezione von Loetzbech di Nannhofen ad Augusta è probabilmente databile intorno al 1520, poi la versione della Pinacoteca Tosio Martinengo che rivela tutta le vibrazione del colorismo veneto, fino a quella conservata nella collezione Castelbarco Albani in cui si trova una spettacolare veduta della Riva degli Schiavoni, raffigurata con notevole precisione topografica ma anche soffusa di una stupenda sensibilità chiaroscurale e pervasa da intonazione intima e meditativa.
Ricordo ancora due tele: Tobiolo e l'angelo, 1527 circa, olio su tela, 96x126 cm, conservato a Roma, alla Galleria Borghese: il primo quadro di Savoldo che ebbi la fortuna di contemplare e che mi convinse della sua capacità di visione e della originalità assoluta di essa; poi San Matteo e l'angelo, 1534 circa, olio su tela, 93x125 cm, conservato a New York, al Metropolitan Museum of Art. Queste due tele di grandi (ma non grandissime) dimensioni convincono di come Savoldo abbia maturato una vera e propria specializzazione nel campo del notturno e degli studi di luce locale, anche se sappiamo ancora poco della sua reale formazione e dei suoi itinerari artistici, dal momento che non si conosce nessuna sua opera giovanile, pur essendo documentata la sua presenza a Parma nel 1506 e a Firenze nel 1508.
Al termine della mia breve rassegna ritorno alla tela di Vienna: la figura del Cristo è così monumentale e perfetta che letteralmente emerge dal quadro, nessun dipinto potrebbe contenerla, ma appare spezzata in due. Il corpo perfetto nella sua resa anatomica è vibrante di chiaro, quasi accecante, mentre le mani sono già strette nella rigidità, fino al volto, di un colore indefinibile terreo, addirittura sprofondato nella morte. Solo quattro figure emergono dall’oscurità che occupa metà della scena: Giuseppe d’Arimatea a sinistra che sorregge il cadavere di Gesù, Maria in lacrime e distrutta dal dolore, un’altra figura di donna sprofondata nel buio e infine la testa della Maddalena china alle sue ginocchia, affranta nelle lacrime ma in piena luce.
Mentre prendo congedo dal lettore e da Savoldo lo invito a fare una piccola gita a Lallio: vorrei che ricevesse questa profonda impressione che scaturisce dal contrasto tra l’ambiente solare del primo rinascimento e quella visione collocata in fondo all’ambiente, quella singolare Deposizione da cui emana tutto il mistero della storia dell’arte, in questo particolare istante di passaggio da Leonardo a Caravaggio e ancora oltre; a questo punto è davvero così importante stabilire se questa tela è autografa di Savoldo o solo riferibile alla sua scuola?
(Sergio Gandini)
Non intendo addentrarmi oltre nella discussione di questi problemi, ma mi viene da notare come il fatto può costituire una notizia in virtù del nome di Raffaello: se si trattasse solo del Perugino, l’impianto della presentazione non sarebbe così rilevante. Mi chiedo piuttosto quale sia lo stato dell’arte se ciò che interessa è solo un nome e non la qualità di un dipinto, perché da tempo non si cerca di educare a godere veramente di un’opera d’arte, a comprenderne il valore in sé, e invece si è tanto preoccupati delle attribuzioni e della fama legata ai nomi degli artisti.
Per esempio, ci si riferisce comunemente al Maestro Espressionista di Santa Chiara: con tale denominazione si indicano gli affreschi frammentari nel braccio destro del transetto e a quelli nelle vele della crociera principale della basilica di Santa Chiara ad Assisi; tale artista non deve essere confuso col Maestro di Santa Chiara, pittore dai modi pregiotteschi presente nella stessa basilica, con una tavola con la figura di Santa Chiara e storie della sua vita. Thode, all'inizio del Novecento, cercò di caratterizzare per primo questa personalità anonima, seguito da Roberto Longhi, che felicemente lo definì come agrodolce espressionista, circoscrivendo la sua attività ad Assisi tra il 1315 e il 1330. Penso anche ai tanti anonimi maestri bizantini, per esempio, quello autore del Crocifisso conservato a Pisa, al Museo Nazionale di San Matteo, una stupenda tempera su tavola sagomata del 1230 circa. Sempre a Pisa fu attivo il Maestro di San Martino, di nuovo studiato da Longhi che cercò di ricostruire un corpus di opere attorno a questo artista, da lui giudicato tra i migliori maestri del Duecento. Pittori probabilmente destinati a restare anonimi – così penso naturalmente a Dionigi Pseudo-Areopagita o allo scrittore inglese autore della Nube della non conoscenza, per nulla preoccupati del loro destino di anonimato.
All’inizio di settembre il nostro Maurizio Stefania e Daniele Rocchi hanno tenuto un interessante concerto per due clavicembali nel piccolo oratorio della chiesa di San Bernardino a Lallio: l’ambiente è interamente affrescato e si è conservato intatto. L’oratorio fu costruito nel 1450 per volontà di Eustacchio Licini detto “Cacciaguerra”, frate non professo del convento delle Grazie fondato da S. Bernardino. È stato riconosciuto monumento nazionale per l’importanza storica ed artistica, come pregevole documento del manierismo lombardo. Nelle due cappelle laterali, aggiunte nel 1532, si trovano affreschi di diversi santi cari alla devozione popolare. Nei sottarchi della navata sono raffigurati le Sibille e i Profeti. I 99 dipinti di cui è adornato l’interno sono opera di Gerolamo Colleoni (1500 – 1570), di Cristoforo Baschenis il Vecchio (1520 – 1613) e di un autore ignoto: raffigurano la vita della Madonna, di S. Caterina d’Alessandria, di S. Bernardino e alla passione, morte e resurrezione di Cristo; perfino la facciata esterna era ricoperta di affreschi che, nel 1967, sono stati staccati per sottrarli alla rovina completa e attualmente sono collocati nella sagrestia della chiesa parrocchiale.
Assistere al concerto mi ha dato la possibilità di esercitare, accanto al sentire, il vedere. Per vedere davvero occorre tempo e insieme distacco; prima avevo esaminato gli affreschi con lentezza sufficiente, soffermandomi su quelli che più colpivano la mia attenzione. Ora, seduto al mio posto, mentre sono intento soprattutto ad ascoltare la mente inizia a vedere davvero; non esamina più un particolare, il soggetto di un affresco piuttosto che quello di un altro, ma si lascia avvolgere dall’impressione complessiva dell’ambiente sonoro e visivo nel quale sono immerso. È bello che il piccolo oratorio sia interamente affrescato, custodisce il cuore in una preziosa intimità – non sono spinto più ad analizzare i dettagli, ma a restare in questa pienezza di colori e di forme suggerite da questi colori che si fanno disegni e immagini. Così mi accorgo della profonda unità che emana dall’ambiente: seppure Colleoni e Baschenis abbiano riferimenti differenti sono accumunati dalla medesima sensibilità verso la luce chiara e definita, perfino squillante del primo rinascimento. Semplificando molto si potrebbe dire che ancora ignorano la lezione del chiaroscuro annunciata da Leonardo. Quando ormai mi sono abituato all’idea di leggere il luogo secondo questi riferimenti formali, di colpo mi appare evidente la nota stridente, la presenza, proprio al centro dell’ambiente, di una tavola del tutto diversa, opera di qualcuno che invece doveva aver avuto modo di imparare a fondo la lezione del chiaroscuro, fin al punto di portarla alle estreme conseguenze.
Chi è questo pittore? Perché proprio al centro di questo ambiente si trova una tela di questa fattura? Vorrei che il lettore potesse avere le medesime esperienze di sconcerto e di curiosità che ho provato io mentre assistevo al concerto, affinché lui stesso mettesse in moto dentro di sé quelle medesime percezioni che favoriscono la ricerca.
Occorre iniziare a guardare davvero con attenzione per vedere qualcosa, non avere già comodi riferimenti e presunte risposte che spengono sul nascere ogni domandare.
Chi ha collocato questa tela in un ambiente unitario e uniforme era consapevole della percezione di rottura che avrebbe prodotto? Lo ha fatto deliberatamente o casualmente?
Forse non potremo mai saperlo ma quella percezione di disarmonia produce come effetto comprendere che cosa è la pittura del primo rinascimento e che cosa inizia ad accadere dopo. Fino al punto in cui, per me che contemplo, scompaiono tutti i soggetti e tutte le pitture di sfondo chiaro e rimane evidente solo la provocazione del chiaroscuro.
Chi potrebbe essere quel pittore?
La risposta a questo interrogativo non riuscirò ad averla durante il concerto né subito dopo, malgrado le mie conoscenze di storia dell’arte mi abbiano spinto a continuare a fare ipotesi – la risposta affiorerà solo dopo, grazie ai misteriosi percorsi della memoria involontaria. Ma sono grato di questa possibilità di interrogarmi e della quiete donatami dalla musica durante il concerto che ha permesso il mio contemplare.
E sono spinto a questa ulteriore riflessione: forse il mio ignorare chi fosse davvero quel pittore non è stato affatto un ostacolo alla mia contemplazione.
Potrebbe perfino aver favorito la mia concentrazione sul solo dipinto in sé. Forse che un’opera sia anonima, per tornare al tema dal quale aveva reso l’avvio il mio scritto, non è affatto un ostacolo, ma anzi elimina dalla nostra mente pregiudizi e avversioni, la lascia libera di concentrarsi solo su ciò che vale la pena di riflettere.
Solo alla fine del concerto, frugando fra i materiali a disposizione in sala ho trovato una parziale risposta: si tratta di una pietà di Gerolamo Savoldo.
La soluzione però non è così semplice, come ho scoperto in seguito iniziando a documentarmi. Intanto però ho chiarito la mia segreta intuizione: avevo già avuto modo di ammirare quel quadro in più di un’occasione al Kunsthistorisches Museum di Vienna dove si trova lo stupendo originale. Ma allora lo avevo davvero veduto? Vorrei proporre al lettore questa considerazione che amo fare: forse i musei non sono i luoghi dove devono stare le opere d’arte. I musei sono un’invenzione recente di matrice illuminista, obbediscono alle logiche della comodità e del consumo: può essere utile andare al Louvre ed essere esposti a un corso accelerato che metta alla prova le nostre cognizioni di storia dell’arte, ma è verosimile che la nostra attenzione riesca a restare costante per un’ora e basta. Per apprezzare veramente le opere presenti al Louvre forse sarebbe necessaria una settimana. Un quadro dovrebbe stare nel luogo originale.
Penso per esempio a uno dei dipinti che amo di più, gli affreschi con San Giorgio e la principessa nella basilica veronese di Santa Anastasia: sono collocati a una altezza sovraumana, risultano poco visibili senza un binocolo, ma sono contento di saperli là e se desidero analizzarli nei loro particolari mi basta qualche buona riproduzione.
Per le opere successive? Forse le case sono l’ambiente naturale dei dipinti, da quando iniziò il gusto della collezione: una sorta di via di mezzo tra la casa dell’artista in cui l’opera è nata ma solo per andarsene, e un museo in cui rischia di passare inosservata in mezzo a tante altre opere. Sono contento dunque che questo quadro di Savoldo sia proprio in questo oratorio, anche se le circostanze grazie alle quali è arrivato possono apparire del tutto contingenti: così può essere ammirato stando in una posizione centrale e forse suggerire anche a altri riflessioni sugli svolgimenti della pittura rinascimentale.
Per inciso: difficile sostenere che il quadro sia proprio di Savoldo, più probabile che si tratti di una replica dovuta alla sua scuola. Ma nemmeno questo è sicuro, potrebbe anche essere proprio di sua mano: il costume di fare copie a richiesta di uno stesso soggetto era diffuso tra i pittori di quel periodo e in particolare proprio in Savoldo. Per esempio, dalla sua Maddalena, uno dei suoi quadri più famosi, si conoscono almeno quattro versioni sicuramente autografe. Quella più famosa si trova alla National Gallery di Londra: è un dipinto a olio su tela di medie dimensioni (89,1x82,4 cm) databile al 1535-1540.
Provo a iniziare la mia immersione meditativa proprio da questo quadro.
Maria Maddalena viene raffigurata vicino a un muretto, dove ha appoggiato l’ampolla che racchiude l'olio usato per profumare il corpo di Cristo. Lo sfondo potrebbe rappresentare la Laguna di Venezia, solcata da alcuni barconi. L'episodio biblico narrato in Giovanni (20, 1-2) l’ha per sempre fissata alla domenica mattina dopo la Crocifissione, quando va alla tomba di Gesù e la trova vuota. Appare interamente avvolta in un grande mantello di seta cangiante con riflessi argentei, ci fissa, con una sofferta letizia in cui ancora traspare qualcosa della malizia di un tempo, ma la postura risulta così castigata rispetto alla sua vita passata, e mostra sulle labbra un sorriso indefinibile. Si racconta che quando Mosè discese con le tavole della legge il suo volto era raggiante per essere stato a lungo alla presenza dell’Adonai. Forse, siamo noi a restare davanti alla delusione e alla sorpresa causate dall’evidenza del sepolcro vuoto, noi ai quali per mancanza di fede non è dato vedere, ma Maddalena ha veduto e il suo sguardo testimonia. Nella versione a Londra il mantello è avvolto in una pura luce lunare, ma in quella al Getty Museum di Los Angeles è interamente d’oro come doveva essere il volto di Mosè – nel volto di lei appare qualcosa di straordinario, in quel sorriso sublime, il sorriso di chi ha veduto, e si è mutato nell’evidenza della Presenza – noi possiamo attraverso il suo sguardo almeno intuire.
Ecco forse non si può parlare di Savoldo e intorno alla sua pittura, ma occorre prima di tutto guardare. Giovanni Gerolamo Savoldo non è d’altronde un pittore molto noto: il suo nome viene naturalmente associato a Moretto da Brescia e al Romanino ma, in questa triade ideale, ha finito per essere lasciato in ombra, addirittura il primo studio monografico intorno alla sua pittura è stato pubblicato negli anni Sessanta. Diversi sono i motivi di questa scarsa fama: il primo, almeno a mio giudizio, è proprio il suo estro fantasioso, la sua relativamente scarsa produzione, la natura di essa, rivolta particolarmente ai privati piuttosto che a luoghi pubblici, poi la circostanza che la sua produzione si sia svolta quasi sempre lontano da Brescia, infine la mancanza di documentazione sicura (ignoriamo infatti l'anno esatto della sua nascita collocabile tra il 1480 e il 1485, e quello della morte avvenuta dopo il 1548), infine l'attribuzione nel passato di sue opere ad altri maestri. Insomma la profonda originalità di Savoldo, se non si può dire che deve essere ancora da scoprire, non ha ancora ottenuto il riconoscimento che merita.
Proporre una serie di rimandi possibili, affermare che Savoldo è erede del realismo e luminismo lombardo, del senso poetico della natura e del colore veneto, delle strutture formali della tradizione toscana, mi sembra che potrebbe tessere un interessante elogio di Savoldo e potrei continuare in questi collegamenti molteplici, spingermi in avanti e asserire che in lui si annuncia il mondo notturno e le grandi visioni che saranno di Caravaggio, di Rembrandt e di Velasquez; nel contempo, tutto questo mi pare ancora troppo poco perché Savoldo è prima di tutto Savoldo e dovrebbe essere compreso in sé.
Non posso non sottolineare un altro elemento di particolare intimità che ho scoperto con questo pittore, la sua singolare predilezione per il tema della Fuga in Egitto (alla tela realizzata sul medesimo tema da Carpaccio avevo già dedicato il mio saggio precedente):
addirittura Savoldo ne ha realizzato, almeno secondo le informazioni che attualmente abbiamo, cinque versioni differenti. Sarei tentato di dire che proprio su questo tema il pittore ha lavorato dagli esordi della sua pittura fino alla fine: la tela della collezione von Loetzbech di Nannhofen ad Augusta è probabilmente databile intorno al 1520, poi la versione della Pinacoteca Tosio Martinengo che rivela tutta le vibrazione del colorismo veneto, fino a quella conservata nella collezione Castelbarco Albani in cui si trova una spettacolare veduta della Riva degli Schiavoni, raffigurata con notevole precisione topografica ma anche soffusa di una stupenda sensibilità chiaroscurale e pervasa da intonazione intima e meditativa.
Ricordo ancora due tele: Tobiolo e l'angelo, 1527 circa, olio su tela, 96x126 cm, conservato a Roma, alla Galleria Borghese: il primo quadro di Savoldo che ebbi la fortuna di contemplare e che mi convinse della sua capacità di visione e della originalità assoluta di essa; poi San Matteo e l'angelo, 1534 circa, olio su tela, 93x125 cm, conservato a New York, al Metropolitan Museum of Art. Queste due tele di grandi (ma non grandissime) dimensioni convincono di come Savoldo abbia maturato una vera e propria specializzazione nel campo del notturno e degli studi di luce locale, anche se sappiamo ancora poco della sua reale formazione e dei suoi itinerari artistici, dal momento che non si conosce nessuna sua opera giovanile, pur essendo documentata la sua presenza a Parma nel 1506 e a Firenze nel 1508.
Al termine della mia breve rassegna ritorno alla tela di Vienna: la figura del Cristo è così monumentale e perfetta che letteralmente emerge dal quadro, nessun dipinto potrebbe contenerla, ma appare spezzata in due. Il corpo perfetto nella sua resa anatomica è vibrante di chiaro, quasi accecante, mentre le mani sono già strette nella rigidità, fino al volto, di un colore indefinibile terreo, addirittura sprofondato nella morte. Solo quattro figure emergono dall’oscurità che occupa metà della scena: Giuseppe d’Arimatea a sinistra che sorregge il cadavere di Gesù, Maria in lacrime e distrutta dal dolore, un’altra figura di donna sprofondata nel buio e infine la testa della Maddalena china alle sue ginocchia, affranta nelle lacrime ma in piena luce.
Mentre prendo congedo dal lettore e da Savoldo lo invito a fare una piccola gita a Lallio: vorrei che ricevesse questa profonda impressione che scaturisce dal contrasto tra l’ambiente solare del primo rinascimento e quella visione collocata in fondo all’ambiente, quella singolare Deposizione da cui emana tutto il mistero della storia dell’arte, in questo particolare istante di passaggio da Leonardo a Caravaggio e ancora oltre; a questo punto è davvero così importante stabilire se questa tela è autografa di Savoldo o solo riferibile alla sua scuola?
(Sergio Gandini)