Letture
Incontro come risonanza In dialogo con Hartmut Rosa Immagina il volto interiore come una corda vibrante; pizzicato dalla mano di Dio emette una vibrazione sua, speciale, unica. Nell’incontro di un volto con un altro queste “corde” possono anche risuonare tra loro e comporre un accordo, armonico, un incontro. |
Per continuare a pensare l’incontrare in questa chiave vorrei adesso prestare attenzione al contributo intellettuale di Hartmut Rosa che intorno al concetto di risonanza ha sviluppato una riflessione sociologica che in Italia possiamo conoscere in parte grazie alla pubblicazione di un dialogo con Wolfgang Endres che indaga la possibile applicazione in ambito pedagogico del paradigma della risonanza. Rosa fornendoci questa metafora musicale ci permette di pensare il tema dell’incontro con un linguaggio capace di evocare le dinamiche invisibili che hanno luogo nell’incontro; qui proverò a riportare in campo esistenziale la metafora della risonanza.
Partiamo dagli occhi: trovandoci in un campo semantico che riguarda la musica e quindi l’ascolto, l’occhio non è il luogo da cui si diffonde il raggio oculare dello sguardo capace di raggiungere il volto dell’altro, ma viene visto in questo quadro come finestra di risonanza. Adesso è la voce che tocca il mio volto, che si riconfigura come corda vibrante interiore. Quando ci si sente toccati dalla voce dell’altro il volto vibra come un diapason e gli occhi brillano e divengono finestre di risonanza, testimoniano nel loro brillare l’avvenire della gioia dell’incontro, dell’accordo dei volti.
Perché la mia voce possa raggiungere la corda interiore dell’altro è necessario che si costituisca una corda di risonanza ovvero un canale su cui possa viaggiare la tensione creativa dell’incontro, quando la corda si tende gli occhi brillano e si ha reciprocità e interazione.
Se Dio pizzica la mia corda interiore il mio volto parla, la voce e la parola possono viaggiare sulla corda di risonanza e raggiungere la corda interiore dell’altro; ma può capitare di essere catturati dallo spirito di gravità, ora il volto si mostra come muto, la corda di risonanza si spezza e ci troviamo uno di fronte all’altro come estranei, come alieni che non significano niente l’uno per l’altro. Altre volte ancora dobbiamo lottare perché la parola raggiunga l’altro, il canale di comunicazione sembra congestionato e il mondo tra noi si mostra come un insieme di ostacoli all’incontro.
Byung-Chul Han riprendere la metafora della risonanza nel suo discorso sulla scomparsa del modo di vita rituale. Il filosofo coreano vede la comunità come uno spazio di risonanza, un campo di risonanza. Nello spazio della comunità possiamo incontrare l’altro; si accende una tensione creativa tra noi attraverso la condivisione di un sentimento collettivo che supera il piccolo ego personale, è il sentimento a metterci in connessione sentimentale con il mondo. Il mondo che sta tramontando è un mondo di comunità senza comunicazione, si è insieme tramite la condivisione di sentimenti collettivi e un vivere in comune rituale. Al suo posto l’autore vede sorgere un mondo di comunicazione senza comunità, quello degli individui atomizzati e ridotti a sciame della società neoliberale e digitale. Byung-Chul Han assume una posizione apocalittica e indica come risposta solo la capacità di giocare, in senso forte; il gioco apre alla creazione di una forma di vita nuova e irriducibile a qualsiasi definizione.
La riflessione critica sul nostro presente è interessante e risuona, nella mia memoria, con una contrapposizione proposta da Raimon Panikkar nell’introduzione al suo testo Culto. Qui Panikkar propone la forza del rito come antidoto capace di bilanciare l’eccesiva preponderanza del principio scientifico nel processo di costituzione delle nostre società industriali.
La capacità di risonanza alla luce di queste riflessioni appare come la forza capace di risvegliare dall’alienazione della società industriale fondata sui soli principi del sapere scientifico, della tecnica e della produttività. La risonanza è un’attitudine che ha molta affinità con l’atteggiamento rituale che, nella visione di Panikkar, crea dialogo e rende personale la relazione. L’essenza del rito è rendere la realtà non più un Essere impersonale in cui domina la logica (anti)relazionale Io-Esso tipica del conoscere scientifico moderno, bensì uno spazio di relazione intimo e personale in cui a prevalere è la relazione Io-Tu.
Ecco che alla luce di quanto detto sopra il risuonare si rivela come relazione fondamentale con la realtà, una relazione personale e dialogica, capace di risposta e aperta alla trasformazione nell’incontro. Il volto, come corda vibrante, risuona con i volti che incontra e l’esperienza della vita si fa più intensa e viva. Il mondo, alla presenza di Dio che dà voce al nostro volto, si rivela come spazio di risonanza.
L’incontrare è un possibile nuovo modo di vita e pratica rituale di resistenza al sottile totalitarismo dell’impersonale società industriale. L’incontro è la forza capace di aprire una breccia nel velo di impersonalità che il principio della produttività stende sulla realtà, rendendola incapace di parola. La realtà muta e alienante tipica dell’isolamento neoliberale viene trasformata in forza della comunione personale, del dialogo, della capacità di risuonare, dell’amore che ridanno parola all’altro e al mondo.
Suggerimenti di lettura:
Hartmut Rosa, Pedagogia della risonanza, Brescia, Scholé, 2020.
Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti, Milano, Nottetempo, 2021.
Raimon Panikkar, Mito, Simbolo, Culto, Milano, Jaca Book, 2008.
(Lapo Chittaro)
Partiamo dagli occhi: trovandoci in un campo semantico che riguarda la musica e quindi l’ascolto, l’occhio non è il luogo da cui si diffonde il raggio oculare dello sguardo capace di raggiungere il volto dell’altro, ma viene visto in questo quadro come finestra di risonanza. Adesso è la voce che tocca il mio volto, che si riconfigura come corda vibrante interiore. Quando ci si sente toccati dalla voce dell’altro il volto vibra come un diapason e gli occhi brillano e divengono finestre di risonanza, testimoniano nel loro brillare l’avvenire della gioia dell’incontro, dell’accordo dei volti.
Perché la mia voce possa raggiungere la corda interiore dell’altro è necessario che si costituisca una corda di risonanza ovvero un canale su cui possa viaggiare la tensione creativa dell’incontro, quando la corda si tende gli occhi brillano e si ha reciprocità e interazione.
Se Dio pizzica la mia corda interiore il mio volto parla, la voce e la parola possono viaggiare sulla corda di risonanza e raggiungere la corda interiore dell’altro; ma può capitare di essere catturati dallo spirito di gravità, ora il volto si mostra come muto, la corda di risonanza si spezza e ci troviamo uno di fronte all’altro come estranei, come alieni che non significano niente l’uno per l’altro. Altre volte ancora dobbiamo lottare perché la parola raggiunga l’altro, il canale di comunicazione sembra congestionato e il mondo tra noi si mostra come un insieme di ostacoli all’incontro.
Byung-Chul Han riprendere la metafora della risonanza nel suo discorso sulla scomparsa del modo di vita rituale. Il filosofo coreano vede la comunità come uno spazio di risonanza, un campo di risonanza. Nello spazio della comunità possiamo incontrare l’altro; si accende una tensione creativa tra noi attraverso la condivisione di un sentimento collettivo che supera il piccolo ego personale, è il sentimento a metterci in connessione sentimentale con il mondo. Il mondo che sta tramontando è un mondo di comunità senza comunicazione, si è insieme tramite la condivisione di sentimenti collettivi e un vivere in comune rituale. Al suo posto l’autore vede sorgere un mondo di comunicazione senza comunità, quello degli individui atomizzati e ridotti a sciame della società neoliberale e digitale. Byung-Chul Han assume una posizione apocalittica e indica come risposta solo la capacità di giocare, in senso forte; il gioco apre alla creazione di una forma di vita nuova e irriducibile a qualsiasi definizione.
La riflessione critica sul nostro presente è interessante e risuona, nella mia memoria, con una contrapposizione proposta da Raimon Panikkar nell’introduzione al suo testo Culto. Qui Panikkar propone la forza del rito come antidoto capace di bilanciare l’eccesiva preponderanza del principio scientifico nel processo di costituzione delle nostre società industriali.
La capacità di risonanza alla luce di queste riflessioni appare come la forza capace di risvegliare dall’alienazione della società industriale fondata sui soli principi del sapere scientifico, della tecnica e della produttività. La risonanza è un’attitudine che ha molta affinità con l’atteggiamento rituale che, nella visione di Panikkar, crea dialogo e rende personale la relazione. L’essenza del rito è rendere la realtà non più un Essere impersonale in cui domina la logica (anti)relazionale Io-Esso tipica del conoscere scientifico moderno, bensì uno spazio di relazione intimo e personale in cui a prevalere è la relazione Io-Tu.
Ecco che alla luce di quanto detto sopra il risuonare si rivela come relazione fondamentale con la realtà, una relazione personale e dialogica, capace di risposta e aperta alla trasformazione nell’incontro. Il volto, come corda vibrante, risuona con i volti che incontra e l’esperienza della vita si fa più intensa e viva. Il mondo, alla presenza di Dio che dà voce al nostro volto, si rivela come spazio di risonanza.
L’incontrare è un possibile nuovo modo di vita e pratica rituale di resistenza al sottile totalitarismo dell’impersonale società industriale. L’incontro è la forza capace di aprire una breccia nel velo di impersonalità che il principio della produttività stende sulla realtà, rendendola incapace di parola. La realtà muta e alienante tipica dell’isolamento neoliberale viene trasformata in forza della comunione personale, del dialogo, della capacità di risuonare, dell’amore che ridanno parola all’altro e al mondo.
Suggerimenti di lettura:
Hartmut Rosa, Pedagogia della risonanza, Brescia, Scholé, 2020.
Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti, Milano, Nottetempo, 2021.
Raimon Panikkar, Mito, Simbolo, Culto, Milano, Jaca Book, 2008.
(Lapo Chittaro)