Letture
l sosia di Fëdor Dostoevskij
Ebbi la fortuna di leggere il Sosia di Dostoevskij per la prima volta all’età di quindici anni, nella bella versione illustrata da Kubin: per me le illustrazioni visionarie e inquietanti di questo straordinario artista sono lo sfondo naturale in cui immagino da sempre la storia di Jàkov Petròvič Goljàdkin. Quel periodo coincise per me anche con il mio amore per il Kafka dei “Racconti”: verificai così come lettore appassionato, prima del sorgere di ogni coscienza critica, l’affinità profonda fra gli universi di questi due scrittori che, su questo particolare terreno, arrivano quasi a sfiorarsi. Quando lessi per la prima volta il sosia mi immersi completamente nella storia, non dubitando nemmeno per un istante che gli eventi fossero narrati in modo oggettivo: mi impersonificai assolutamente in Jàkov, soffrendo pene indicibili per le vessazioni e i soprusi di cui era vittima designata. Non ero abbastanza esperto di letteratura per leggere questa opera su differenti piani, come è corretto fare. Tuttavia l’impressione di allora è ancora viva nella mia memoria autobiografica e, in base a essa, vorrei tentare ora, con la collaborazione del lettore, un esperimento del tutto particolare.
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Prima però rivolgo al lettore una semplice domanda: è possibile leggere un romanzo in una prospettiva meditativa? Esistono testi scritti appositamente per la meditazione, che si riferiscono a una precisa tradizione religiosa e che possono essere utilizzati correttamente in tal senso. In senso più lato però si potrebbe affermare che ogni testo di spessore può essere letto in una prospettiva spirituale e diventare indirettamente un ausilio e un invito al lavoro del meditante.
L’esperimento che vorrei tentare ora con il Sosia parte dalla ammissione implicita di queste premesse e tuttavia vorrei spingermi ancora oltre: vorrei sostenere che passando da una prospettiva ingenuamente realistica a quella che assume questo preciso testo in chiave meditativa è possibile intuirne i significati più profondi. Questo conferma, a mio avviso, non solo che ogni testo scritto con sincerità si può prestare al lavoro meditativo, ma che fare di un testo, anche di un romanzo, un autentico oggetto di meditazione può condurre molto lontano.
Mi esprimerei così: a trasformare i nostri vissuti emotivi elementari fino a condurci alle soglie di una nuova consapevolezza. È possibile che il lettore che si identifica ingenuamente con Jàkov Petròvič Goljàdkin possa scoprire dentro di sé i semi di una potenziale rigenerazione? Com’è possibile vivere in un mondo così assurdamente ricco di cattiveria e tale da concentrarsi in modo impietoso sopra un unico individuo?
A ogni passo Goljàdkin sembra aver raggiunto il fondo della sofferenza umanamente possibile; eppure appena si chiude il libro e si rimanda alla giornata di domani il prosieguo della lettura, si insinua il sospetto che questo fondo non è affatto raggiunto e che, con una nuova giornata, il nostro eroe è destinato soltanto ad affogare sempre più in un mare di sventure. Forse allora si ridestano in noi i possibili semi di consapevolezza: è impossibile che l’universo intero congiuri in modo così solidale contro il povero Goljàdkin, come talora lo scrittore stesso non manca di sottolineare, in modo ironico, nel corso delle pagine stesse del romanzo con gli interventi della sua voce narrante – è impossibile, eppure è proprio quello che succede anche a noi, in certi momenti della nostra vita, quando siamo certi che una volontà malvagia ci stia facendo oggetto della sua sistematica crudeltà. Ma davvero può accadere così? Forse è necessario davvero capovolgere il punto di vista: noi ci sentiamo perseguitati ingiustamente, solo perché siamo sull’orlo di un vero complesso di persecuzione. Occorre reagire e trovare vie per maturare una differente visione della realtà, per non essere vittime di una nostra visione angusta della vita.
Ecco la chiave: Goljàdkin è vittima di se stesso, della enormità del suo egoismo che non riesce nemmeno a intravedere perché per lui è assolutamente normale essere così. Quanti Goljàdkin si nascondono in ciascuno di noi? Quanti sosia di noi stessi a cui volentieri deleghiamo il difficile mestiere di vivere?
“…ma a ogni suo passo, a ogni colpo del suo tacco sul granito del marciapiede, balzava fuori, come da sottoterra, una persona perfettamente simile al signor Goljàdkin e ripugnante per la depravazione del suo cuore. E tutti quegli esseri perfettamente simili, subito dopo la loro apparizione, si mettevano a correre l’uno dietro l’altro, e in una lunga catena, come un branco di oche, si trascinavano zoppicando dietro il signor Goljàdkin maggiore, tanto che non c’era modo di sfuggire a quegli esseri perfettamente simili, tanto che al signor Goljàdkin, meritevole di ogni compassione, il respiro veniva meno per il terrore, tanto che alla fine si era formata una spaventosa caterva di esseri perfettamente simili, tanto che tutta la capitale aveva finito epr essere piena zeppa, e un agente di polizia, vedendo una tale infrazione alle convenienze, fu costretto a prendere per il colletto tutti quegli esseri perfettamente simili e a cacciarli nella garitta che si trovava per caso a suo fianco…” (p. 161-162)
Proprio così succede al protagonista verso il termine del nostro romanzo quando, al colmo della esasperazione, gli pare che addirittura gli vengano incontro una intera moltitudine di Jàkov Petròvič Goljàdkin; anche noi non riusciremmo a sopportare la marea di maschere assunte dal nostro risibile io per farsi accettare nel corso della nostra esistenza!
Se, per un momento riusciamo a uscire dal sottile gioco che ci ha portato a immedesimarci con Goljàdkin, ci rendiamo facilmente conto che egli è un inetto, un egoista, un debole, capace solo di fabbricare un castello di carte per giustificare davanti ai suoi stessi occhi la propria sostanziale incapacità di vivere, di vivere appunto in mezzo agli altri – più difficile invece è applicare a se stessi questo medesimo meccanismo di sottili identificazioni e presentarci nudi di fronte alla nostra stessa coscienza. Eppure è proprio questo il lavoro del meditante – sfrondare quella moltitudine inesauribile di io per arrivare al cento della persona. Allora non saremo affatto sorpresi, a differenza dello stesso signor Goljàdkin, quando egli si troverà infine di fronte al suo sosia. Goljàdkin si aggrappa disperatamente a quella realtà (che invece nega ostinatamente in tutte le sue relazioni umane, incapace di vedere qualcuno che non sia se stesso) empirica quando si rifiuta di credere che possa esistere un individuo perfettamente simile a lui, un altro se stesso: noi invece sentiamo d’istinto che il romanzo, fino a quel punto interpretabile in termine naturalistici, si trova a una svolta; il Goljàdkin minore, solo così al nostro protagonista riesce possibile accettare l’esistenza dell’altro, in verità, non è altro che una proiezione di se stesso. Non può che essere così: Goljàdkin, prigioniero del proprio egoismo, può amare solo se stesso e quando riconosce e abbraccia lo sconosciuto come il proprio fratello per un momento solo ci illudiamo che possa davvero aprirsi a un altro essere diverso da se, ma subito avvertiamo che può farlo solo in quanto, ancora uan volta, sta abbracciando semplicemente se stesso.
E non solo questo: il Goljàdkin minore è il suo alter ego finalmente vincente, destinato a trionfare su tutti i suoi nemici, in un autentico delirio di onnipotenza in perfetti termini psicoanalitici – solo che questa rappresentazione è davvero eccessiva per il vero signor Goljàdkin, un perdente nato, e quindi il romanzo continua a giocare su questa impossibile situazione in cui il protagonista si trova vivere in un incubo, perché non è nemmeno in grado di capire che quel Goljàdkin minore, divenuto acerrimo nemico di se stesso, non è altro che la sua estrema identificazione.
Giustamente il romanzo ha per titolo il Sosia, e non “il Doppio, come magari saremmo portati ingenuamente a credere: Goljàdkin minore è appunto il Sosia del protagonista, che deve esistere realmente per muoversi in quel mondo reale da quale il protagonista è stato sempre allontanato, ma esclusivamente per colpa sua, perché ha rifiutato di entrare in una sana relazione con gli altri esseri umani. Ci sembra questo un giudizio impietoso su Goljàdkin maggiore? Per esserne certi basta rileggere le prime righe del romando: “…alla fine lo trasse fuori, il suo consolante mazzetto di biglietti di banca, e, certo per la centesima volta dal giorno innanzi, cominciò a ricontarli, strofinando accuratamente ogni foglietto tra il polline e l’indice. “settecentocinquanta rubli in biglietti di banca!” concluse alla fine, a mezza voce…A chiunque piacerebbe questa somma!... Una somma simile può condurre lontano un uomo…” (p. 9).
Jàkov Petròvič Goljàdkin con il suo invadente io non è altro che un avaro, un inguaribile egoista, incapace non solo di reagire ai propri difetti, ma anche solo di vederli, e soffre di un reale complesso di persecuzione, per cui impegna la sua esistenza solo ad autogiustificarsi, senza nessuna speranza di riscatto; all’inizio del romanzo Dostoevskij lo presenta subito così, intento a contare il suo mazzetto di soldi, l’unica reale consolazione della sua vita e assisteremo durante l’inesorabile svolgersi degli accadimenti a un continuo, irreversibile assottigliarsi di questa somma cospicua. E basta forse solo questo passaggio a verificare la nostra interpretazione: “E se lasciassi tutto com’è? Se desistessi semplicemente? Ebbene, e allora? Ma niente, io me ne sto in un canto, come se non fossi io”, pensava il signor Goljadkin, “lascio correre tutto: non sono io, e basta…” (p. 131).
Purtroppo non è possibile a nessuno chiamarsi fuori dall’esistenza: nessuno sceglie dove e come è nato, ma può decidere, almeno entro certi limiti, come agire e che cosa fare della sua vita. Goljadkin no, preferisce rinunciare a priori a una vita che, a suo giudizio, si mostra incapace di comprendere la sua meravigliosa anima. Ma questo punto però mi assale una nuova domanda, che non avevo previsto all’inizio del mio breve saggio: se Goljadkin minore è solo un misero sosia, qual è il vero Doppio che si muove in questo romanzo?
Come il miglior Dostoevskij anch’io ho in serbo un piccolo colpo di scena: per trovare infine quel Doppio ideale l’autore dovrà scrivere un altro romanzo, l’Idiota. Quel doppio è precisamente il principe Miskin. La nostra interpretazione trova un’autorevole conferma nelle parole di Olga Belkina (laureata all’Università di Leningrado, docente di Lingua e Letteratura russa, studiosa di Fёdor Dostoevskij) è Cristo «l’anello mancante» nel Sosia: Dostoevskij «denuncia la malattia della società contemporanea nel fenomeno dello sdoppiamento e nella mancanza di stabilità dovuta all’assenza di salde fondamenta nel suolo materno, ma non sa ancora come curarla». Scrivendo l’Idiota Dostoevskij cerca infine di offrire delle risposte alla profonda crisi che segno l’uomo del secondo ottocento, la crisi del nichilismo e in cui solo Cristo può offrire una salvezza.
Scrive Dostoevskij «Questo Credo è molto semplice, e suona così: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, più simpatico, più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo; anzi non soltanto non c’è, ma addirittura, con geloso amore, mi dico che non ci può essere. Non solo, ma arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità» (Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, p. 51).
Per inciso ricordo al lettore che questa lettera è troppo spesso citata da tutti e in qualsiasi senso, un po' come succede all’altra celebre affermazione: “La bellezza salverà il mondo”. Quando si citano dichiarazioni che possono avere portata generale sarebbe sempre meglio offrire anche le coordinate per consentirne una corretta contestualizzazione; in questo caso questa lettera risale al periodo immediatamente successivo alla prigionia, quella in cui lo scrittore fu confinato nel Semipalatinsk e volentieri vi leggo l’entusiasmo del suo autore per la scoperta di una nuova fede dalle radici più salde di quella politica che lo aveva attratto, come tanti, in quel periodo segnato da drammatiche ingiustizie sociali.
Per spiegare il posto che questo romanzo ha nella produzione complessiva del nostro autore, ancora cedo volentieri la parola a Fёdor che nei diari scrisse:
«A proposito dell’origine e dell’uso di parole nuove. Nella nostra letteratura c’è un verbo, stuševat’sja, da tutti adoperato, sebbene, pur non essendo nato ieri, sia nato da non molto tempo, da non più di due o tre decenni; ai tempi di Puškin era del tutto sconosciuto; non fu adoperato da nessuno. Adesso invece si può trovare non soltanto nei letterati e “belletristi”, in tutti i sensi, dal più scherzoso al più serio, ma anche nei trattati scientifici, nelle dissertazioni, nei libri filosofici: e non basta, lo si può trovare nelle pratiche degli uffici, nei rapporti, nei rendiconti, perfino negli ordini: è noto a tutti, tutti lo capiscono, tutti l’usano. E, tuttavia, in tutta la Russia c’è un solo uomo, il quale sappia la precisa origine di questa parola e il momento della sua invenzione e della sua comparsa nella letteratura. Quest’uomo sono io, perché io per la prima volta ho introdotto e usato nella letteratura questa parola. Questa parola apparve sulla stampa per la prima volta il 1° gennaio 1846 nelle “Otèčestvennye Zapiski” nel mio racconto: Il sosia, avventure del signor Goljàdkin. […] La parola stuševat’sja significa scomparire, annientarsi, ridursi, per così dire, a nulla. Ma annientarsi non all’improvviso, non scomparire nella terra, con tuoni e lampi, ma, per così dire, delicatamente, pianamente, impercettibilmente, sprofondandosi nel nulla. A quel modo in cui l’ombra nella parte sfumata di un disegno si distende dal nero gradualmente passando al più chiaro fino al completamente bianco, al nulla» (Fëdor Dostoevskij, Diario di uno scrittore, traduzione di Ettore Lo Gatto, Bompiani, Milano 2010, pp. 1143-1145).
Questo è davvero il senso ultimo del Sosia: Dostoevskij raccontandoci dei casi del Sig. Goljadkin e del suo sosia, in verità, mette in scena una storia di scissione dell'io goffo e scontroso che è Goljadkin maggiore e un io completamente opposto, che è la proiezione del desiderio di riscatto del protagonista, ma che finisce col diventare il suo irrimediabile antagonista. L'intera vicenda, conformemente a quella concentrazione di eventi che Dostoevskij attua poi nei romanzi maggiori, si svolge in soli quattro giornate, in un crescendo di angoscia e frenesia fino alla rivelazione di ciò che, in fondo, era evidente fin dall'inizio: dietro il vittimismo di Goljadkin, descritto in modo così interiore da evocare nel lettore corretti sentimenti di compassione, si nasconde quella radicale incapacità di prendere posizione e quindi la scarsa volontà di rendersi partecipi della vita, non da semplici spettatori, che caratterizza l’uomo contemporaneo, come avverte acutamente Vittorio Strada, "la patologia dell'uomo qualunque, il primo gradino di quello sdoppiamento che costituisce la … malattia sublimabile soltanto nel privilegio dell'attività spirituale".
Con un percorso circolare siamo arrivati al punto di partenza e spero di aver chiarito il valore di questo romanzo “giovanile” di Dostoevskij, ma anche della sua possibilità di utilizzarlo come ausilio nel percorso di crescita spirituale. Forse però ho preteso troppo dal mio lettore e gli devo alcuni chiarimenti sulla tematica del Doppio. Prendere in esame questa tematica è un compito che richiederebbe più di un libro: nei limiti di questo saggio posso solo fornire alcuni spunti e far nascere nel lettore eventualmente interessato il desiderio di approfondirla e fornire qualche indispensabile strumento iniziare a farlo.
Che cosa accadrebbe a uno di noi se, camminando al sole, scoprisse di aver perso la propria ombra? Diverse reazioni a questo evento impossibile si possono leggere nelle opere di Chamisso, Hoffmann, Jean Paul, Poe, Maupassant e, naturalmente, Dostoevskij.
Non dobbiamo però trascurare che ogni autore assume questo tema all’interno del proprio universo di significati e intesse su di esso una variazione singolare. Il tema del doppio, in verità, ha il suo archetipo nel mito antropologico ideato da Platone nel “Simposio” e raccontato da Aristofane: ricordiamo per inciso che Aristofane era il più grande commediografo greco e che, in fondo, tutto il racconto di Dostoevskij è geniale proprio nella sua capacità di mantenersi in bilico fra realtà e follia, ma anche fra commedia e tragedia.
Interpretando oggi il mio di Platone, ovviamente anche alla luce dei contributi offerti dalla psicoanalisi, possiamo affermare che ogni essere umano ha in sé le stimmate di una perdita, che cerca disperatamente di arginare in due direzioni: l’una conduce verso l’interno, nella direzione della ricerca dell’io, l’altra verso l’esterno, nella ricerca di una creatura affine, di un oggetto d’amore con quale ricostituire l’identità originaria. Il punto è aprirsi davvero all’altro e riconoscere in lui il reale oggetto d’amore, piuttosto che restare imprigionati in un sentimento puramente autoreferenziale. Finché non si opera questa trasformazione alchemica, più che dall’amore, la ricerca resta dettata dall’amor sui, frutto di una pulsione in cui amore e odio finiscono per contaminarsi e, invece di generare i colori di una vera relazione d’amore, rischiano solo di sovrapporsi e fondersi un unico nero impasto. Queste, in sintesi, lo sfondo e lo svolgersi di un tema spesso presente nella letteratura dell’Otto-Novecento: quello del doppio e dell’immagine allo specchio, che rischia di imprigionare il desiderio d’amore in un soddisfacimento di tipo narcisistico.
Questo esito tragico nella ricerca del Doppio è verificato prima dalle considerazioni svolte da Freud e poi riprese da Rank, pubblicato nel 1914 con il titolo di ”Der Doppelgänger”: il titolo di questo scritto fu poi fu tradotto con “sosia”, o “alter ego”, oppure ancora come “compagno immaginario”, ma il termine originale tedesco potrebbe essere meglio reso da “il doppio che cammina a fianco”; il Doppio ci ricorda che la relazione è iscritta indelebilmente nel cuore di ogni essere umano e non essere soppressa se non sopprimendo noi stessi, quasi a ricordarci che la solitudine assoluta compete solo a Dio ed è stata risparmiata agli uomini. Jung svolge il medesimo tema in una forma diversa, ma egualmente interessante: il concetto di Ombra indica quella parte non accettata e inaccettabile della personalità di ciascuno di noi. Tuttavia incontrare se stessi implica “…anzitutto un incontro con la propria ombra. L’ombra è, in verità, come una gola montana, una porta angusta la cui stretta non è risparmiata a chiunque discenda alla profonda sorgente” (C.G. Jung: Gli archetipi dell’inconscio collettivo, 1934-54, Ed. Boringhieri, Torino, 1974, p. 79.). Incontrare se stessi significa forse ammettere precisamente tutto ciò che non vorremmo essere, eppure siamo; significa riconoscere il Mr Hyde del dottor Jekill, il “compagno segreto” di cui parla Conrad, il “sosia” di Dostoevskij, la nostra medesima immagine allo specchio, precisamente perturbante come asseriva appunto Freud.
Al termine di queste brevi osservazioni psicoanalitiche è però bene precisare che, soprattutto nell’arte, il ruolo del Doppio non si esaurisce in questa dimensione inquietante e patologica. Senza il nostro Doppio non conosceremmo i desideri segreti e sempre repressi dell’anima, non potremmo ascoltare i nostri morti e iniziare a dialogare con loro e con tutte le persone che ci hanno preceduto e che appartengono alla nostra tradizione spirituale; non potremmo nemmeno pensare a un processo di cresciuta e resteremmo appiattiti esclusivamente sull’oggi, continueremmo a vagare quello spazio privo di verticalità, che è proprio delle ossessioni mentali. In questo cerchio paranoico le ombre si allungano ogni sera al tramonto e l’io terrorizzato finisce per scorgere in ogni cosa solo un profilo perturbante che ci annega nel mondo di sospetti e di miserie di singoli egoismi.
Senza iniziare a dialogare con il nostro Doppio come accedere al nostro stesso immaginario? Come imparare a parlare con gli altri se prima non ci siamo allenati all’ininterrotto dialogo tra io e me? Come potremmo innamorarci, se è vero che all’inizio nell’altro non possiamo che amare il doppio che è in noi? Come potremmo riuscire a sublimare i nostri vissuti in modo da poter accedere alla creatività che rende possibile l’arte e in modo da cominciare l’avventura della meditazione?
(Sergio Gandini)
L’esperimento che vorrei tentare ora con il Sosia parte dalla ammissione implicita di queste premesse e tuttavia vorrei spingermi ancora oltre: vorrei sostenere che passando da una prospettiva ingenuamente realistica a quella che assume questo preciso testo in chiave meditativa è possibile intuirne i significati più profondi. Questo conferma, a mio avviso, non solo che ogni testo scritto con sincerità si può prestare al lavoro meditativo, ma che fare di un testo, anche di un romanzo, un autentico oggetto di meditazione può condurre molto lontano.
Mi esprimerei così: a trasformare i nostri vissuti emotivi elementari fino a condurci alle soglie di una nuova consapevolezza. È possibile che il lettore che si identifica ingenuamente con Jàkov Petròvič Goljàdkin possa scoprire dentro di sé i semi di una potenziale rigenerazione? Com’è possibile vivere in un mondo così assurdamente ricco di cattiveria e tale da concentrarsi in modo impietoso sopra un unico individuo?
A ogni passo Goljàdkin sembra aver raggiunto il fondo della sofferenza umanamente possibile; eppure appena si chiude il libro e si rimanda alla giornata di domani il prosieguo della lettura, si insinua il sospetto che questo fondo non è affatto raggiunto e che, con una nuova giornata, il nostro eroe è destinato soltanto ad affogare sempre più in un mare di sventure. Forse allora si ridestano in noi i possibili semi di consapevolezza: è impossibile che l’universo intero congiuri in modo così solidale contro il povero Goljàdkin, come talora lo scrittore stesso non manca di sottolineare, in modo ironico, nel corso delle pagine stesse del romanzo con gli interventi della sua voce narrante – è impossibile, eppure è proprio quello che succede anche a noi, in certi momenti della nostra vita, quando siamo certi che una volontà malvagia ci stia facendo oggetto della sua sistematica crudeltà. Ma davvero può accadere così? Forse è necessario davvero capovolgere il punto di vista: noi ci sentiamo perseguitati ingiustamente, solo perché siamo sull’orlo di un vero complesso di persecuzione. Occorre reagire e trovare vie per maturare una differente visione della realtà, per non essere vittime di una nostra visione angusta della vita.
Ecco la chiave: Goljàdkin è vittima di se stesso, della enormità del suo egoismo che non riesce nemmeno a intravedere perché per lui è assolutamente normale essere così. Quanti Goljàdkin si nascondono in ciascuno di noi? Quanti sosia di noi stessi a cui volentieri deleghiamo il difficile mestiere di vivere?
“…ma a ogni suo passo, a ogni colpo del suo tacco sul granito del marciapiede, balzava fuori, come da sottoterra, una persona perfettamente simile al signor Goljàdkin e ripugnante per la depravazione del suo cuore. E tutti quegli esseri perfettamente simili, subito dopo la loro apparizione, si mettevano a correre l’uno dietro l’altro, e in una lunga catena, come un branco di oche, si trascinavano zoppicando dietro il signor Goljàdkin maggiore, tanto che non c’era modo di sfuggire a quegli esseri perfettamente simili, tanto che al signor Goljàdkin, meritevole di ogni compassione, il respiro veniva meno per il terrore, tanto che alla fine si era formata una spaventosa caterva di esseri perfettamente simili, tanto che tutta la capitale aveva finito epr essere piena zeppa, e un agente di polizia, vedendo una tale infrazione alle convenienze, fu costretto a prendere per il colletto tutti quegli esseri perfettamente simili e a cacciarli nella garitta che si trovava per caso a suo fianco…” (p. 161-162)
Proprio così succede al protagonista verso il termine del nostro romanzo quando, al colmo della esasperazione, gli pare che addirittura gli vengano incontro una intera moltitudine di Jàkov Petròvič Goljàdkin; anche noi non riusciremmo a sopportare la marea di maschere assunte dal nostro risibile io per farsi accettare nel corso della nostra esistenza!
Se, per un momento riusciamo a uscire dal sottile gioco che ci ha portato a immedesimarci con Goljàdkin, ci rendiamo facilmente conto che egli è un inetto, un egoista, un debole, capace solo di fabbricare un castello di carte per giustificare davanti ai suoi stessi occhi la propria sostanziale incapacità di vivere, di vivere appunto in mezzo agli altri – più difficile invece è applicare a se stessi questo medesimo meccanismo di sottili identificazioni e presentarci nudi di fronte alla nostra stessa coscienza. Eppure è proprio questo il lavoro del meditante – sfrondare quella moltitudine inesauribile di io per arrivare al cento della persona. Allora non saremo affatto sorpresi, a differenza dello stesso signor Goljàdkin, quando egli si troverà infine di fronte al suo sosia. Goljàdkin si aggrappa disperatamente a quella realtà (che invece nega ostinatamente in tutte le sue relazioni umane, incapace di vedere qualcuno che non sia se stesso) empirica quando si rifiuta di credere che possa esistere un individuo perfettamente simile a lui, un altro se stesso: noi invece sentiamo d’istinto che il romanzo, fino a quel punto interpretabile in termine naturalistici, si trova a una svolta; il Goljàdkin minore, solo così al nostro protagonista riesce possibile accettare l’esistenza dell’altro, in verità, non è altro che una proiezione di se stesso. Non può che essere così: Goljàdkin, prigioniero del proprio egoismo, può amare solo se stesso e quando riconosce e abbraccia lo sconosciuto come il proprio fratello per un momento solo ci illudiamo che possa davvero aprirsi a un altro essere diverso da se, ma subito avvertiamo che può farlo solo in quanto, ancora uan volta, sta abbracciando semplicemente se stesso.
E non solo questo: il Goljàdkin minore è il suo alter ego finalmente vincente, destinato a trionfare su tutti i suoi nemici, in un autentico delirio di onnipotenza in perfetti termini psicoanalitici – solo che questa rappresentazione è davvero eccessiva per il vero signor Goljàdkin, un perdente nato, e quindi il romanzo continua a giocare su questa impossibile situazione in cui il protagonista si trova vivere in un incubo, perché non è nemmeno in grado di capire che quel Goljàdkin minore, divenuto acerrimo nemico di se stesso, non è altro che la sua estrema identificazione.
Giustamente il romanzo ha per titolo il Sosia, e non “il Doppio, come magari saremmo portati ingenuamente a credere: Goljàdkin minore è appunto il Sosia del protagonista, che deve esistere realmente per muoversi in quel mondo reale da quale il protagonista è stato sempre allontanato, ma esclusivamente per colpa sua, perché ha rifiutato di entrare in una sana relazione con gli altri esseri umani. Ci sembra questo un giudizio impietoso su Goljàdkin maggiore? Per esserne certi basta rileggere le prime righe del romando: “…alla fine lo trasse fuori, il suo consolante mazzetto di biglietti di banca, e, certo per la centesima volta dal giorno innanzi, cominciò a ricontarli, strofinando accuratamente ogni foglietto tra il polline e l’indice. “settecentocinquanta rubli in biglietti di banca!” concluse alla fine, a mezza voce…A chiunque piacerebbe questa somma!... Una somma simile può condurre lontano un uomo…” (p. 9).
Jàkov Petròvič Goljàdkin con il suo invadente io non è altro che un avaro, un inguaribile egoista, incapace non solo di reagire ai propri difetti, ma anche solo di vederli, e soffre di un reale complesso di persecuzione, per cui impegna la sua esistenza solo ad autogiustificarsi, senza nessuna speranza di riscatto; all’inizio del romanzo Dostoevskij lo presenta subito così, intento a contare il suo mazzetto di soldi, l’unica reale consolazione della sua vita e assisteremo durante l’inesorabile svolgersi degli accadimenti a un continuo, irreversibile assottigliarsi di questa somma cospicua. E basta forse solo questo passaggio a verificare la nostra interpretazione: “E se lasciassi tutto com’è? Se desistessi semplicemente? Ebbene, e allora? Ma niente, io me ne sto in un canto, come se non fossi io”, pensava il signor Goljadkin, “lascio correre tutto: non sono io, e basta…” (p. 131).
Purtroppo non è possibile a nessuno chiamarsi fuori dall’esistenza: nessuno sceglie dove e come è nato, ma può decidere, almeno entro certi limiti, come agire e che cosa fare della sua vita. Goljadkin no, preferisce rinunciare a priori a una vita che, a suo giudizio, si mostra incapace di comprendere la sua meravigliosa anima. Ma questo punto però mi assale una nuova domanda, che non avevo previsto all’inizio del mio breve saggio: se Goljadkin minore è solo un misero sosia, qual è il vero Doppio che si muove in questo romanzo?
Come il miglior Dostoevskij anch’io ho in serbo un piccolo colpo di scena: per trovare infine quel Doppio ideale l’autore dovrà scrivere un altro romanzo, l’Idiota. Quel doppio è precisamente il principe Miskin. La nostra interpretazione trova un’autorevole conferma nelle parole di Olga Belkina (laureata all’Università di Leningrado, docente di Lingua e Letteratura russa, studiosa di Fёdor Dostoevskij) è Cristo «l’anello mancante» nel Sosia: Dostoevskij «denuncia la malattia della società contemporanea nel fenomeno dello sdoppiamento e nella mancanza di stabilità dovuta all’assenza di salde fondamenta nel suolo materno, ma non sa ancora come curarla». Scrivendo l’Idiota Dostoevskij cerca infine di offrire delle risposte alla profonda crisi che segno l’uomo del secondo ottocento, la crisi del nichilismo e in cui solo Cristo può offrire una salvezza.
Scrive Dostoevskij «Questo Credo è molto semplice, e suona così: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, più simpatico, più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo; anzi non soltanto non c’è, ma addirittura, con geloso amore, mi dico che non ci può essere. Non solo, ma arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità» (Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, p. 51).
Per inciso ricordo al lettore che questa lettera è troppo spesso citata da tutti e in qualsiasi senso, un po' come succede all’altra celebre affermazione: “La bellezza salverà il mondo”. Quando si citano dichiarazioni che possono avere portata generale sarebbe sempre meglio offrire anche le coordinate per consentirne una corretta contestualizzazione; in questo caso questa lettera risale al periodo immediatamente successivo alla prigionia, quella in cui lo scrittore fu confinato nel Semipalatinsk e volentieri vi leggo l’entusiasmo del suo autore per la scoperta di una nuova fede dalle radici più salde di quella politica che lo aveva attratto, come tanti, in quel periodo segnato da drammatiche ingiustizie sociali.
Per spiegare il posto che questo romanzo ha nella produzione complessiva del nostro autore, ancora cedo volentieri la parola a Fёdor che nei diari scrisse:
«A proposito dell’origine e dell’uso di parole nuove. Nella nostra letteratura c’è un verbo, stuševat’sja, da tutti adoperato, sebbene, pur non essendo nato ieri, sia nato da non molto tempo, da non più di due o tre decenni; ai tempi di Puškin era del tutto sconosciuto; non fu adoperato da nessuno. Adesso invece si può trovare non soltanto nei letterati e “belletristi”, in tutti i sensi, dal più scherzoso al più serio, ma anche nei trattati scientifici, nelle dissertazioni, nei libri filosofici: e non basta, lo si può trovare nelle pratiche degli uffici, nei rapporti, nei rendiconti, perfino negli ordini: è noto a tutti, tutti lo capiscono, tutti l’usano. E, tuttavia, in tutta la Russia c’è un solo uomo, il quale sappia la precisa origine di questa parola e il momento della sua invenzione e della sua comparsa nella letteratura. Quest’uomo sono io, perché io per la prima volta ho introdotto e usato nella letteratura questa parola. Questa parola apparve sulla stampa per la prima volta il 1° gennaio 1846 nelle “Otèčestvennye Zapiski” nel mio racconto: Il sosia, avventure del signor Goljàdkin. […] La parola stuševat’sja significa scomparire, annientarsi, ridursi, per così dire, a nulla. Ma annientarsi non all’improvviso, non scomparire nella terra, con tuoni e lampi, ma, per così dire, delicatamente, pianamente, impercettibilmente, sprofondandosi nel nulla. A quel modo in cui l’ombra nella parte sfumata di un disegno si distende dal nero gradualmente passando al più chiaro fino al completamente bianco, al nulla» (Fëdor Dostoevskij, Diario di uno scrittore, traduzione di Ettore Lo Gatto, Bompiani, Milano 2010, pp. 1143-1145).
Questo è davvero il senso ultimo del Sosia: Dostoevskij raccontandoci dei casi del Sig. Goljadkin e del suo sosia, in verità, mette in scena una storia di scissione dell'io goffo e scontroso che è Goljadkin maggiore e un io completamente opposto, che è la proiezione del desiderio di riscatto del protagonista, ma che finisce col diventare il suo irrimediabile antagonista. L'intera vicenda, conformemente a quella concentrazione di eventi che Dostoevskij attua poi nei romanzi maggiori, si svolge in soli quattro giornate, in un crescendo di angoscia e frenesia fino alla rivelazione di ciò che, in fondo, era evidente fin dall'inizio: dietro il vittimismo di Goljadkin, descritto in modo così interiore da evocare nel lettore corretti sentimenti di compassione, si nasconde quella radicale incapacità di prendere posizione e quindi la scarsa volontà di rendersi partecipi della vita, non da semplici spettatori, che caratterizza l’uomo contemporaneo, come avverte acutamente Vittorio Strada, "la patologia dell'uomo qualunque, il primo gradino di quello sdoppiamento che costituisce la … malattia sublimabile soltanto nel privilegio dell'attività spirituale".
Con un percorso circolare siamo arrivati al punto di partenza e spero di aver chiarito il valore di questo romanzo “giovanile” di Dostoevskij, ma anche della sua possibilità di utilizzarlo come ausilio nel percorso di crescita spirituale. Forse però ho preteso troppo dal mio lettore e gli devo alcuni chiarimenti sulla tematica del Doppio. Prendere in esame questa tematica è un compito che richiederebbe più di un libro: nei limiti di questo saggio posso solo fornire alcuni spunti e far nascere nel lettore eventualmente interessato il desiderio di approfondirla e fornire qualche indispensabile strumento iniziare a farlo.
Che cosa accadrebbe a uno di noi se, camminando al sole, scoprisse di aver perso la propria ombra? Diverse reazioni a questo evento impossibile si possono leggere nelle opere di Chamisso, Hoffmann, Jean Paul, Poe, Maupassant e, naturalmente, Dostoevskij.
Non dobbiamo però trascurare che ogni autore assume questo tema all’interno del proprio universo di significati e intesse su di esso una variazione singolare. Il tema del doppio, in verità, ha il suo archetipo nel mito antropologico ideato da Platone nel “Simposio” e raccontato da Aristofane: ricordiamo per inciso che Aristofane era il più grande commediografo greco e che, in fondo, tutto il racconto di Dostoevskij è geniale proprio nella sua capacità di mantenersi in bilico fra realtà e follia, ma anche fra commedia e tragedia.
Interpretando oggi il mio di Platone, ovviamente anche alla luce dei contributi offerti dalla psicoanalisi, possiamo affermare che ogni essere umano ha in sé le stimmate di una perdita, che cerca disperatamente di arginare in due direzioni: l’una conduce verso l’interno, nella direzione della ricerca dell’io, l’altra verso l’esterno, nella ricerca di una creatura affine, di un oggetto d’amore con quale ricostituire l’identità originaria. Il punto è aprirsi davvero all’altro e riconoscere in lui il reale oggetto d’amore, piuttosto che restare imprigionati in un sentimento puramente autoreferenziale. Finché non si opera questa trasformazione alchemica, più che dall’amore, la ricerca resta dettata dall’amor sui, frutto di una pulsione in cui amore e odio finiscono per contaminarsi e, invece di generare i colori di una vera relazione d’amore, rischiano solo di sovrapporsi e fondersi un unico nero impasto. Queste, in sintesi, lo sfondo e lo svolgersi di un tema spesso presente nella letteratura dell’Otto-Novecento: quello del doppio e dell’immagine allo specchio, che rischia di imprigionare il desiderio d’amore in un soddisfacimento di tipo narcisistico.
Questo esito tragico nella ricerca del Doppio è verificato prima dalle considerazioni svolte da Freud e poi riprese da Rank, pubblicato nel 1914 con il titolo di ”Der Doppelgänger”: il titolo di questo scritto fu poi fu tradotto con “sosia”, o “alter ego”, oppure ancora come “compagno immaginario”, ma il termine originale tedesco potrebbe essere meglio reso da “il doppio che cammina a fianco”; il Doppio ci ricorda che la relazione è iscritta indelebilmente nel cuore di ogni essere umano e non essere soppressa se non sopprimendo noi stessi, quasi a ricordarci che la solitudine assoluta compete solo a Dio ed è stata risparmiata agli uomini. Jung svolge il medesimo tema in una forma diversa, ma egualmente interessante: il concetto di Ombra indica quella parte non accettata e inaccettabile della personalità di ciascuno di noi. Tuttavia incontrare se stessi implica “…anzitutto un incontro con la propria ombra. L’ombra è, in verità, come una gola montana, una porta angusta la cui stretta non è risparmiata a chiunque discenda alla profonda sorgente” (C.G. Jung: Gli archetipi dell’inconscio collettivo, 1934-54, Ed. Boringhieri, Torino, 1974, p. 79.). Incontrare se stessi significa forse ammettere precisamente tutto ciò che non vorremmo essere, eppure siamo; significa riconoscere il Mr Hyde del dottor Jekill, il “compagno segreto” di cui parla Conrad, il “sosia” di Dostoevskij, la nostra medesima immagine allo specchio, precisamente perturbante come asseriva appunto Freud.
Al termine di queste brevi osservazioni psicoanalitiche è però bene precisare che, soprattutto nell’arte, il ruolo del Doppio non si esaurisce in questa dimensione inquietante e patologica. Senza il nostro Doppio non conosceremmo i desideri segreti e sempre repressi dell’anima, non potremmo ascoltare i nostri morti e iniziare a dialogare con loro e con tutte le persone che ci hanno preceduto e che appartengono alla nostra tradizione spirituale; non potremmo nemmeno pensare a un processo di cresciuta e resteremmo appiattiti esclusivamente sull’oggi, continueremmo a vagare quello spazio privo di verticalità, che è proprio delle ossessioni mentali. In questo cerchio paranoico le ombre si allungano ogni sera al tramonto e l’io terrorizzato finisce per scorgere in ogni cosa solo un profilo perturbante che ci annega nel mondo di sospetti e di miserie di singoli egoismi.
Senza iniziare a dialogare con il nostro Doppio come accedere al nostro stesso immaginario? Come imparare a parlare con gli altri se prima non ci siamo allenati all’ininterrotto dialogo tra io e me? Come potremmo innamorarci, se è vero che all’inizio nell’altro non possiamo che amare il doppio che è in noi? Come potremmo riuscire a sublimare i nostri vissuti in modo da poter accedere alla creatività che rende possibile l’arte e in modo da cominciare l’avventura della meditazione?
(Sergio Gandini)