Letture
Gli ultimi giorni di Immanuel Kant di Thomas de Quincey
Il capitolo XIX dei Saggi di Montaigne, che si intitola “Bisogna giudicare la nostra felicità solo dopo la morte”, inizia così:
Scilicet ultima semper Expectanda dies homini est, dicique beatus Ante obitum nemo, supremaque funera debet. (Bisogna sempre attendere l’ultimo giorno di un uomo, e nessuno può esser detto felice prima della morte e del rito funebre). I ragazzi conoscono a questo proposito il racconto del re Creso: il quale, fatto prigioniero da Ciro e condannato a morte, al momento dell’esecuzione esclamò: «O Solone, Solone!» La cosa fu riferita a Ciro, e avendo questi chiesto che cosa volesse dire, l’altro gli spiegò che verificava allora a sue spese l’ammonimento che un giorno gli aveva dato Solone: che gli uomini, per quanto la fortuna faccia loro buon viso, non si possono chiamare felici finché non si sia visto come hanno passato l’ultimo giorno della loro vita, a causa dell’incertezza e variabilità delle cose umane, che con un leggerissimo movimento cambiano da una situazione a un’altra tutta diversa (Michel de Montaigne, Saggi, traduzione italiana a cura di Fausto Garavini, Mondadori, 1970, pag. 98). |
Intendo procedere con una proposta di lettura apparentemente semplice e poco usuale, un libricino poco noto di Thomas de Quincey, pubblicato nel 1854: Gli ultimi giorni di Immanuel Kant; in realtà questo testo era già apparso nel 1827 sotto forma di articolo nel Blackwood's Magazine e fu solo rivisto nel 1854. Si tratta di un’opera certo minore di questo autore noto al pubblico per altri interessi; se il lettore però è disposto a seguirmi si accorgerà dei tanti paradossi che si nascondono non solo nella figura del grande filosofo, ma in quella di de Quincey, e forse in ciascuno di noi.
La fonte principale di de Quincey è il libro di Ehregott Andreas Wasianski, un discepolo del maestro (Immanuel Kant negli ultimi anni della sua vita, 1804). Ma de Quincey in una nota precisa di aver consultato da dieci a quattordici testimonianze relative alla vita del grande filosofo, tra cui quelle di Jachmann e Borowski, e questa rappresenta per me una preziosa indicazione di metodo: così dovrebbero sempre procedere lo studioso e l’ermeneuta, avere di fronte a sé una serie il più possibile ampia e differenziata di fonti a partire dalle quali tessere il proprio personale contributo teorico.
Solo in apparenza de Quincey si fa da parte e si nasconde quasi dietro la ricorrente formula Wasianski loquitur, come d’altronde chiarisce in un’altra delle sue indispensabili note: questo libricino è opera di de Quincey a tutti gli effetti, lo stile spiritoso e a tratti quasi irriverente, le considerazioni con le quali adorna il testo rivelano la cura che a esso dedicò nel comporlo nonché il posto importante che occupa nella sua opera; nel 1821 sul London Magazine era apparsa la prima puntata di Le Confessioni di un mangiatore d'oppio, che già nel titolo intende ricollegarsi a questo vasto filone autobiografico che va da Agostino fino a Rousseau; l’opera già l’anno successivo fu edita in volume (lo scritto su Kant quindi seguirà a distanza di pochi anni) assicurando al suo autore fama e danaro per il resto della sua travagliata vita.
Ma chi era de Quincey e perché si interessa a Kant? Meglio separare queste due domande e fornire prima di tutto qualche indicazione sommaria su questo autore al lettore che non lo conosce direttamente. La sua vicenda esistenziale si colloca nell’ambito del primo romanticismo inglese e in questa corrente letteraria può essere collocata anche la sua opera di scrittore: alle inquietudini esistenziali e alle idee caratteristiche di questo ambiente de Quincey aggiunge la propria sensibilità già gravata da una infanzia estremamente difficile, infatti era un bambino gracile, aveva perso il padre (quasi sempre assente da casa poiché commerciante all’estero) a otto anni, mentre l’anno prima era morta l’amata sorella maggiore Elisabeth.
Si abituò a fare uso dall’oppio già a vent’anni, durante il soggiorno presso il Worcester College dell'Università di Oxford; aveva iniziato ad assumerlo per curare le forti nevralgie di cui soffriva, ma col tempo divenne un vizio devastante. Poi si era trasferito a Grasmere dove era divenuto amico di Wordsworth e Coleridge, anch'egli oppiomane. Nel 1813 infine conobbe Margareth Simpson, figlia di un fattore, che sposò quattro anni più tardi, dopo la nascita di William, primo dei suoi otto figli. Dopo aver diretto, fra il 1818 e il 1819, un giornale locale, The Westmoreland Gazette, iniziò a collaborare stabilmente con alcune testate fra cui il noto London Magazine.
Nell’ambiente del primo romanticismo inglese l’interesse e l’utilizzo delle droghe rivestì un carattere teoretico oltreché esistenziale: era essenzialmente un modo per andare oltre la banalità del reale e, in questo cammino, egli fu certo un precursore e molti lo seguirono, a cominciare da Charles Baudelaire, che nutrì per lui un’ammirazione incondizionata, dai parnassiani e simbolisti, fino a Edgar Allan Poe che riprese in alcuni suoi racconti l’umorismo noir e disincantato di questo scrittore. Nel novecento la sua fortuna crebbe e subirono il fascino di questo libro certamente Walter Benjamin, Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares, Aldous Huxley, Ernst Jünger e infine tutta la generazione degli Hippies.
Se i nostri sommari accenni biografici possono essere sufficienti passiamo a porci qualche interrogativo, che ora dovremmo meglio riformulare. Infatti, come ci avverte Höffe: «Kant non ha altra biografia che la storia del proprio filosofare». (Otfried Höffe, Immanuel Kant, trad.it. di Sonia Carboncini, il Mulino, Bologna 1997 p. 9). Possiamo ritenere valido questo assunto per molti filosofi ma, soprattutto per Kant: i suoi dati biografici sono estremamente poveri, a differenza di altre figure come Descartes e Locke per esempio; Kant visse sempre a Königsberg e fece una tranquilla carriera universitaria. Queste scarse notizie relative alla sua vita sono conosciute grazie all'epistolario, un resoconto asciutto dei rapporti con gli studenti, i colleghi, gli amici e i parenti, ma soprattutto ricco di dettagli sui rapporti intercorsi con alcune importanti personalità del secolo e sulle prime reazioni ottenute dal pensiero kantiano.
L’interesse intorno a Kant si accende, come è legittimo aspettarsi, solo quando Kant è già l’autore delle sue celebri Critiche; allora vengono scritte anche le prime biografie (tutte appunto analizzate da de Quincey), quelle di Ludwig Ernst von Borowski, di Reinhold Bernhard Jachmann, di Ehregott Andreas Wasianski, di Johann Gottfried Hasse e di Friedrich Theodor Rink. Tutti questi studiosi ebbero modo di conoscerlo personalmente e di frequentarlo anche in qualità di collaboratori: lo ritraggono perciò soprattutto a partire dalle esperienze che ebbero di lui quando era sul finire della vita, per cui questo repertorio biografico rischia di produrre un ritratto sbilanciato verso la rigidità tipica dell'età senile.
Siamo quindi di fronte a un’immagine di Kant troppo unilaterale? Anche de Quincey in fondo procede proprio in questo modo. Non è interessato tanto all’aspetto teorico della filosofia di Kant, non avrebbe neanche avuto le doti intellettuali per affrontare questo gigante della filosofia, ma al significato della sua vicenda esistenziale e, oserei dire, propria a causa dell’ironia costitutiva del suo atteggiamento intellettuale, mette la sua lente d’ingrandimento su questo aspetto su cui la maggior parte degli studiosi volentieri preferirebbe dimenticarsi, quello appunto della sua decadenza senile. Proprio sulle tracce di de Quincey sono invece portato, in questo mio contributo, a interpretare questo dato come una sorta di monito del destino. Stiamo forse peccando, de Quincey e io, nel seguire le sue orme, di mancanza di rispetto verso uno dei più grandi pensatori di ogni tempo?
Ma Kant stesso sarebbe d’accordo con questo modo di procedere, a giudicare da questa sua dichiarazione programmatica di merito: «Il metodo peculiare dell'insegnamento della filosofia è zetetico, come solevano definirlo alcuni pensatori antichi (dal greco zetein), ossia indagativo, e diventa in diversi casi dogmatico, ossia determinato, solo per la ragione che ha già alle spalle una lunga pratica. Anche l'autore filosofico, su cui si è deciso di impostare un ciclo di lezioni, non dev'essere trattato come un criterio assoluto di giudizio, ma solo come un'opportunità di giudicare anche di lui, e persino contro di lui. Il metodo di riflettere con la propria testa e di trarne autonomamente le debite conclusioni è ciò che lo studente propriamente ricerca come qualcosa di immediatamente disponibile, ed è anche il solo che può essergli davvero utile» (I. Kant, Relazione introduttiva al proprio insegnamento nel corso del semestre invernale del 1765-1766).
Solo il 31 marzo del 1780 Kant ottenne quello a cui aspirava da una vita: la cattedra di professore ordinario di logica e di metafisica. Nel suo nuovo incarico Kant mutò il suo metodo d'insegnamento: «Egli non puntava più all’eleganza e alla popolarità, ma perseguiva una specie di oscurità, che rendeva molto difficile agli studenti comprenderlo. Si fece la reputazione di essere un professore difficile…Kant sapeva che molti studenti avevano problemi con le sue lezioni ed è chiaro che non se ne preoccupava più di tanto. Parlava a quelli che 'sono più capaci' e non agli altri» (Così avverte nella sua fondamentale biografia. Manfred Kuehn, Kant. Una biografia, Il Mulino 2011, p. 321).
Aggiungo ancora un’ultima citazione diretta di Kant, dal carattere certo autobiografico ma rivelativo di ciò che, a detta del filosofo, è davvero essenziale nella vita stessa: «Ciò che la parte più raffinata degli uomini chiama vita è uno strano intreccio di distrazioni riprovevoli, di noiosi passatempi e di altre piaghe ancora - di vanità e di tutto uno sciame di stupide distrazioni. Comunemente la loro perdita viene considerata pari alla morte, anzi come molto più grave della morte, infatti un uomo che sa godersi la vita, quando perde il gusto per tutto questo, è morto per i piaceri» (I. Kant, Bemerkungen in den "Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen", 52,5, pubblicato in: Note in margine al "Sentimento del bello e del sublime": trad. it. a cura di Katrin Tenenbaum, Bemerkungen, Meltemi, Roma, 2001).
Torniamo adesso al libro di de Quincey: poiché esso costituisce la mia proposta di lettura non desidero togliere al lettore il gusto di procedere da solo e mi limito a dare qualche traccia e suggestione di lettura, e un breve assaggio del suo superbo stile. Leggiamo quasi all’inizio che la vita di Immanuel Kant “fu notevole non tanto per i suoi avvenimenti quanto per la purezza e la dignità filosofica del suo tenore quotidiano” (p 14).
In questo libro, a parte qualche breve considerazione di circostanza, l’autore si concentra, come il titolo stesso avverte, in modo preciso solo sulla parte conclusiva di questa vita. “Verso la fine di tale inverno (era il 1803) Kant prese per la prima volta a lamentarsi di certi sgradevoli sogni, talvolta anche assai terrorizzanti, che lo svegliavano in uno stato di grande agitazione. Sovente certe melodie, che aveva sentito cantare nella sua prima giovinezza per le strade di Königsberg, risuonavano dolorosamente alle sue orecchie e vi permanevano con una tale tenacia che nessuno sforzo per distrarsene riusciva ad avere effetto. Questi sforzi lo tenevano sveglio fino a tarda ora…” (p. 52).
Ecco dunque il filosofo Kant presentato in momenti privati quanto drammatici, ricondotto in modo impietoso ai limiti della umanità di ognuno di noi, predestinato ad affrontare le sofferenze della malattia della vecchiaia e della morte, come sa ogni praticante buddista e, più o meno inconsciamente, ogni essere umano.
Già a partire dal 1798, in realtà, Kant aveva accusato un decadimento delle funzioni cognitive e altri disturbi che oggi ci permettono di ipotizzare che fosse affetto da Alzheimer o da un'altra malattia degenerativa. Dovette affrontare i molti malanni dell’età anziana, gli diminuì la vista soprattutto quella dell'occhio sinistro e perse la memoria degli eventi recenti mentre ricordava con precisione quelli passati. “Durante le ultime due settimane della sua vita, Kant si occupava incessantemente di qualcosa che sembrava non soltanto senza scopo, ma in se stesso contraddittorio. Venti volte al minuto scioglieva e annodava il fazzoletto che portava al collo…nessuna descrizione può dare una impressione adeguata della spossata agitazione con cui dal mattino alla sera egli perseguiva quelle fatiche di Sisifo – quel fare e disfare -, con l’assillo di non riuscire a compiere un gesto, con l’assillo di averlo appena compiuto. (p 68).
Forse nel lettore a questo punto potrebbe essersi prodotta un’impressione erronea, che cercherò subito di emendare, quella cioè che stia suggerendo, come qualche studioso ha già fatto, l’ipotesi che il ventennale travaglio intellettuale affrontato da Kant nella scrittura delle sue tre grandi opere almeno dal 1770, quando iniziò a concentrarsi sulla Critica della ragion pura, fino al 1790, quando pubblicò la Critica del giudizio, sia stato eccessivo per qualunque essere umano, quindi anche per l’uomo Kant. E aggiungerei: è forse questa intrinseca debolezza esistenziale propria di ogni essere umano che ha mosso de Quincey a scrivere questa opera?
Così potremmo anche concludere: “In realtà quest’opera è, riga per riga, unicamente di de Quincey…che si è rivelato anch’egli un falsario della natura e ha sigillato la sua invenzione con il sigillo contraffatto della realtà” (Marcel Schwob, scrittore simbolista famoso soprattutto per le Vite immaginarie, opera pubblicata nel 1896).
Mi verrebbe quasi da concludere che de Quincey, a partire dalla sua difficile infanzia, ha avuto soprattutto una predestinazione a frequentare quelli che potremmo indicare come gli stati alterati di coscienza e che il suo interesse verso Kant va interpretato a partire da questo dato e che, forse, anche la sua attrazione verso le droghe più che dalle circostanze della sua vita si originava da un destino intrinseco al suo essere. Mi viene in fondo da affermare che ogni scrittore e ogni scrivente, per quanto mosso da sinceri desideri di uscire dai limiti della propria soggettività e di conoscere ciò che sta fuori di lui, quando scrive qualcosa di vero non può che scrivere intorno a sé.
Aggiungo ancora alcune righe di de Quincey, tratte dal suo scritto più famoso: “…per la mente non esiste la possibilità di una cosa come il dimenticare: mille avvenimenti possono frapporre un velo, e in realtà lo frappongono, tra la nostra consapevolezza presente e le segrete iscrizioni della mente; avvenimenti dello stesso genere possono anche strappare il velo; ma velata o no, l'iscrizione rimane per sempre: proprio come le stelle sembrano sparire davanti alla consueta luce d'ogni giorno, mentre in realtà tutti sappiamo che è la luce che le nasconde come un velo, ed esse aspettano d'essere svelate quando sparisca la luce che le eclissa”. (Confessioni di un mangiatore d’oppio). Proprio sulle tracce di de Quincey sono invece portato, in questo mio contributo, a interpretare questo dato di fatto della vita privata di Kant come una sorta di monito del destino. Forse la vita stessa si è incaricata di insegnare a colui che era esperto nel giudicare l’importanza del lasciar andare?
Si è appena concluso il secondo ritiro della Associazione Meditatio tenutosi presso l’eremo di San Fidenzio in Valpantena vicino a Verona: è stato presentato uno dei Padri del Deserto tra i meno noti ma sicuramente tra i più profondi e significativi in una prospettiva meditativa. Il frutto per me più significativo di queste intense giornate di studio è il rafforzamento di una mia convinzione di fondo: esiste un fondo dell’essere umano, qualcosa che costituisce la sua natura innata e atemporale e questo nucleo segreto si rivela nella pratica meditativa.
La filosofia e la cultura in generale di questi due ultimi due secoli sono state troppo influenzate dall’impostazione storicista e dal pregiudizio che ne stata alla base, cioè l’idea, di origine positivista, che esista un progresso storico continuo nell’umanità; questa idea è stata rafforzata delle continue conquiste raggiunte dall’umanità in ambito tecnologico, ma essa sottende una visione davvero limitata e ingenua dell’umanità nel suo transito terreno. Concentrarsi nello studio di un Padre del Deserto, di un uomo vissuto quasi duemila anni fa in condizioni storiche e culturali che possono sembrarci davvero lontane dalle nostre offre invece un potente antidoto ai luoghi comuni che ci rendono propensi a credere il pensiero un prodotto storico, un bene di consumo facilmente soggetto alle mode del giorno. Le analisi di Bielawski hanno bene evidenziato le tematiche di fondo che maggiormente stavano a cuore a questo Padre: i suoi interrogativi sono attuali anche oggi per noi, perché sono relativi alle domande che ogni essere umano ancora si pone, se davvero cerca di comprendere a livello teoretico il suo essere nel mondo.
Desidero soffermarmi sulla tematica di fondo, ricorrente nelle scarse testimonianze e nei brevi apologhi che sono stati tramandati rispetto alla figura di Pafnuzio di Scete, vissuto all’incirca negli stessi anni di Sant’Agostino, quella del non giudicare e poi su altre due temi che potremmo sintetizzare in queste due domande: come mai agli uomini buoni accadono grande sofferenze e in quale rapporto stanno libertà e necessità rispetto all’agire umano.
“Nihil sub sole novum” (Qohelet 1, 9-10) ha assunto ormai un valore proverbiale, teniamolo un po' come implicito sfondo di queste mie considerazioni: in realtà intendo demolire il pregiudizio positivista che nella storia del pensiero umano si presentino effettive rivoluzioni di pensiero e, un po' provocatoriamente, lo faccio proprio in relazione a Kant, che è considerato quasi il fondatore della filosofia moderna. Le scarse testimonianze su Pafnuzio evidenziano bene che questo padre era quasi ossessionato dal problema del giudizio.
Che dire allora di Kant che scrisse le sue tre Critiche, che rappresentano il frutto maturo di tutta la sua riflessione, proprio domandandosi entro quali limiti sia possibile all’essere umano esprimere giudizi? Com’è noto ai più, se conservano almeno qualche traccia di studi liceali, Kant non risolse mai veramente questo problema, se non ammettendo una sorta di frattura intrinseca fra ragione pura (teorica) e ragion pratica.
Questo dualismo Kant lo aveva ben compreso se molti studiosi propongono l’idea che scrivendo la terza critica, quella del Giudizio, egli volesse quasi indicare una possibile via per ricomporre l’unità dell’essere umano. Forse la frattura rimane ma con questa terza critica Kant aprì la strada ai temi del romanticismo stesso, sviluppati da Schelling e da tutto il romanticismo tedesco, soprattutto mediante la sua decisiva analisi del concetto di Sublime.
Senza addentrarci in complesse analisi filosofiche posso almeno indicare che Kant diede prova di enorme onestà intellettuale ammettendo i termini precisi della questione e affrontando esplicitamente la domanda: il mondo è retto dalla libertà o dalla necessità? Questo rimane infatti uno dei grandi problemi irrisolti e irresolubili da qualunque sistema filosofico: coerentemente con questa impostazione Kant aveva presentato la terza antinomia della ragion pura, in base alla quale la Ragione umana non è in grado di rispondere a questa domanda e deve sospendere ogni giudizio.
Ma se questo assunto è valido a livello teoretico Kant poi non ha paura di entrare in contrasto (apparente) con se stesso e di ammettere il secondo postulato della ragion pratica, cioè la libertà stessa dell’uomo, come il presupposto e quindi il fondamento stesso dell’agire morale dell’umanità. In sintesi si potrebbe affermare: la libertà dell’uomo è indimostrabile dalla ragione teoretica ma necessaria esistenzialmente all’uomo votato a realizzare i valori morali.
Ovviamente nel racconto di Wasianski, e di riflesso de Quincey, non potevano mancare le ultime parole pronunciate da Kant nella sua agonia – queste parole non potevano che essere rivelatrici di qualcosa di definitivo. Alle undici precise del 12 febbraio 1804 Kant spirò mormorando «Es ist gut».
E qui si rivela ancora una volta l’importanza essenziale della ermeneutica: de Quincey, forse vittima di una traduzione imprecisa o forse dei suoi stessi pregiudizi, legge e rende queste parole con “è abbastanza”, cioè basta così, si è toccato il climax della sofferenza sopportabile a qualsiasi essere umano, come chiarisce nella nota conclusiva che precisa: “Il calice della vita, il calice della sofferenza è stato bevuto fino in fondo. Per coloro che osservano, come facevano i Greci e i Romani, i significati profondi che spesso si celano in frasi banali, quest’ultima parola apparirà intensamente simbolica” (p. 101). Ma in tedesco queste parole furono appunto “es ist gut”, espressione idiomatica della lingua tedesca che potremmo anche rendere “va bene così”. Oppure io preferirei tradurre: “è bene”. “Es ist gut”: basta così, oppure va bene così, infine è bene; questa ambiguità della lingua nell’istante della morte forse espresse una suprema accettazione della vita? La soluzione della contraddizione insita nella vita stessa?
Mi piace così pensare che Kant sia morto veramente in pace, sciolto da quella contraddizione che la sua brillante ragione non fu capace di sciogliere, liberato da Qualcosa che sta oltre ciò che la nostra immaginazione umana sarebbe in grado di immaginare. E che infine, in quel supremo istante, questo Qualcosa abbia fatto dono a Kant stesso di aprire la sua mente e di accompagnarlo alla Quiete suprema.
De Quincey pubblicò, tre anni prima della sua morte, una nuova edizione di Le confessioni di un mangiatore d'oppio mantenendo anche in età avanzata, nonostante l'abuso di droghe (da cui, sembra, fosse riuscito a liberarsi solo sessantenne) una notevole vitalità e lucidità mentale. Nel dicembre del 1859 si spense, all'età di settantacinque anni, nella città di Edimburgo, scelta come propria residenza fin dal 1830. Per un singolare paradosso questo scrittore poté curare tranquillamente, in piena epoca vittoriana, una nuova edizione delle sue Confessioni, addirittura ampliata in alcuni passaggi, senza incontrare alcuna censura, anzi con l'incondizionato appoggio dei suoi stessi editori.
Possediamo anche un resoconto delle circostanze della sua morte, avvenuta il pomeriggio del 6 dicembre 1859: “Thank you” disse semplicemente a coloro che gli stavano attorno, con un tono dolce e l’espressione radiosa; gli parve di vedere la sorella Elisabeth e la chiamò. Il respiro si fece più lento. Poi entrò in uno stato di torpore, gradualmente perse conoscenza e nelle prime ore del giorno 8 dicembre morì. Il suo viso si velò di una parvenza di gioventù. Aveva settantaquattro anni e sembrava un ragazzo di quattordici…il dottor Begbie annota che non fu affetto da senilis stultitia quae deliratio appellari solet”.
Quanto a Montaigne, lo dico per coloro che ignorino questo dettaglio della sua vita, morì il 13 settembre 1592, improvvisamente, durante la celebrazione della Messa al momento della Elevazione, nella città dove aveva sempre vissuto, accanto alla moglie, nel suo amato castello.
(Sergio Gandini)
La fonte principale di de Quincey è il libro di Ehregott Andreas Wasianski, un discepolo del maestro (Immanuel Kant negli ultimi anni della sua vita, 1804). Ma de Quincey in una nota precisa di aver consultato da dieci a quattordici testimonianze relative alla vita del grande filosofo, tra cui quelle di Jachmann e Borowski, e questa rappresenta per me una preziosa indicazione di metodo: così dovrebbero sempre procedere lo studioso e l’ermeneuta, avere di fronte a sé una serie il più possibile ampia e differenziata di fonti a partire dalle quali tessere il proprio personale contributo teorico.
Solo in apparenza de Quincey si fa da parte e si nasconde quasi dietro la ricorrente formula Wasianski loquitur, come d’altronde chiarisce in un’altra delle sue indispensabili note: questo libricino è opera di de Quincey a tutti gli effetti, lo stile spiritoso e a tratti quasi irriverente, le considerazioni con le quali adorna il testo rivelano la cura che a esso dedicò nel comporlo nonché il posto importante che occupa nella sua opera; nel 1821 sul London Magazine era apparsa la prima puntata di Le Confessioni di un mangiatore d'oppio, che già nel titolo intende ricollegarsi a questo vasto filone autobiografico che va da Agostino fino a Rousseau; l’opera già l’anno successivo fu edita in volume (lo scritto su Kant quindi seguirà a distanza di pochi anni) assicurando al suo autore fama e danaro per il resto della sua travagliata vita.
Ma chi era de Quincey e perché si interessa a Kant? Meglio separare queste due domande e fornire prima di tutto qualche indicazione sommaria su questo autore al lettore che non lo conosce direttamente. La sua vicenda esistenziale si colloca nell’ambito del primo romanticismo inglese e in questa corrente letteraria può essere collocata anche la sua opera di scrittore: alle inquietudini esistenziali e alle idee caratteristiche di questo ambiente de Quincey aggiunge la propria sensibilità già gravata da una infanzia estremamente difficile, infatti era un bambino gracile, aveva perso il padre (quasi sempre assente da casa poiché commerciante all’estero) a otto anni, mentre l’anno prima era morta l’amata sorella maggiore Elisabeth.
Si abituò a fare uso dall’oppio già a vent’anni, durante il soggiorno presso il Worcester College dell'Università di Oxford; aveva iniziato ad assumerlo per curare le forti nevralgie di cui soffriva, ma col tempo divenne un vizio devastante. Poi si era trasferito a Grasmere dove era divenuto amico di Wordsworth e Coleridge, anch'egli oppiomane. Nel 1813 infine conobbe Margareth Simpson, figlia di un fattore, che sposò quattro anni più tardi, dopo la nascita di William, primo dei suoi otto figli. Dopo aver diretto, fra il 1818 e il 1819, un giornale locale, The Westmoreland Gazette, iniziò a collaborare stabilmente con alcune testate fra cui il noto London Magazine.
Nell’ambiente del primo romanticismo inglese l’interesse e l’utilizzo delle droghe rivestì un carattere teoretico oltreché esistenziale: era essenzialmente un modo per andare oltre la banalità del reale e, in questo cammino, egli fu certo un precursore e molti lo seguirono, a cominciare da Charles Baudelaire, che nutrì per lui un’ammirazione incondizionata, dai parnassiani e simbolisti, fino a Edgar Allan Poe che riprese in alcuni suoi racconti l’umorismo noir e disincantato di questo scrittore. Nel novecento la sua fortuna crebbe e subirono il fascino di questo libro certamente Walter Benjamin, Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares, Aldous Huxley, Ernst Jünger e infine tutta la generazione degli Hippies.
Se i nostri sommari accenni biografici possono essere sufficienti passiamo a porci qualche interrogativo, che ora dovremmo meglio riformulare. Infatti, come ci avverte Höffe: «Kant non ha altra biografia che la storia del proprio filosofare». (Otfried Höffe, Immanuel Kant, trad.it. di Sonia Carboncini, il Mulino, Bologna 1997 p. 9). Possiamo ritenere valido questo assunto per molti filosofi ma, soprattutto per Kant: i suoi dati biografici sono estremamente poveri, a differenza di altre figure come Descartes e Locke per esempio; Kant visse sempre a Königsberg e fece una tranquilla carriera universitaria. Queste scarse notizie relative alla sua vita sono conosciute grazie all'epistolario, un resoconto asciutto dei rapporti con gli studenti, i colleghi, gli amici e i parenti, ma soprattutto ricco di dettagli sui rapporti intercorsi con alcune importanti personalità del secolo e sulle prime reazioni ottenute dal pensiero kantiano.
L’interesse intorno a Kant si accende, come è legittimo aspettarsi, solo quando Kant è già l’autore delle sue celebri Critiche; allora vengono scritte anche le prime biografie (tutte appunto analizzate da de Quincey), quelle di Ludwig Ernst von Borowski, di Reinhold Bernhard Jachmann, di Ehregott Andreas Wasianski, di Johann Gottfried Hasse e di Friedrich Theodor Rink. Tutti questi studiosi ebbero modo di conoscerlo personalmente e di frequentarlo anche in qualità di collaboratori: lo ritraggono perciò soprattutto a partire dalle esperienze che ebbero di lui quando era sul finire della vita, per cui questo repertorio biografico rischia di produrre un ritratto sbilanciato verso la rigidità tipica dell'età senile.
Siamo quindi di fronte a un’immagine di Kant troppo unilaterale? Anche de Quincey in fondo procede proprio in questo modo. Non è interessato tanto all’aspetto teorico della filosofia di Kant, non avrebbe neanche avuto le doti intellettuali per affrontare questo gigante della filosofia, ma al significato della sua vicenda esistenziale e, oserei dire, propria a causa dell’ironia costitutiva del suo atteggiamento intellettuale, mette la sua lente d’ingrandimento su questo aspetto su cui la maggior parte degli studiosi volentieri preferirebbe dimenticarsi, quello appunto della sua decadenza senile. Proprio sulle tracce di de Quincey sono invece portato, in questo mio contributo, a interpretare questo dato come una sorta di monito del destino. Stiamo forse peccando, de Quincey e io, nel seguire le sue orme, di mancanza di rispetto verso uno dei più grandi pensatori di ogni tempo?
Ma Kant stesso sarebbe d’accordo con questo modo di procedere, a giudicare da questa sua dichiarazione programmatica di merito: «Il metodo peculiare dell'insegnamento della filosofia è zetetico, come solevano definirlo alcuni pensatori antichi (dal greco zetein), ossia indagativo, e diventa in diversi casi dogmatico, ossia determinato, solo per la ragione che ha già alle spalle una lunga pratica. Anche l'autore filosofico, su cui si è deciso di impostare un ciclo di lezioni, non dev'essere trattato come un criterio assoluto di giudizio, ma solo come un'opportunità di giudicare anche di lui, e persino contro di lui. Il metodo di riflettere con la propria testa e di trarne autonomamente le debite conclusioni è ciò che lo studente propriamente ricerca come qualcosa di immediatamente disponibile, ed è anche il solo che può essergli davvero utile» (I. Kant, Relazione introduttiva al proprio insegnamento nel corso del semestre invernale del 1765-1766).
Solo il 31 marzo del 1780 Kant ottenne quello a cui aspirava da una vita: la cattedra di professore ordinario di logica e di metafisica. Nel suo nuovo incarico Kant mutò il suo metodo d'insegnamento: «Egli non puntava più all’eleganza e alla popolarità, ma perseguiva una specie di oscurità, che rendeva molto difficile agli studenti comprenderlo. Si fece la reputazione di essere un professore difficile…Kant sapeva che molti studenti avevano problemi con le sue lezioni ed è chiaro che non se ne preoccupava più di tanto. Parlava a quelli che 'sono più capaci' e non agli altri» (Così avverte nella sua fondamentale biografia. Manfred Kuehn, Kant. Una biografia, Il Mulino 2011, p. 321).
Aggiungo ancora un’ultima citazione diretta di Kant, dal carattere certo autobiografico ma rivelativo di ciò che, a detta del filosofo, è davvero essenziale nella vita stessa: «Ciò che la parte più raffinata degli uomini chiama vita è uno strano intreccio di distrazioni riprovevoli, di noiosi passatempi e di altre piaghe ancora - di vanità e di tutto uno sciame di stupide distrazioni. Comunemente la loro perdita viene considerata pari alla morte, anzi come molto più grave della morte, infatti un uomo che sa godersi la vita, quando perde il gusto per tutto questo, è morto per i piaceri» (I. Kant, Bemerkungen in den "Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen", 52,5, pubblicato in: Note in margine al "Sentimento del bello e del sublime": trad. it. a cura di Katrin Tenenbaum, Bemerkungen, Meltemi, Roma, 2001).
Torniamo adesso al libro di de Quincey: poiché esso costituisce la mia proposta di lettura non desidero togliere al lettore il gusto di procedere da solo e mi limito a dare qualche traccia e suggestione di lettura, e un breve assaggio del suo superbo stile. Leggiamo quasi all’inizio che la vita di Immanuel Kant “fu notevole non tanto per i suoi avvenimenti quanto per la purezza e la dignità filosofica del suo tenore quotidiano” (p 14).
In questo libro, a parte qualche breve considerazione di circostanza, l’autore si concentra, come il titolo stesso avverte, in modo preciso solo sulla parte conclusiva di questa vita. “Verso la fine di tale inverno (era il 1803) Kant prese per la prima volta a lamentarsi di certi sgradevoli sogni, talvolta anche assai terrorizzanti, che lo svegliavano in uno stato di grande agitazione. Sovente certe melodie, che aveva sentito cantare nella sua prima giovinezza per le strade di Königsberg, risuonavano dolorosamente alle sue orecchie e vi permanevano con una tale tenacia che nessuno sforzo per distrarsene riusciva ad avere effetto. Questi sforzi lo tenevano sveglio fino a tarda ora…” (p. 52).
Ecco dunque il filosofo Kant presentato in momenti privati quanto drammatici, ricondotto in modo impietoso ai limiti della umanità di ognuno di noi, predestinato ad affrontare le sofferenze della malattia della vecchiaia e della morte, come sa ogni praticante buddista e, più o meno inconsciamente, ogni essere umano.
Già a partire dal 1798, in realtà, Kant aveva accusato un decadimento delle funzioni cognitive e altri disturbi che oggi ci permettono di ipotizzare che fosse affetto da Alzheimer o da un'altra malattia degenerativa. Dovette affrontare i molti malanni dell’età anziana, gli diminuì la vista soprattutto quella dell'occhio sinistro e perse la memoria degli eventi recenti mentre ricordava con precisione quelli passati. “Durante le ultime due settimane della sua vita, Kant si occupava incessantemente di qualcosa che sembrava non soltanto senza scopo, ma in se stesso contraddittorio. Venti volte al minuto scioglieva e annodava il fazzoletto che portava al collo…nessuna descrizione può dare una impressione adeguata della spossata agitazione con cui dal mattino alla sera egli perseguiva quelle fatiche di Sisifo – quel fare e disfare -, con l’assillo di non riuscire a compiere un gesto, con l’assillo di averlo appena compiuto. (p 68).
Forse nel lettore a questo punto potrebbe essersi prodotta un’impressione erronea, che cercherò subito di emendare, quella cioè che stia suggerendo, come qualche studioso ha già fatto, l’ipotesi che il ventennale travaglio intellettuale affrontato da Kant nella scrittura delle sue tre grandi opere almeno dal 1770, quando iniziò a concentrarsi sulla Critica della ragion pura, fino al 1790, quando pubblicò la Critica del giudizio, sia stato eccessivo per qualunque essere umano, quindi anche per l’uomo Kant. E aggiungerei: è forse questa intrinseca debolezza esistenziale propria di ogni essere umano che ha mosso de Quincey a scrivere questa opera?
Così potremmo anche concludere: “In realtà quest’opera è, riga per riga, unicamente di de Quincey…che si è rivelato anch’egli un falsario della natura e ha sigillato la sua invenzione con il sigillo contraffatto della realtà” (Marcel Schwob, scrittore simbolista famoso soprattutto per le Vite immaginarie, opera pubblicata nel 1896).
Mi verrebbe quasi da concludere che de Quincey, a partire dalla sua difficile infanzia, ha avuto soprattutto una predestinazione a frequentare quelli che potremmo indicare come gli stati alterati di coscienza e che il suo interesse verso Kant va interpretato a partire da questo dato e che, forse, anche la sua attrazione verso le droghe più che dalle circostanze della sua vita si originava da un destino intrinseco al suo essere. Mi viene in fondo da affermare che ogni scrittore e ogni scrivente, per quanto mosso da sinceri desideri di uscire dai limiti della propria soggettività e di conoscere ciò che sta fuori di lui, quando scrive qualcosa di vero non può che scrivere intorno a sé.
Aggiungo ancora alcune righe di de Quincey, tratte dal suo scritto più famoso: “…per la mente non esiste la possibilità di una cosa come il dimenticare: mille avvenimenti possono frapporre un velo, e in realtà lo frappongono, tra la nostra consapevolezza presente e le segrete iscrizioni della mente; avvenimenti dello stesso genere possono anche strappare il velo; ma velata o no, l'iscrizione rimane per sempre: proprio come le stelle sembrano sparire davanti alla consueta luce d'ogni giorno, mentre in realtà tutti sappiamo che è la luce che le nasconde come un velo, ed esse aspettano d'essere svelate quando sparisca la luce che le eclissa”. (Confessioni di un mangiatore d’oppio). Proprio sulle tracce di de Quincey sono invece portato, in questo mio contributo, a interpretare questo dato di fatto della vita privata di Kant come una sorta di monito del destino. Forse la vita stessa si è incaricata di insegnare a colui che era esperto nel giudicare l’importanza del lasciar andare?
Si è appena concluso il secondo ritiro della Associazione Meditatio tenutosi presso l’eremo di San Fidenzio in Valpantena vicino a Verona: è stato presentato uno dei Padri del Deserto tra i meno noti ma sicuramente tra i più profondi e significativi in una prospettiva meditativa. Il frutto per me più significativo di queste intense giornate di studio è il rafforzamento di una mia convinzione di fondo: esiste un fondo dell’essere umano, qualcosa che costituisce la sua natura innata e atemporale e questo nucleo segreto si rivela nella pratica meditativa.
La filosofia e la cultura in generale di questi due ultimi due secoli sono state troppo influenzate dall’impostazione storicista e dal pregiudizio che ne stata alla base, cioè l’idea, di origine positivista, che esista un progresso storico continuo nell’umanità; questa idea è stata rafforzata delle continue conquiste raggiunte dall’umanità in ambito tecnologico, ma essa sottende una visione davvero limitata e ingenua dell’umanità nel suo transito terreno. Concentrarsi nello studio di un Padre del Deserto, di un uomo vissuto quasi duemila anni fa in condizioni storiche e culturali che possono sembrarci davvero lontane dalle nostre offre invece un potente antidoto ai luoghi comuni che ci rendono propensi a credere il pensiero un prodotto storico, un bene di consumo facilmente soggetto alle mode del giorno. Le analisi di Bielawski hanno bene evidenziato le tematiche di fondo che maggiormente stavano a cuore a questo Padre: i suoi interrogativi sono attuali anche oggi per noi, perché sono relativi alle domande che ogni essere umano ancora si pone, se davvero cerca di comprendere a livello teoretico il suo essere nel mondo.
Desidero soffermarmi sulla tematica di fondo, ricorrente nelle scarse testimonianze e nei brevi apologhi che sono stati tramandati rispetto alla figura di Pafnuzio di Scete, vissuto all’incirca negli stessi anni di Sant’Agostino, quella del non giudicare e poi su altre due temi che potremmo sintetizzare in queste due domande: come mai agli uomini buoni accadono grande sofferenze e in quale rapporto stanno libertà e necessità rispetto all’agire umano.
“Nihil sub sole novum” (Qohelet 1, 9-10) ha assunto ormai un valore proverbiale, teniamolo un po' come implicito sfondo di queste mie considerazioni: in realtà intendo demolire il pregiudizio positivista che nella storia del pensiero umano si presentino effettive rivoluzioni di pensiero e, un po' provocatoriamente, lo faccio proprio in relazione a Kant, che è considerato quasi il fondatore della filosofia moderna. Le scarse testimonianze su Pafnuzio evidenziano bene che questo padre era quasi ossessionato dal problema del giudizio.
Che dire allora di Kant che scrisse le sue tre Critiche, che rappresentano il frutto maturo di tutta la sua riflessione, proprio domandandosi entro quali limiti sia possibile all’essere umano esprimere giudizi? Com’è noto ai più, se conservano almeno qualche traccia di studi liceali, Kant non risolse mai veramente questo problema, se non ammettendo una sorta di frattura intrinseca fra ragione pura (teorica) e ragion pratica.
Questo dualismo Kant lo aveva ben compreso se molti studiosi propongono l’idea che scrivendo la terza critica, quella del Giudizio, egli volesse quasi indicare una possibile via per ricomporre l’unità dell’essere umano. Forse la frattura rimane ma con questa terza critica Kant aprì la strada ai temi del romanticismo stesso, sviluppati da Schelling e da tutto il romanticismo tedesco, soprattutto mediante la sua decisiva analisi del concetto di Sublime.
Senza addentrarci in complesse analisi filosofiche posso almeno indicare che Kant diede prova di enorme onestà intellettuale ammettendo i termini precisi della questione e affrontando esplicitamente la domanda: il mondo è retto dalla libertà o dalla necessità? Questo rimane infatti uno dei grandi problemi irrisolti e irresolubili da qualunque sistema filosofico: coerentemente con questa impostazione Kant aveva presentato la terza antinomia della ragion pura, in base alla quale la Ragione umana non è in grado di rispondere a questa domanda e deve sospendere ogni giudizio.
Ma se questo assunto è valido a livello teoretico Kant poi non ha paura di entrare in contrasto (apparente) con se stesso e di ammettere il secondo postulato della ragion pratica, cioè la libertà stessa dell’uomo, come il presupposto e quindi il fondamento stesso dell’agire morale dell’umanità. In sintesi si potrebbe affermare: la libertà dell’uomo è indimostrabile dalla ragione teoretica ma necessaria esistenzialmente all’uomo votato a realizzare i valori morali.
Ovviamente nel racconto di Wasianski, e di riflesso de Quincey, non potevano mancare le ultime parole pronunciate da Kant nella sua agonia – queste parole non potevano che essere rivelatrici di qualcosa di definitivo. Alle undici precise del 12 febbraio 1804 Kant spirò mormorando «Es ist gut».
E qui si rivela ancora una volta l’importanza essenziale della ermeneutica: de Quincey, forse vittima di una traduzione imprecisa o forse dei suoi stessi pregiudizi, legge e rende queste parole con “è abbastanza”, cioè basta così, si è toccato il climax della sofferenza sopportabile a qualsiasi essere umano, come chiarisce nella nota conclusiva che precisa: “Il calice della vita, il calice della sofferenza è stato bevuto fino in fondo. Per coloro che osservano, come facevano i Greci e i Romani, i significati profondi che spesso si celano in frasi banali, quest’ultima parola apparirà intensamente simbolica” (p. 101). Ma in tedesco queste parole furono appunto “es ist gut”, espressione idiomatica della lingua tedesca che potremmo anche rendere “va bene così”. Oppure io preferirei tradurre: “è bene”. “Es ist gut”: basta così, oppure va bene così, infine è bene; questa ambiguità della lingua nell’istante della morte forse espresse una suprema accettazione della vita? La soluzione della contraddizione insita nella vita stessa?
Mi piace così pensare che Kant sia morto veramente in pace, sciolto da quella contraddizione che la sua brillante ragione non fu capace di sciogliere, liberato da Qualcosa che sta oltre ciò che la nostra immaginazione umana sarebbe in grado di immaginare. E che infine, in quel supremo istante, questo Qualcosa abbia fatto dono a Kant stesso di aprire la sua mente e di accompagnarlo alla Quiete suprema.
De Quincey pubblicò, tre anni prima della sua morte, una nuova edizione di Le confessioni di un mangiatore d'oppio mantenendo anche in età avanzata, nonostante l'abuso di droghe (da cui, sembra, fosse riuscito a liberarsi solo sessantenne) una notevole vitalità e lucidità mentale. Nel dicembre del 1859 si spense, all'età di settantacinque anni, nella città di Edimburgo, scelta come propria residenza fin dal 1830. Per un singolare paradosso questo scrittore poté curare tranquillamente, in piena epoca vittoriana, una nuova edizione delle sue Confessioni, addirittura ampliata in alcuni passaggi, senza incontrare alcuna censura, anzi con l'incondizionato appoggio dei suoi stessi editori.
Possediamo anche un resoconto delle circostanze della sua morte, avvenuta il pomeriggio del 6 dicembre 1859: “Thank you” disse semplicemente a coloro che gli stavano attorno, con un tono dolce e l’espressione radiosa; gli parve di vedere la sorella Elisabeth e la chiamò. Il respiro si fece più lento. Poi entrò in uno stato di torpore, gradualmente perse conoscenza e nelle prime ore del giorno 8 dicembre morì. Il suo viso si velò di una parvenza di gioventù. Aveva settantaquattro anni e sembrava un ragazzo di quattordici…il dottor Begbie annota che non fu affetto da senilis stultitia quae deliratio appellari solet”.
Quanto a Montaigne, lo dico per coloro che ignorino questo dettaglio della sua vita, morì il 13 settembre 1592, improvvisamente, durante la celebrazione della Messa al momento della Elevazione, nella città dove aveva sempre vissuto, accanto alla moglie, nel suo amato castello.
(Sergio Gandini)