Letture
Taccuino: un incontro spirituale Tutte le confessioni religiose in fondo concordano su questo unico punto essenziale: esiste in ognuno di noi un bisogno di spiritualità che deve essere in qualche misura coltivato e indirizzato. È necessario ricevere insegnamenti. Per Sant’Agostino l’unico Maestro autentico è Cristo, il maestro interiore; eppure già San Tommaso non è del tutto d’accordo con lui e preferisce ammettere l’esistenza di un maestro reale da affiancare a quello esclusivamente spirituale. È un punto che va analizzato e chiarito. |
Gli esseri umani si alimentano di relazioni almeno quanto di cibo esteriore: possiamo chiamare questa situazione in differenti modalità, bisogno di incontri significativi, di insegnanti, di mentori, di maestri, di padri spirituali. Gli esseri umani crescono interiormente grazie alle relazioni. Ma chi considerano davvero come il loro Padre spirituale? Da parte mia non ho remore a indicarlo nella persona di Krishnamurti.
Vorrei anche confessare le circostanze particolari di questo incontro. Gli ultimi discorsi tenuti dal Maestro furono quelli di Saanen nel 1985: avrei potuto conoscere di persona lui come feci, nel corso degli anni, con altri maestri. Non fu così – ma da questa che molti potrebbero interpretare solo come una circostanza contingente ho personalmente finito col ricavare la profonda convinzione che questo incontro personale non mi era destinato e, infine, è stato un bene che non sia avvenuto, giacché esiste sempre il rischio che un incontro effettivo crei una dipendenza profonda dalla figura del Maestro.
Per anni però ho avuto questo rimpianto: cercando di aggirarlo in seguito ho letto svariati libri riferiti a Krishnamurti, che sono, in sostanza, trascrizioni dei suoi discorsi pubblici, più o meno redatti con misurata fedeltà, ho anche guardato svariate registrazioni trasferite ormai su dvd, molte sono disponibili sul sito della Fondazione Krishnamurti. Le ho esaminate con profonda emozione: osservare quest’uomo entrare in una sala, in assoluta umiltà e sedersi su una semplice sedia, senza essere preceduto da un corteo di monaci e monache, in assoluta solitudine, e parlare semplicemente di fronte ad altri, come farebbero due persone sedute al tavolino di un bar, costituisce di per sé un grande insegnamento.
Eppure il mio incontro è avvenuto, in un modo in apparenza assolutamente casuale. Una decina di anni fa, quando ormai avevo intrapreso la mia ricerca spirituale da tempo, e osservavo i volumi presenti in una libreria, la mia attenzione fu attratta da un’opera di Krishnamurti – e sottolineo “di”, in quanto non si trattava di una raccolta dei suoi discorsi (simile a quelli che lessi in seguito) ma, appunto, dei taccuini tenuti per un periodo di circa un anno dall’uomo già impegnato a vagare in paesi di ogni parte della terra per diffondere i suoi insegnamenti. O forse dovrei dire per tenere i suoi incontri pubblici? Una conferenza di Krishnamurti infatti doveva essere veramente un’esperienza totale, anche se non ho mai avuto la fortuna di assistervi, almeno a giudicare dalla visione, come ho appena ricordato, dei filmati ricavati da esse.
Chi era il Maestro Krishnamurti è qualcosa di abbastanza noto a chi pratichi la ricerca spirituale, per cui volentieri mi limito a qualche precisazione necessaria, senza appesantire troppo il contenuto di questo breve contributo. Forse la modalità più rispettosa, efficace ed onesta di introdurre la figura di Krishnamurti è lasciarlo parlare direttamente (queste parole si trovano d’altronde sul sito ufficiale della Fondazione che si ispira al suo magistero):
“Amici, non vi preoccupate di chi io sia; non lo saprete mai.Non voglio che accettiate nulla di ciò che dico. Non voglio nulla da nessuno di voi, non desidero la popolarità, non voglio la vostra adulazione, non voglio che mi seguiate. Dato che sono innamorato della vita, non voglio nulla. Queste cose non hanno molta importanza; ha importanza il fatto che voi obbedite e che permettete al vostro giudizio di essere pervertito dall’autorità. Il vostro giudizio, la vostra mente, il vostro affetto, la vostra vita, sono pervertiti da cose che non hanno valore, e proprio in questo risiede il dolore”. J. Krishnamurti (dal sito www.kinfonet.org).
Aggiungo qualche precisazione di carattere biografico: Jiddu Krishnamurti era nato l’11 maggio 1895 a Madanapalle, cittadina dell’Andhra Pradesh, da una devota famiglia induista, appartenente alla casta dei brahmini; il padre però divenne nel 1882 un seguace della teosofia. Alla morte della madre nel 1906, Krishnamurti fu mandato a scuola ma per il suo scarso rendimento veniva spesso picchiato da maestri e dal padre, fino ad essere considerato intellettualmente scarso o disabile. Nel 1909, a quattrodici anni, il giovane Jiddu fu notato dal sedicente chiaroveggente Charles Webster Leadbeater sulla spiaggia privata della sede della Società Teosofica di Adyar, un sobborgo di Chennai nel Tamil Nadu. Avendo intuito le sue capacità spirituali e intellettuali, la Presidente della Società Teosofica, l'inglese Annie Besant, lo tenne vicino come fosse suo figlio e lo allevò forse coltivando l’idea di utilizzarne le potenzialità come veicolo del pensiero teosofico: in effetti, nell'ambiente teosofico, Krishnamurti finì per essere considerato l'ultimo iniziato vivente, soprannominato addirittura Lord Maitreya, in attesa della venuta del futuro Maitreya.
Nel 1929, però, Krishnamurti rinunciò al ruolo che gli era stato assegnato e sciolse l’Ordine della Stella che contava migliaia di seguaci, restituendo tutto il denaro e le proprietà che erano state donate per questo lavoro; forse vale la pena di citare direttamente parte del discorso pronunciato in occasione dello scioglimento dell’Ordine:
«Ritengo che la Verità sia una terra senza sentieri e che non la si possa raggiungere attraverso nessuna via, nessuna religione, nessuna scuola. Questo è il mio punto di vista, e vi aderisco totalmente e incondizionatamente. Poiché la Verità è illimitata, incondizionata, irraggiungibile attraverso qualunque via, non può venire organizzata, e nessuna organizzazione può essere creata per condurre o costringere gli altri lungo un particolare sentiero. Se lo comprendete, vedrete che è impossibile organizzare una "fede". La fede è qualcosa di assolutamente individuale, e non possiamo e non dobbiamo istituzionalizzarla. Se lo facciamo diventa una cosa morta, cristallizzata; diventa un credo, una setta, religione che viene imposta ad altri (Discorso di scioglimento dell'Ordine della Stella, 3 agosto 1929, Ommen, Paesi Bassi).
A partire da quel momento fino alla sua morte avvenuta all’età di novant’anni, egli non fece che viaggiare per tutto il mondo, spesso parlando a grandi folle e dialogando con gli studenti delle numerose scuole da lui costituite con i finanziamenti ottenuti: preferiva però parlare semplicemente di ciò che riguarda tutti nella vita quotidiana, dei problemi del vivere in una moderna società con tutta la sua violenza e corruzione, della ricerca individuale di sicurezza e felicità e, soprattutto, della necessità per gli esseri umani di liberarsi dal peso interiore della paura, della rabbia, delle offese, del dolore. In tale prospettiva era contro tutti i fattori che dividono gli esseri umani e portano conflitti e guerre: affermava che qualsiasi divisione dualistica (secondo una visione tipica dell'Advaita Vedānta), spesso favorita da motivazioni e interessi identitari, nazionalistici, religiosi è alla base dei conflitti e delle infelicità umane. La sua proposta coerente fu quella di ritornare al semplice specchio delle relazioni, sia con la Natura in cui siamo immersi, sia con gli esseri umani, attraverso le quali ognuno è libero di scoprire il contenuto della propria coscienza comune a tutta l'umanità. Asseriva infine che tale scoperta può essere attuata da ciascun essere umano che sia disposto, nella vita quotidiana, a realizzare una profonda qualità meditativa e spirituale, mediante la percezione diretta, che può portarlo ad elidere la divisione tra colui che osserva e ciò che è osservato.
Ancora ricordo, proprio collegandomi alle considerazioni svolte all’inizio del presente contributo, che Krishnamurti non parlava da maestro o da guru, bensì da amico e i suoi discorsi e discussioni non erano basati su una conoscenza acquisita dai libri, ma su una profonda visione della mente umana e di ciò che è sacro. Il risultato è che egli comunicava sempre un senso di freschezza e precisione, nonostante il suo messaggio rimanesse immutato negli anni, come appare chiaramente anche dalle pagine del Taccuino. Studiosi religiosi e sannyasis avvertirono l’originalità delle sue parole gettare una luce nuova sui concetti tradizionali; discusse con filosofi e scienziati moderni mostrando loro eventualmente i limiti delle loro teorizzazioni. Con i bambini delle scuole da lui fondate era serio ma anche giocoso, privilegiando la dimensione del risveglio spontaneo. Infine suggeriva di camminare con leggerezza su questa terra, senza distruggere noi stessi e l’ambiente; nella sua figura comunicava un profondo senso di rispetto per la Natura.
Nel 1956 Jiddu Krishnamurti incontra, tra gli altri, Vimala Thakar: imprime una svolta irreversibile alla sua crescita intima e la conduce ad abbracciare la vita senza scopo e senza direzione alla quale si sentiva chiamata fin dall’infanzia. Il loro incontro è sottolineato da ogni persona interessata alla spiritualità e viene anche rappresentato nel recente film di Renate Keller “In the Fire of Dancing Stillness” uscito purtroppo nel 2020 e circolato davvero pochissimo.
Questo incontro mi fa venire in mente il grande sinologo Charles Luk che pubblicò un’opera essenziale “Ch’an and Zen teaching, London, 1960” in cui vengono raccolti testi indispensabili a coloro che desiderino approfondire i complessi legami tra India-Cina-Giappone nella genesi della Meditazione. Qui si trova anche una breve ma densa narrazione dal titolo “Il Maestro Ch’an Teh Ch’eng, detto il Monaco della Barca a Hua Ting” che, verso la fine, contiene questa ambigua frase idiomatica della lingua cinese che potrebbe anche significare: “Non puoi sperare di illuminare più di uno o due uomini, perché il Ch’an non è così facile da comprendere, sarà sufficiente illuminare una o due persone per continuare la nostra Via”. E se Krishnamurti fosse riuscire ad illuminare solo una donna?
Ma che cos’è il Taccuino? Esso presenta una forma praticata da sempre nella letteratura e nella ricerca spirituale di ogni tempo e luogo, quella del diario intimo, della semplice annotazione di vissuti ed esperienze. Ad essa Jiddu si dedicò solo due volte nel corso della sua vita, una prima volta nel periodo compreso tra il giugno del1961 e il marzo del 1962, all’età di sessantasette anni, scrivendo di suo pugno queste note che furono raccolte solo dopo la sua morte; riprese questo dialogo intimo nel periodo dal settembre 1973 all’aprile 1975, scrivendo dunque gli ultimi fogli quando aveva ormai ottant’anni, e queste annotazioni furono egualmente raccolte e costituiscono il Diario.
Ovviamente ignoriamo realmente le circostanze che spinsero l’uomo a intraprendere questa pratica, ma occorre sottolineare questi due elementi essenziali. Il primo è che non si tratta in nessun modo di una sorta di autobiografia spirituale, ma piuttosto di quotidiano esercizio di consapevolezza, originato da una profonda esigenza interiore e non certo pensato in relazione a una possibile pubblicazione. In questo addestramento l’essere umano che fu anche il Maestro conosciuto da molti incontra giorno per giorno se stesso e, direi, soprattutto il proprio non sé. Il secondo elemento è la natura conclusiva di questa esperienza: a sessantasette anni e ottant’anni, nell’età anziana della vita, nell’epoca che ogni ricercatore autentico riconosce come quella del raccolto spirituale, Jiddu sente l’esigenza improrogabile di dare voce a questo dialogo intimo. Taccuino e Diario (ma relativamente al Diario mi limito solo, in questa sede, al presente accenno) sono un unicum nella scrittura di Krishnamurti che dedicò la parte matura della propria esistenza a incontrare in assoluta semplicità altri esseri umani.
Parlare intorno al Taccuino è ovviamente impossibile quanto inutile: come ogni esperienza spirituale autentica il Taccuino può semplicemente essere letto, e questo è ovviamente l’unico invito che mi sentirei di rivolgere a chi si trova a leggere questa mia breve nota. Chiarirei subito, come piccolo aiuto a chi legge, che il Taccuino è frutto di una scrittura giornaliera (Jiddu annota sempre il giorno e il luogo in cui scrive) e, mi permetto solo di aggiungere, ricorsiva e ripetitiva, giacché segue sempre il medesimo andamento: esprimendosi sempre in terza persona, l’uomo inizia solo con osservare tutto quanto lo circonda, qui e ora, senza esprimere nessun giudizio, ma con una immedesimazione assoluta che testimoniano una perfetta armonia con la Natura in cui si trova immerso; improvvisamente, egli passa ad esprimere qualche riflessione, qualche contenuto che potremmo anche considerare filosofico o sapienziale, con assoluta naturalezza, seguendo il filo segreto di un pensare intimo e libero da ogni schema. Questo percorso si ripete in ogni annotazione, con la medesima attenzione e precisione, senza tuttavia mai arrivare a proporre un contenuto, un credo definitivi, oppure, se si comprende veramente il senso di questa espressione, come una continua variazione musicale intorno al medesimo tema.
Al termine di queste brevi considerazioni non rimane che proporre la lettura di un estratto del testo: solo poche frasi, isolate dall’andamento intimo e colloquiale che le note presentano, al fine però di evidenziare lo svolgimento sottile che avvolge colui che legge in un’armonia e in una pace interiore assolute, andamento in cui però non appare mai un tono discorsivo o dimostrativo, ma sempre una segreta cadenza intuitiva e rapsodica.
“Era una serata calmissima, le nuvole se n’erano andate e stavano raccogliendosi attorno al sole che tramontava…e come sempre le colline se ne stavano solitarie e distaccate, lontane da qualsiasi agitazione…e l’oscurità si richiudeva su di esse…il rimodellare e ridipingere le mura della prigione sembra darci una tale soddisfazione che non abbattiamo mai le mura…questa eterna riforma è l’eterno dolore…La libertà dal noto, il rifiuto esplosivo, non quello della reazione, mette fine al dolore, e a questo punto l’amore è qualcosa che il pensiero e il sentimento non riescono a misurare” (Krishnamurti, Taccuino, 16 novembre 1961, Bombay).
(Sergio Gandini)
Vorrei anche confessare le circostanze particolari di questo incontro. Gli ultimi discorsi tenuti dal Maestro furono quelli di Saanen nel 1985: avrei potuto conoscere di persona lui come feci, nel corso degli anni, con altri maestri. Non fu così – ma da questa che molti potrebbero interpretare solo come una circostanza contingente ho personalmente finito col ricavare la profonda convinzione che questo incontro personale non mi era destinato e, infine, è stato un bene che non sia avvenuto, giacché esiste sempre il rischio che un incontro effettivo crei una dipendenza profonda dalla figura del Maestro.
Per anni però ho avuto questo rimpianto: cercando di aggirarlo in seguito ho letto svariati libri riferiti a Krishnamurti, che sono, in sostanza, trascrizioni dei suoi discorsi pubblici, più o meno redatti con misurata fedeltà, ho anche guardato svariate registrazioni trasferite ormai su dvd, molte sono disponibili sul sito della Fondazione Krishnamurti. Le ho esaminate con profonda emozione: osservare quest’uomo entrare in una sala, in assoluta umiltà e sedersi su una semplice sedia, senza essere preceduto da un corteo di monaci e monache, in assoluta solitudine, e parlare semplicemente di fronte ad altri, come farebbero due persone sedute al tavolino di un bar, costituisce di per sé un grande insegnamento.
Eppure il mio incontro è avvenuto, in un modo in apparenza assolutamente casuale. Una decina di anni fa, quando ormai avevo intrapreso la mia ricerca spirituale da tempo, e osservavo i volumi presenti in una libreria, la mia attenzione fu attratta da un’opera di Krishnamurti – e sottolineo “di”, in quanto non si trattava di una raccolta dei suoi discorsi (simile a quelli che lessi in seguito) ma, appunto, dei taccuini tenuti per un periodo di circa un anno dall’uomo già impegnato a vagare in paesi di ogni parte della terra per diffondere i suoi insegnamenti. O forse dovrei dire per tenere i suoi incontri pubblici? Una conferenza di Krishnamurti infatti doveva essere veramente un’esperienza totale, anche se non ho mai avuto la fortuna di assistervi, almeno a giudicare dalla visione, come ho appena ricordato, dei filmati ricavati da esse.
Chi era il Maestro Krishnamurti è qualcosa di abbastanza noto a chi pratichi la ricerca spirituale, per cui volentieri mi limito a qualche precisazione necessaria, senza appesantire troppo il contenuto di questo breve contributo. Forse la modalità più rispettosa, efficace ed onesta di introdurre la figura di Krishnamurti è lasciarlo parlare direttamente (queste parole si trovano d’altronde sul sito ufficiale della Fondazione che si ispira al suo magistero):
“Amici, non vi preoccupate di chi io sia; non lo saprete mai.Non voglio che accettiate nulla di ciò che dico. Non voglio nulla da nessuno di voi, non desidero la popolarità, non voglio la vostra adulazione, non voglio che mi seguiate. Dato che sono innamorato della vita, non voglio nulla. Queste cose non hanno molta importanza; ha importanza il fatto che voi obbedite e che permettete al vostro giudizio di essere pervertito dall’autorità. Il vostro giudizio, la vostra mente, il vostro affetto, la vostra vita, sono pervertiti da cose che non hanno valore, e proprio in questo risiede il dolore”. J. Krishnamurti (dal sito www.kinfonet.org).
Aggiungo qualche precisazione di carattere biografico: Jiddu Krishnamurti era nato l’11 maggio 1895 a Madanapalle, cittadina dell’Andhra Pradesh, da una devota famiglia induista, appartenente alla casta dei brahmini; il padre però divenne nel 1882 un seguace della teosofia. Alla morte della madre nel 1906, Krishnamurti fu mandato a scuola ma per il suo scarso rendimento veniva spesso picchiato da maestri e dal padre, fino ad essere considerato intellettualmente scarso o disabile. Nel 1909, a quattrodici anni, il giovane Jiddu fu notato dal sedicente chiaroveggente Charles Webster Leadbeater sulla spiaggia privata della sede della Società Teosofica di Adyar, un sobborgo di Chennai nel Tamil Nadu. Avendo intuito le sue capacità spirituali e intellettuali, la Presidente della Società Teosofica, l'inglese Annie Besant, lo tenne vicino come fosse suo figlio e lo allevò forse coltivando l’idea di utilizzarne le potenzialità come veicolo del pensiero teosofico: in effetti, nell'ambiente teosofico, Krishnamurti finì per essere considerato l'ultimo iniziato vivente, soprannominato addirittura Lord Maitreya, in attesa della venuta del futuro Maitreya.
Nel 1929, però, Krishnamurti rinunciò al ruolo che gli era stato assegnato e sciolse l’Ordine della Stella che contava migliaia di seguaci, restituendo tutto il denaro e le proprietà che erano state donate per questo lavoro; forse vale la pena di citare direttamente parte del discorso pronunciato in occasione dello scioglimento dell’Ordine:
«Ritengo che la Verità sia una terra senza sentieri e che non la si possa raggiungere attraverso nessuna via, nessuna religione, nessuna scuola. Questo è il mio punto di vista, e vi aderisco totalmente e incondizionatamente. Poiché la Verità è illimitata, incondizionata, irraggiungibile attraverso qualunque via, non può venire organizzata, e nessuna organizzazione può essere creata per condurre o costringere gli altri lungo un particolare sentiero. Se lo comprendete, vedrete che è impossibile organizzare una "fede". La fede è qualcosa di assolutamente individuale, e non possiamo e non dobbiamo istituzionalizzarla. Se lo facciamo diventa una cosa morta, cristallizzata; diventa un credo, una setta, religione che viene imposta ad altri (Discorso di scioglimento dell'Ordine della Stella, 3 agosto 1929, Ommen, Paesi Bassi).
A partire da quel momento fino alla sua morte avvenuta all’età di novant’anni, egli non fece che viaggiare per tutto il mondo, spesso parlando a grandi folle e dialogando con gli studenti delle numerose scuole da lui costituite con i finanziamenti ottenuti: preferiva però parlare semplicemente di ciò che riguarda tutti nella vita quotidiana, dei problemi del vivere in una moderna società con tutta la sua violenza e corruzione, della ricerca individuale di sicurezza e felicità e, soprattutto, della necessità per gli esseri umani di liberarsi dal peso interiore della paura, della rabbia, delle offese, del dolore. In tale prospettiva era contro tutti i fattori che dividono gli esseri umani e portano conflitti e guerre: affermava che qualsiasi divisione dualistica (secondo una visione tipica dell'Advaita Vedānta), spesso favorita da motivazioni e interessi identitari, nazionalistici, religiosi è alla base dei conflitti e delle infelicità umane. La sua proposta coerente fu quella di ritornare al semplice specchio delle relazioni, sia con la Natura in cui siamo immersi, sia con gli esseri umani, attraverso le quali ognuno è libero di scoprire il contenuto della propria coscienza comune a tutta l'umanità. Asseriva infine che tale scoperta può essere attuata da ciascun essere umano che sia disposto, nella vita quotidiana, a realizzare una profonda qualità meditativa e spirituale, mediante la percezione diretta, che può portarlo ad elidere la divisione tra colui che osserva e ciò che è osservato.
Ancora ricordo, proprio collegandomi alle considerazioni svolte all’inizio del presente contributo, che Krishnamurti non parlava da maestro o da guru, bensì da amico e i suoi discorsi e discussioni non erano basati su una conoscenza acquisita dai libri, ma su una profonda visione della mente umana e di ciò che è sacro. Il risultato è che egli comunicava sempre un senso di freschezza e precisione, nonostante il suo messaggio rimanesse immutato negli anni, come appare chiaramente anche dalle pagine del Taccuino. Studiosi religiosi e sannyasis avvertirono l’originalità delle sue parole gettare una luce nuova sui concetti tradizionali; discusse con filosofi e scienziati moderni mostrando loro eventualmente i limiti delle loro teorizzazioni. Con i bambini delle scuole da lui fondate era serio ma anche giocoso, privilegiando la dimensione del risveglio spontaneo. Infine suggeriva di camminare con leggerezza su questa terra, senza distruggere noi stessi e l’ambiente; nella sua figura comunicava un profondo senso di rispetto per la Natura.
Nel 1956 Jiddu Krishnamurti incontra, tra gli altri, Vimala Thakar: imprime una svolta irreversibile alla sua crescita intima e la conduce ad abbracciare la vita senza scopo e senza direzione alla quale si sentiva chiamata fin dall’infanzia. Il loro incontro è sottolineato da ogni persona interessata alla spiritualità e viene anche rappresentato nel recente film di Renate Keller “In the Fire of Dancing Stillness” uscito purtroppo nel 2020 e circolato davvero pochissimo.
Questo incontro mi fa venire in mente il grande sinologo Charles Luk che pubblicò un’opera essenziale “Ch’an and Zen teaching, London, 1960” in cui vengono raccolti testi indispensabili a coloro che desiderino approfondire i complessi legami tra India-Cina-Giappone nella genesi della Meditazione. Qui si trova anche una breve ma densa narrazione dal titolo “Il Maestro Ch’an Teh Ch’eng, detto il Monaco della Barca a Hua Ting” che, verso la fine, contiene questa ambigua frase idiomatica della lingua cinese che potrebbe anche significare: “Non puoi sperare di illuminare più di uno o due uomini, perché il Ch’an non è così facile da comprendere, sarà sufficiente illuminare una o due persone per continuare la nostra Via”. E se Krishnamurti fosse riuscire ad illuminare solo una donna?
Ma che cos’è il Taccuino? Esso presenta una forma praticata da sempre nella letteratura e nella ricerca spirituale di ogni tempo e luogo, quella del diario intimo, della semplice annotazione di vissuti ed esperienze. Ad essa Jiddu si dedicò solo due volte nel corso della sua vita, una prima volta nel periodo compreso tra il giugno del1961 e il marzo del 1962, all’età di sessantasette anni, scrivendo di suo pugno queste note che furono raccolte solo dopo la sua morte; riprese questo dialogo intimo nel periodo dal settembre 1973 all’aprile 1975, scrivendo dunque gli ultimi fogli quando aveva ormai ottant’anni, e queste annotazioni furono egualmente raccolte e costituiscono il Diario.
Ovviamente ignoriamo realmente le circostanze che spinsero l’uomo a intraprendere questa pratica, ma occorre sottolineare questi due elementi essenziali. Il primo è che non si tratta in nessun modo di una sorta di autobiografia spirituale, ma piuttosto di quotidiano esercizio di consapevolezza, originato da una profonda esigenza interiore e non certo pensato in relazione a una possibile pubblicazione. In questo addestramento l’essere umano che fu anche il Maestro conosciuto da molti incontra giorno per giorno se stesso e, direi, soprattutto il proprio non sé. Il secondo elemento è la natura conclusiva di questa esperienza: a sessantasette anni e ottant’anni, nell’età anziana della vita, nell’epoca che ogni ricercatore autentico riconosce come quella del raccolto spirituale, Jiddu sente l’esigenza improrogabile di dare voce a questo dialogo intimo. Taccuino e Diario (ma relativamente al Diario mi limito solo, in questa sede, al presente accenno) sono un unicum nella scrittura di Krishnamurti che dedicò la parte matura della propria esistenza a incontrare in assoluta semplicità altri esseri umani.
Parlare intorno al Taccuino è ovviamente impossibile quanto inutile: come ogni esperienza spirituale autentica il Taccuino può semplicemente essere letto, e questo è ovviamente l’unico invito che mi sentirei di rivolgere a chi si trova a leggere questa mia breve nota. Chiarirei subito, come piccolo aiuto a chi legge, che il Taccuino è frutto di una scrittura giornaliera (Jiddu annota sempre il giorno e il luogo in cui scrive) e, mi permetto solo di aggiungere, ricorsiva e ripetitiva, giacché segue sempre il medesimo andamento: esprimendosi sempre in terza persona, l’uomo inizia solo con osservare tutto quanto lo circonda, qui e ora, senza esprimere nessun giudizio, ma con una immedesimazione assoluta che testimoniano una perfetta armonia con la Natura in cui si trova immerso; improvvisamente, egli passa ad esprimere qualche riflessione, qualche contenuto che potremmo anche considerare filosofico o sapienziale, con assoluta naturalezza, seguendo il filo segreto di un pensare intimo e libero da ogni schema. Questo percorso si ripete in ogni annotazione, con la medesima attenzione e precisione, senza tuttavia mai arrivare a proporre un contenuto, un credo definitivi, oppure, se si comprende veramente il senso di questa espressione, come una continua variazione musicale intorno al medesimo tema.
Al termine di queste brevi considerazioni non rimane che proporre la lettura di un estratto del testo: solo poche frasi, isolate dall’andamento intimo e colloquiale che le note presentano, al fine però di evidenziare lo svolgimento sottile che avvolge colui che legge in un’armonia e in una pace interiore assolute, andamento in cui però non appare mai un tono discorsivo o dimostrativo, ma sempre una segreta cadenza intuitiva e rapsodica.
“Era una serata calmissima, le nuvole se n’erano andate e stavano raccogliendosi attorno al sole che tramontava…e come sempre le colline se ne stavano solitarie e distaccate, lontane da qualsiasi agitazione…e l’oscurità si richiudeva su di esse…il rimodellare e ridipingere le mura della prigione sembra darci una tale soddisfazione che non abbattiamo mai le mura…questa eterna riforma è l’eterno dolore…La libertà dal noto, il rifiuto esplosivo, non quello della reazione, mette fine al dolore, e a questo punto l’amore è qualcosa che il pensiero e il sentimento non riescono a misurare” (Krishnamurti, Taccuino, 16 novembre 1961, Bombay).
(Sergio Gandini)