Letture
Leo Spitzer e la sua armonia del mondo
Tutti avranno sentito il geniale inizio della quinta di Beethoven che contiene due volte la figura detta «del destino che bussa alla porta», ossia il famoso sol-sol-sol-Mi, tre note brevi in levare e una nota lunga in battere, seguito dallo stesso materiale un tono sotto, cioè fa-fa-fa-Re, ancora tre note brevi in levare e una nota lunga in battere, questa volta però di durata doppia rispetto alla nota lunga di prima. Forse proprio a causa della intrinseca vocazione musicale del saggio di Spitzer che inizio a esaminare mi viene spontaneo questo attacco, perché considero la breve introduzione di sole quattro pagine un incipit davvero sorprendente: |
"È necessaria, insomma, una «Stimmungsgeschichte» della parola Stimmung. Questo sviluppo storico emergerà, spero gradatamente, ma spontaneamente dal mosaico di testi ai quali il mio testo dovrà servire soprattutto di commento; con ciò mi sembra garantita una coerenza con il tessuto di associazioni verbali e concettuali sparsi nei secoli. “Avete un testo?” chiedeva sempre il positivista Fustel de Coulanges agli allievi che gli proponevano come storico un dato. Lo studioso di semantica storica deve chiedere: “Avete molti testi?”, perché solo avendone a disposizione una grande quantità se ne potrà mettere in evidenza lo schema ricorrente. Mi rendo conto che l’arte medievale dell’arazzo (rimessa in atto da Péguy in letteratura), con la quale si può porre in rilievo un motivo costante pur dentro al labirinto d’intricate ramificazioni, fornirebbe un metodo di trattazione più adatto che non una scorsa lineare delle parole di lingua” (L. Spitzer, L’armonia del mondo. Storia semantica di un’idea, trad. it. di V. Poggi, Bologna, il Mulino, 2006, p. 3-4).
In sole quattro pagine, che mi dispiace di non poter citare integralmente, il grande studioso riesce a donarci una lezione magistrale di linguistica, critica storica, psicoanalisi, semantica ma, soprattutto, del metodo dell’analisi a trecentosessanta gradi di cui ha necessità la nuove ermeneutica del Novecento:
“Nel presente studio mi propongo di ricostruire, attraverso le sue varie fasi, la base su cui si formò in Occidente una parola tedesca: il concetto di armonia universale racchiuso nel termine Stimmung. A tale scopo occorre rifare la storia di tutto un «campo semantico», nei suoi sviluppi in epoche e letterature diverse…poi, esaminare il nucleo semantico e le sfumature di ordine sentimentale con le relative variazioni e fluttuazioni” (p. 3).
Difficile pensare a definire con maggior chiarezza un compito così ambizioso; il punto è che, sorprendentemente, Leo Spitzer vi mantiene fede, con eleganza estrema e ricorrendo a una miniera inesauribile di informazioni storiografiche e filosofiche cui continua ad attingere senza lasciare al lettore quasi un attimo di respiro.
Eppure il libro di Spizter, a prima vista, non incute timori reverenziali, si tratta solo di 270 pagine: appena si entra nel testo però un dato subito colpisce, 150 pagine di testo suddivise in cinque capitoli, accompagnate da 120 pagine di note ovviamente redatte a caratteri più piccoli. Offro subito un modesto ma, a mio avviso utile, consiglio: è bene procedere a una prima lettura esplorativa, consigliabile ai non specialisti, escludendo quindi le note, per seguire il complesso discorso di Spitzer senza interruzioni o sovrabbondanza di rimandi. In realtà le note da sole costituiscono un secondo libro a sé che Spitzer non poteva esimersi dallo scrivere per superiore onestà intellettuale, tale è la ricchezza delle vene cui può attingere in questa miniera costituita dalle conoscenze in suo possesso; tuttavia comprende che anche il lettore motivato potrebbe fare fatica a seguirlo in questa analisi interminabile e trova l’espediente giusto per aiutarlo nella lettura. Occorre dunque posticipare la lettura delle note a un momento successivo e non cedere alla tentazione di scorrerle durante la prima lettura del testo per non rischiare di perdersi! Dopo questa introduzione che, come la musica di Beethoven, nutriva il desiderio di portare il lettore subito nel cuore del suo mondo, è bene raccontare brevemente chi era Leo Spitzer.
Aveva ricevuto una formazione positivista, che gli permise di inserirsi nella corrente idealistica di Croce e Vossler; nel 1910 aveva pubblicato il saggio “La formazione delle parole come mezzo stilistico”, nel quale sosteneva l'importanza del momento creativo della lingua, portando come esempio l’opera di Rabelais. La sua vita sarebbe trascorsa come una normale esistenza da professore universitario presso a Vienna ma, in seguito alle persecuzioni contro gli ebrei, fu costretto a rifugiarsi in Turchia e poi negli Stati Uniti dove poté continuare l'insegnamento.
Allora mi sento di rivolgere al lettore questa domanda: che cosa doveva significare, per un intellettuale come Spitzer, interrogarsi sui quesiti della filologia nel pieno imperversare della seconda guerra mondiale, prima in fuga dalla Germania nazista a Istanbul, nel 1933, e poi, nel 1936, negli Stati Uniti?
Mi permetto di suggerire che se Spitzer si stava interrogando come oggetto di studio sulle due principali famiglie verbali costituite da «temperare e accordare», dopo avere accertato con tutta la competenza del filologo come questa concezione di armonia rappresenti il risultato al quale ha condotto la millenaria cultura europea, lo fece per poter dedurre da essa questa essenziale fondamentale acquisizione, una superiore luce nella quale auspicare l’unità e la solidarietà delle culture europee e non solo, in quanto modalità d’espressione dell’armonia universale.
Mi sento dunque di affermare che l’eco degli avvenimenti storici raggiunge anche lo studioso di metafisica come quello di filologia, raggiunge ogni studioso forse, ma alcuni risultano più preparati di altri e il rigore quasi ascetico al quale li ha abituati lo studio disinteressato della propria disciplina permette loro di offrire delle risposte autentiche, di diffondere delle parole di reale apertura, non solo culturale ma esistenziale, che possono portare del bene a tutti gli esseri umani.
D’altronde si trattava di una tendenza ben presente nella cultura del tempo, basta pensare alla finalità complessiva degli studi condotti da di Erich Auerbach (Berlino 1892 - New Haven, Connecticut, 1957) e che approdano al concetto di mimesis, termine assunto direttamente dal greco ma che, a partire dalle sue ricerche, entrerà nell’uso comune degli studiosi; in questo caso il campo d’indagine si estende dalla Genesi e da Omero fino al modernismo di Virginia Woolf e Marcel Proust.
In sintesi, Spitzer elaborò un originale metodo che si basa sull'unità tra critica letteraria e analisi linguistica, che nasce da una lettura precisa e attenta dei testi di scrittori di epoche diverse dei quali analizza le caratteristiche formali e linguistiche fino ad arrivare a una complessa ermeneutica unitaria relativa non solo al singolo autore considerato, ma capace di collocare ogni autore all’interno della rete di relazioni concettuali presenti nella globalità di ogni epoca storica. Ma insistette anche sulla necessità di un progressivo allontanamento dall'uso linguistico normale, giustificandolo in questo modo: ogni deviazione dalla norma linguistica può divenire indizio di uno stato psichico inconsueto e permettere di spiare lo stato d'animo dell'autore. Si tratta certo di una sintesi originale quanto audace dei principi della ricerca psicoanalitica e dello strutturalismo.
Lasciamo dunque al lettore di intraprendere la sorprendente avventura culturale e intellettuale che Spitzer propone: il suo sguardo si volge dalle origini della cultura occidentale (i pitagorici, gli autori greci, latini), per concentrarsi poi sul cuore del cristianesimo, in particolare analizzando il binomio Ambrogio-Agostino con alcune intuizioni davvero straordinarie, che dispiacerebbe dover riassumere, per cui preferisco cedere la parola di nuovo direttamente al Nostro:
“Dovunque i cristiani vivranno nella cella della meditazione (Pascal, Kierkegaard, Rilke), risuonerà la “chiara unica arpa dai diversi toni” di Agostino; al contrario, dovunque si spalanca il “grande teatro del mondo”, nell’arte barocca o romantica (Calderón, Hofmannsthal, Wagner, l’opera in genera) ritroveremo i cori e la sinestesia di Ambrogio” (p. 35). E come non rilevare questa folgorante osservazione sempre relativa ad Ambrogio: “S’è visto come per Ambrogio la natura “applaudisse” agli inni come fa il pubblico a una esecuzione teatrale…la danza rituale dei preti e, di conseguenza, il responsorio ritmico da parte del popolo, sono altrettanto logici nelle interpretazioni antico-cristiane dell’armonia universale, quanto lo è la χορεία nella platonica musica delle sfere” (p. 29).
Al contrario, Spitzer non è certo tenero con Tommaso, come appare da questo semplice inciso: “…Tommaso d’Aquino, il quale condannò post mortem Eriugena, non aveva la sensibilità di un Agostino per l’armonia del mondo e attribuiva un carattere sacro alla musica solo in quanto entrava nella liturgia; come aristotelico, egli riflette il mondo com’è, piuttosto che cercare di ricrearlo per farne un tutto unico (p. 81).
Seguitando approfondisce la lirica dei Trovatori e, ovviamente Dante e Petrarca; fino ad arrivare alla modernità con Shakespeare, Tasso, Milton e Goethe.
Forse il vero climax della sua parafrasi ermeneutica Spitzer lo raggiunge proprio commentando la poesia At a Solemn Music di Milton: “Questa sua poesia, di immortale bellezza, è bella nel quadro di una tradizione come tutta la grande poesia, e rappresenta una sintesi della tradizione della medesima; essa fonde insieme le voci di tutte le civiltà (greco-romana, ebraica, cristiana medievale) nelle quali la musica è parte integrante del culto religioso, e che costituiscono elementi essenziali della civiltà nostra. Essa rappresenta di per sé, come direbbe Novalis, un fatto culturale “cristiano o europeo”.(p. 116).
Al termine della lettura del suo libro, come non cedere alla tentazione di mettere subito alla prova la fecondità del suo metodo? A chi si interessa di poesia italiana del novecento, per esempio, potrebbe tornare spontaneamente alla memoria uno dei testi d’apertura di Ossi di seppia di Eugenio Montale:
… il vento che nasce e muore
nell’ora che lenta s’annera
suonasse te pure stasera
scordato strumento
cuore.
Leggendo tra le suggestioni del testo non è difficile cogliere come nella parola finale si celi un duplice rimando a cor, cordis “cuore”, ma altresì a chorda, chordae “corda” e, forse, da qui risalire fino all’idea celata nel termine concordia, quella di un consenso di cuori, pace, ordine e, infine, parafrasando evidentemente le parole del Nostro, “un’armonia di corde, l’armonia universale”.
È evidente che in Montale, autore del primo novecento, deflagri già il disagio esistenziale dell’Io lirico nei confronti del mondo che lo circonda, e quindi l’ineluttabile disarmonia. Spitzer, a ulteriore conferma della fecondità del suo approccio ermeneutico, ha comunque ben presente anche questa situazione, giacché anche la disarmonia, in ultima analisi, è solo un caso limite dell’armonia stessa (proprio come la voce dell’ateo non fa che affermare indirettamente la necessità dell’esistenza di Dio), rientrando nel campo lessicale della concordia che riunisce in se stessa entrambi i poli di significato ricostruiti nel suo studio, come egli stesso ci conferma, riferendosi alla poesia trobadorica, in uno dei passaggi forse più suggestivi di un saggio pur così ricco: “…anche nell’opera d’arte in apparenza disordinata doveva esserci armonia, cioè quella disarmonia voluta dall’armonia e sottomessa ad essa…” (p. 100) .
A questo punto non posso non compiere questo salto pindarico e citare direttamente il celeberrimo frammento di Eraclito:
“τὸ ἀντίξουν συμφέρον καὶ ἐκ τῶν διαφερόντων καλλίστην ἁρμονίαν (καὶ πάντα κατ ‘ἔριν γίνεσθα)”, che è possibile rendere con “L’opposto concorde, e dai discordi bellissima armonia, e tutte le cose divengono secondo contesa”. (Ἡράκλειτος ὁ Ἐφέσιος, frammento 8 in Diels-Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker)
Non dimentichiamo il titolo del testo di Spitzer: per lui l’armonia del mondo, come già avevano perfettamente colto i Pitagorici e Platone, si esprime naturalmente mediante la musica, per cui egli può coerentemente affermare: “…ascoltando la musica il nostro subcosciente reagisce ai numeri, anche se l’anima di chi ascolta ignora le proprie (inconsce) operazioni aritmetiche” (p. 41)..
Se forse si siamo lasciati trascinare troppo dalla musica torniamo pure ai passaggi logici presenti nel testo, anche se siamo costretti a sintetizzarli in modo elementare: “Dal punto di vista moderno questi sono bisticci paraetimologici, ma per la linguistica medievale come per quella antica, dato che dietro alla concordanza verbale esse cercavano quella sostanziale e vedevano riflessa la plurivalenza del creato in quella delle parole, l’assonanza fonetica costituiva una rivelazione del vero έτυμον” (p. 94).
L’antica famiglia verbale, incentrata su un dato nucleo emotivo, genera diverse ramificazioni moderne con nuclei emotivi particolari, cosicché non è possibile spiegare una parola ricorrendo a un determinato etimo. Abbiamo per così dire, un sistema di rotaie che s’irradiano da un centro, che si ramificano in nuovi sistemi, (fatti dello stesso materiale ferroviario) con centri nuovi… Ci troviamo di fronte a un fenomeno semantico degno di nota: per la parola tedesca Stimmung dobbiamo tener conto non di un solo etimo, come avviene per solito (lat. Pater >fr.père), bensì di una mescolanza, di un tessuto di etimi diversi, che si sono prestati a vicenda parte dei rispettivi tessuti semantici, sicché la particolare parola moderna Stimmung riflette semanticamente ora l’uno ora l’altro etimo; altre parole moderne, come fr. Accord, ingl. Temper, rivelano la medesima tessitura di Stimmung, pur differendone nei particolari” (p. 81).
Purtroppo dobbiamo accontentarci di queste brevi ma pregnanti citazioni, alle quali ne aggiungerò ancora solo tre, perché vorrei che il lettore capisse immediatamente lo stile così particolare e suggestivo di questo studioso, che unisce a una straordinaria competenza culturale sia la sensibilità del religioso sia la capacità di entusiasmarsi per l’oggetto del sapere, cosicché tali doti emergono in un passaggio apparentemente casuale del testo che funge da raccordo fra le diverse tematiche in modo del tutto naturale: “Solo un mondo estraniato da Dio può scorgere un abisso fra il mondo animale e quello umano; allo stesso modo non esiste conflitto tra il fattore emotivo e quello intellettuale; l’amore vero non può che seguire la retta dottrina, l’amore vero è spontaneo e saggio al tempo stesso” (p. 64).
Il riferimento all’amore mi consente un’altra apparente digressione che, al contrario, non fa che riportare all’idea centrale del saggio, quella della armonia musicale del mondo. Infatti, come Shakespeare afferma di Cassio, nel Giulio Cesare, I, 2, un uomo che non dorme, né scherza, né sorride, ma si limita a pensare, leggere, osservare è un uomo senz’altro pericoloso, poiché in lui “non esiste l’equilibrio temperato, un uomo non redento dalla musica” (p. 110)
A conclusione della mia breve rassegna, che non desidera essere niente di più che un invito a immergersi – invito quanto mai attuale in questi tempi di riscaldamento globale e aridità erudita, inflazionata dal gusto di proporre citazioni estrapolate dal loro contesto e che quindi dimostrano tutto e il contrario di tutto, in modo del tutto arbitrario, cioè esattamente il contrario del sommo rispetto che Spitzer dimostra quando cerca di interpretare un testo – nel mare ermeneutico che ha preparato per noi, e vista la destinazione specifica del presente saggio, è bene concludere con questa citazione:
“Nella Histoire du peuple d’Israël Renan definisce caratteristico degli ebrei lo spirito d’interiore meditazione: “Tale spirito si riassume nelle diverse sfumature della parola siah, che significa al tempo stesso meditare, parlare sottovoce, parlare con se stessi, intrattenersi con Dio, perdersi nelle vaghe fantasticherie dell’infinito”, senz’altro suono che quello dell’anima” (p. 28).
Lascio a ciascuno di rispondere come meglio crede alla mia domanda: e per me, che cosa è per me lo spirito d’interiore meditazione?
(Sergio Gandini)
In sole quattro pagine, che mi dispiace di non poter citare integralmente, il grande studioso riesce a donarci una lezione magistrale di linguistica, critica storica, psicoanalisi, semantica ma, soprattutto, del metodo dell’analisi a trecentosessanta gradi di cui ha necessità la nuove ermeneutica del Novecento:
“Nel presente studio mi propongo di ricostruire, attraverso le sue varie fasi, la base su cui si formò in Occidente una parola tedesca: il concetto di armonia universale racchiuso nel termine Stimmung. A tale scopo occorre rifare la storia di tutto un «campo semantico», nei suoi sviluppi in epoche e letterature diverse…poi, esaminare il nucleo semantico e le sfumature di ordine sentimentale con le relative variazioni e fluttuazioni” (p. 3).
Difficile pensare a definire con maggior chiarezza un compito così ambizioso; il punto è che, sorprendentemente, Leo Spitzer vi mantiene fede, con eleganza estrema e ricorrendo a una miniera inesauribile di informazioni storiografiche e filosofiche cui continua ad attingere senza lasciare al lettore quasi un attimo di respiro.
Eppure il libro di Spizter, a prima vista, non incute timori reverenziali, si tratta solo di 270 pagine: appena si entra nel testo però un dato subito colpisce, 150 pagine di testo suddivise in cinque capitoli, accompagnate da 120 pagine di note ovviamente redatte a caratteri più piccoli. Offro subito un modesto ma, a mio avviso utile, consiglio: è bene procedere a una prima lettura esplorativa, consigliabile ai non specialisti, escludendo quindi le note, per seguire il complesso discorso di Spitzer senza interruzioni o sovrabbondanza di rimandi. In realtà le note da sole costituiscono un secondo libro a sé che Spitzer non poteva esimersi dallo scrivere per superiore onestà intellettuale, tale è la ricchezza delle vene cui può attingere in questa miniera costituita dalle conoscenze in suo possesso; tuttavia comprende che anche il lettore motivato potrebbe fare fatica a seguirlo in questa analisi interminabile e trova l’espediente giusto per aiutarlo nella lettura. Occorre dunque posticipare la lettura delle note a un momento successivo e non cedere alla tentazione di scorrerle durante la prima lettura del testo per non rischiare di perdersi! Dopo questa introduzione che, come la musica di Beethoven, nutriva il desiderio di portare il lettore subito nel cuore del suo mondo, è bene raccontare brevemente chi era Leo Spitzer.
Aveva ricevuto una formazione positivista, che gli permise di inserirsi nella corrente idealistica di Croce e Vossler; nel 1910 aveva pubblicato il saggio “La formazione delle parole come mezzo stilistico”, nel quale sosteneva l'importanza del momento creativo della lingua, portando come esempio l’opera di Rabelais. La sua vita sarebbe trascorsa come una normale esistenza da professore universitario presso a Vienna ma, in seguito alle persecuzioni contro gli ebrei, fu costretto a rifugiarsi in Turchia e poi negli Stati Uniti dove poté continuare l'insegnamento.
Allora mi sento di rivolgere al lettore questa domanda: che cosa doveva significare, per un intellettuale come Spitzer, interrogarsi sui quesiti della filologia nel pieno imperversare della seconda guerra mondiale, prima in fuga dalla Germania nazista a Istanbul, nel 1933, e poi, nel 1936, negli Stati Uniti?
Mi permetto di suggerire che se Spitzer si stava interrogando come oggetto di studio sulle due principali famiglie verbali costituite da «temperare e accordare», dopo avere accertato con tutta la competenza del filologo come questa concezione di armonia rappresenti il risultato al quale ha condotto la millenaria cultura europea, lo fece per poter dedurre da essa questa essenziale fondamentale acquisizione, una superiore luce nella quale auspicare l’unità e la solidarietà delle culture europee e non solo, in quanto modalità d’espressione dell’armonia universale.
Mi sento dunque di affermare che l’eco degli avvenimenti storici raggiunge anche lo studioso di metafisica come quello di filologia, raggiunge ogni studioso forse, ma alcuni risultano più preparati di altri e il rigore quasi ascetico al quale li ha abituati lo studio disinteressato della propria disciplina permette loro di offrire delle risposte autentiche, di diffondere delle parole di reale apertura, non solo culturale ma esistenziale, che possono portare del bene a tutti gli esseri umani.
D’altronde si trattava di una tendenza ben presente nella cultura del tempo, basta pensare alla finalità complessiva degli studi condotti da di Erich Auerbach (Berlino 1892 - New Haven, Connecticut, 1957) e che approdano al concetto di mimesis, termine assunto direttamente dal greco ma che, a partire dalle sue ricerche, entrerà nell’uso comune degli studiosi; in questo caso il campo d’indagine si estende dalla Genesi e da Omero fino al modernismo di Virginia Woolf e Marcel Proust.
In sintesi, Spitzer elaborò un originale metodo che si basa sull'unità tra critica letteraria e analisi linguistica, che nasce da una lettura precisa e attenta dei testi di scrittori di epoche diverse dei quali analizza le caratteristiche formali e linguistiche fino ad arrivare a una complessa ermeneutica unitaria relativa non solo al singolo autore considerato, ma capace di collocare ogni autore all’interno della rete di relazioni concettuali presenti nella globalità di ogni epoca storica. Ma insistette anche sulla necessità di un progressivo allontanamento dall'uso linguistico normale, giustificandolo in questo modo: ogni deviazione dalla norma linguistica può divenire indizio di uno stato psichico inconsueto e permettere di spiare lo stato d'animo dell'autore. Si tratta certo di una sintesi originale quanto audace dei principi della ricerca psicoanalitica e dello strutturalismo.
Lasciamo dunque al lettore di intraprendere la sorprendente avventura culturale e intellettuale che Spitzer propone: il suo sguardo si volge dalle origini della cultura occidentale (i pitagorici, gli autori greci, latini), per concentrarsi poi sul cuore del cristianesimo, in particolare analizzando il binomio Ambrogio-Agostino con alcune intuizioni davvero straordinarie, che dispiacerebbe dover riassumere, per cui preferisco cedere la parola di nuovo direttamente al Nostro:
“Dovunque i cristiani vivranno nella cella della meditazione (Pascal, Kierkegaard, Rilke), risuonerà la “chiara unica arpa dai diversi toni” di Agostino; al contrario, dovunque si spalanca il “grande teatro del mondo”, nell’arte barocca o romantica (Calderón, Hofmannsthal, Wagner, l’opera in genera) ritroveremo i cori e la sinestesia di Ambrogio” (p. 35). E come non rilevare questa folgorante osservazione sempre relativa ad Ambrogio: “S’è visto come per Ambrogio la natura “applaudisse” agli inni come fa il pubblico a una esecuzione teatrale…la danza rituale dei preti e, di conseguenza, il responsorio ritmico da parte del popolo, sono altrettanto logici nelle interpretazioni antico-cristiane dell’armonia universale, quanto lo è la χορεία nella platonica musica delle sfere” (p. 29).
Al contrario, Spitzer non è certo tenero con Tommaso, come appare da questo semplice inciso: “…Tommaso d’Aquino, il quale condannò post mortem Eriugena, non aveva la sensibilità di un Agostino per l’armonia del mondo e attribuiva un carattere sacro alla musica solo in quanto entrava nella liturgia; come aristotelico, egli riflette il mondo com’è, piuttosto che cercare di ricrearlo per farne un tutto unico (p. 81).
Seguitando approfondisce la lirica dei Trovatori e, ovviamente Dante e Petrarca; fino ad arrivare alla modernità con Shakespeare, Tasso, Milton e Goethe.
Forse il vero climax della sua parafrasi ermeneutica Spitzer lo raggiunge proprio commentando la poesia At a Solemn Music di Milton: “Questa sua poesia, di immortale bellezza, è bella nel quadro di una tradizione come tutta la grande poesia, e rappresenta una sintesi della tradizione della medesima; essa fonde insieme le voci di tutte le civiltà (greco-romana, ebraica, cristiana medievale) nelle quali la musica è parte integrante del culto religioso, e che costituiscono elementi essenziali della civiltà nostra. Essa rappresenta di per sé, come direbbe Novalis, un fatto culturale “cristiano o europeo”.(p. 116).
Al termine della lettura del suo libro, come non cedere alla tentazione di mettere subito alla prova la fecondità del suo metodo? A chi si interessa di poesia italiana del novecento, per esempio, potrebbe tornare spontaneamente alla memoria uno dei testi d’apertura di Ossi di seppia di Eugenio Montale:
… il vento che nasce e muore
nell’ora che lenta s’annera
suonasse te pure stasera
scordato strumento
cuore.
Leggendo tra le suggestioni del testo non è difficile cogliere come nella parola finale si celi un duplice rimando a cor, cordis “cuore”, ma altresì a chorda, chordae “corda” e, forse, da qui risalire fino all’idea celata nel termine concordia, quella di un consenso di cuori, pace, ordine e, infine, parafrasando evidentemente le parole del Nostro, “un’armonia di corde, l’armonia universale”.
È evidente che in Montale, autore del primo novecento, deflagri già il disagio esistenziale dell’Io lirico nei confronti del mondo che lo circonda, e quindi l’ineluttabile disarmonia. Spitzer, a ulteriore conferma della fecondità del suo approccio ermeneutico, ha comunque ben presente anche questa situazione, giacché anche la disarmonia, in ultima analisi, è solo un caso limite dell’armonia stessa (proprio come la voce dell’ateo non fa che affermare indirettamente la necessità dell’esistenza di Dio), rientrando nel campo lessicale della concordia che riunisce in se stessa entrambi i poli di significato ricostruiti nel suo studio, come egli stesso ci conferma, riferendosi alla poesia trobadorica, in uno dei passaggi forse più suggestivi di un saggio pur così ricco: “…anche nell’opera d’arte in apparenza disordinata doveva esserci armonia, cioè quella disarmonia voluta dall’armonia e sottomessa ad essa…” (p. 100) .
A questo punto non posso non compiere questo salto pindarico e citare direttamente il celeberrimo frammento di Eraclito:
“τὸ ἀντίξουν συμφέρον καὶ ἐκ τῶν διαφερόντων καλλίστην ἁρμονίαν (καὶ πάντα κατ ‘ἔριν γίνεσθα)”, che è possibile rendere con “L’opposto concorde, e dai discordi bellissima armonia, e tutte le cose divengono secondo contesa”. (Ἡράκλειτος ὁ Ἐφέσιος, frammento 8 in Diels-Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker)
Non dimentichiamo il titolo del testo di Spitzer: per lui l’armonia del mondo, come già avevano perfettamente colto i Pitagorici e Platone, si esprime naturalmente mediante la musica, per cui egli può coerentemente affermare: “…ascoltando la musica il nostro subcosciente reagisce ai numeri, anche se l’anima di chi ascolta ignora le proprie (inconsce) operazioni aritmetiche” (p. 41)..
Se forse si siamo lasciati trascinare troppo dalla musica torniamo pure ai passaggi logici presenti nel testo, anche se siamo costretti a sintetizzarli in modo elementare: “Dal punto di vista moderno questi sono bisticci paraetimologici, ma per la linguistica medievale come per quella antica, dato che dietro alla concordanza verbale esse cercavano quella sostanziale e vedevano riflessa la plurivalenza del creato in quella delle parole, l’assonanza fonetica costituiva una rivelazione del vero έτυμον” (p. 94).
L’antica famiglia verbale, incentrata su un dato nucleo emotivo, genera diverse ramificazioni moderne con nuclei emotivi particolari, cosicché non è possibile spiegare una parola ricorrendo a un determinato etimo. Abbiamo per così dire, un sistema di rotaie che s’irradiano da un centro, che si ramificano in nuovi sistemi, (fatti dello stesso materiale ferroviario) con centri nuovi… Ci troviamo di fronte a un fenomeno semantico degno di nota: per la parola tedesca Stimmung dobbiamo tener conto non di un solo etimo, come avviene per solito (lat. Pater >fr.père), bensì di una mescolanza, di un tessuto di etimi diversi, che si sono prestati a vicenda parte dei rispettivi tessuti semantici, sicché la particolare parola moderna Stimmung riflette semanticamente ora l’uno ora l’altro etimo; altre parole moderne, come fr. Accord, ingl. Temper, rivelano la medesima tessitura di Stimmung, pur differendone nei particolari” (p. 81).
Purtroppo dobbiamo accontentarci di queste brevi ma pregnanti citazioni, alle quali ne aggiungerò ancora solo tre, perché vorrei che il lettore capisse immediatamente lo stile così particolare e suggestivo di questo studioso, che unisce a una straordinaria competenza culturale sia la sensibilità del religioso sia la capacità di entusiasmarsi per l’oggetto del sapere, cosicché tali doti emergono in un passaggio apparentemente casuale del testo che funge da raccordo fra le diverse tematiche in modo del tutto naturale: “Solo un mondo estraniato da Dio può scorgere un abisso fra il mondo animale e quello umano; allo stesso modo non esiste conflitto tra il fattore emotivo e quello intellettuale; l’amore vero non può che seguire la retta dottrina, l’amore vero è spontaneo e saggio al tempo stesso” (p. 64).
Il riferimento all’amore mi consente un’altra apparente digressione che, al contrario, non fa che riportare all’idea centrale del saggio, quella della armonia musicale del mondo. Infatti, come Shakespeare afferma di Cassio, nel Giulio Cesare, I, 2, un uomo che non dorme, né scherza, né sorride, ma si limita a pensare, leggere, osservare è un uomo senz’altro pericoloso, poiché in lui “non esiste l’equilibrio temperato, un uomo non redento dalla musica” (p. 110)
A conclusione della mia breve rassegna, che non desidera essere niente di più che un invito a immergersi – invito quanto mai attuale in questi tempi di riscaldamento globale e aridità erudita, inflazionata dal gusto di proporre citazioni estrapolate dal loro contesto e che quindi dimostrano tutto e il contrario di tutto, in modo del tutto arbitrario, cioè esattamente il contrario del sommo rispetto che Spitzer dimostra quando cerca di interpretare un testo – nel mare ermeneutico che ha preparato per noi, e vista la destinazione specifica del presente saggio, è bene concludere con questa citazione:
“Nella Histoire du peuple d’Israël Renan definisce caratteristico degli ebrei lo spirito d’interiore meditazione: “Tale spirito si riassume nelle diverse sfumature della parola siah, che significa al tempo stesso meditare, parlare sottovoce, parlare con se stessi, intrattenersi con Dio, perdersi nelle vaghe fantasticherie dell’infinito”, senz’altro suono che quello dell’anima” (p. 28).
Lascio a ciascuno di rispondere come meglio crede alla mia domanda: e per me, che cosa è per me lo spirito d’interiore meditazione?
(Sergio Gandini)