Letture
Uno strano destino pare gravare su questa figura dei classici romani. Ci è ignoto pressoché tutto della sua vita: Lucrezio non compare mai sulla scena politica romana, né sembra esistere negli scritti dei contemporanei, unica eccezione la lettera di Cicerone ad Quintum fratrem II 9, contenuta nella sezione Ad familiares, in cui il celebre oratore accenna all'edizione, forse postuma, del suo poema che egli starebbe curando.
Cicerone oggi è passato di moda. La sua nitida prosa, portata troppo spesso come esempio di stile ma anche come modello sul quale tormentare generazioni di liceali, non attrae più: Sallustio e Tacito, Petronio e perfino Orazio nelle Satire sembrano rispecchiare meglio la temperie della nostra epoca. Eppure magari non avremmo più né il nome né questa sublime opera se non fosse stato per l’interessamento di Cicerone |
Come mai Cicerone prese a cuore l’edizione di questo poema potrebbe apparire, di nuovo, strano. Niente potrebbe sembrano più lontano dagli interessi dell’oratore Cicerone, che certo sapeva di filosofia, fino a fondare l’unico indirizzo filosofico propriamente romano, il cosiddetto eclettismo, ma aveva una visione del mondo distante se non opposta, a quella di Lucrezio. Egli fu un personaggio scomodo: gli ideali epicurei di cui era profondamente intriso il suo messaggio filosofico corrodevano le basi del potere di una Roma alla vigilia della congiura di Catilina; in verità, in quell’epoca di tensioni repubblicane isolarsi dalla realtà politica nell'hortus epicureo significava sottrarsi ai negotia politici e uscire di conseguenza anche dalla sfera d'influenza del potere, le più forti correnti stoiche, ostili all'epicureismo, permeavano la classe dirigente romana in quanto più conformi alla tradizione civile e militare dell'Urbe.
Probabilmente la leggenda più nota cresciuta intorno a Lucrezio, quella della sua presunta pazzia, dovuta all’assunzione di un filtro che avrebbe assunto per rimediare ad una delusione d’amore (in parte avvalorata da Cicerone stesso) e che avrebbe causato la incompiutezza del poema stesso, è frutto di questa radicale scomodità della figura di Lucrezio, ai margini del proprio tempo e, in seguito, screditato da certi teologici cristiani come San Girolamo che ne diedero l'immagine di un ateo psicotico in preda alle forze del male. E questa lettura prosegue ancora oggi in qualche ermeneuta di tipo psicoanalitico che desume da certi bruschi cambiamenti di immagine e di pensiero presenti nel poema i sintomi di una follia delirante o di problemi di ordine psichico. Certamente nel poema sono presenti profezie apocalittiche, visioni quasi allucinate e ambigue espressioni e, soprattutto, un radicale pessimismo esistenziale. Questo determina, a mio avviso, l’autentico paradosso di Lucrezio. Nulla appare più lontano dal vero spirito del messaggio di solare serenità che pervade la filosofia di Epicuro. E, ancora una volta, ben poco sapremmo del pensiero di Epicuro, sprofondato in una dimenticanza ancora più sistematica grazie all’operato di alcuni scrittori cristiani, tradizione che peraltro arrivò fino a Dante, probabilmente con la sola eccezione significativa di Seneca, se Lucrezio non ci avesse permesso di ricostruire con la sua opera poetica i lineamenti di fondo quel pensiero epicureo.
Che cosa poté attrarre Cicerone nell’opera di Lucrezio? Forse, a dispetto dei suoi limiti culturali e filosofici, Cicerone era veramente sensibile alla poesia e seppe scorgere che quella di Lucrezio era sublime poesia. Ma il paradosso resta intatto e il poema “De rerum natura” ne rimane intriso. Forse questo paradosso è la radice stessa della poesia e, perlomeno, della singolare forza che emana dalle pagine del poema.
Un noto racconto zen, diffuso in molte varianti recita pressappoco che un uomo che camminava per un campo s’imbatté in una tigre, si mise a correre, e giunto ad un precipizio, si afferrò alla radice di una vite selvatica e si lasciò penzolare oltre l’orlo. Tremante l’uomo guardava giù, dove, in fondo all’abisso, un’altra tigre lo aspettava per divorarlo: solo l’esile radice di vite lo reggeva, finché due topi iniziarono a rosicchiarla lentamente. A quel punto l’uomo scorse accanto a sé una bellissima fragola. Afferrandosi alla vite con una mano sola, con l’altra, afferrò la fragola. Com’era dolce! L’autentica poesia ha il medesimo sapore che scorre intatto tra i versi di questo poema.
Tempore item certo roseam Matuta per oras
Aetheris auroram differt et lumina pandit,
aut quia sol idem, sub terras ille revertens,
anticipat caelum radiis accendere temptans… (De rerm natura, liber V, 656-659)
Cercare di tradurla sarebbe impresa inutile: per fortuna siamo, in quando eredi di questa cultura classica, ancora in grado di provare a leggerlo in lingua originale, assaporando il sublime gioco di allitterazioni, la complessa costruzione e infine la luce che si rivela in fondo a certi passaggi del poema. Certo non in tutti: assumendosi il compito di divulgare un contenuto filosofico molte parti del testo sono di natura didascalica o esplicativa.
Come diceva l’altro grande poeta latino “Neque semper arcum tendit Apollo” (Orazio, Odi, lI, 10, 19) certi climax e altezze espressive sono raggiunte solo di rado e non possono essere mantenute a lungo; pochi vi riescono e Lucrezio è fra quei rari. Personalmente, fra tutti i classici, ancora di più che Orazio o Virgilio, perfino Catullo o Properzio, è il poema di Tito Lucrezio Caro che tengo sul mio scrittoio e del quale amo centellinare qualche verso.
C’è in questi versi una mescolanza di pensiero e poesia, una tensione di lirica e prosa filosofica: i romani chiamavano satira (dal latino satura lanx: il vassoio vuoto riempito di primizie in offerta agli dei) è un genere della letteratura, delle arti e, più in generale, un registro della comunicazione stessa, in grado di far convivere l'attenzione critica ai vari aspetti della società, di mostrane le contraddizioni e promuoverne la trasformazione. Forse la magia della poesia di Lucrezio risiede infine in questa rara quanto impervia dote, di fare coesistere gli opposti nella sua espressione poetica.
Spesso si cita il contrasto tra la tragica fine del sesto libro (la peste di Atene) e il fulgido inizio del primo libro (inno a Venere) per sostenere l’incompiutezza dell’opera di Lucrezio; eppure il De rerum natura rientra nel filone epico-didascalico, in cui tradizionalmente le opere venivano composte nel numero di sei libri o multipli di sei. Benché lo stato delle ricerche non permetta attualmente di escludere nessuna ipotesi, opterei per una scelta deliberata, per una estrema volontà di testimoniare, fino il fondo, la natura irrisolta e irresolubile del Mistero che avvolge la Realtà. In esso lo sforzo conoscitivo e salvifico della ricerca filosofica è destinato necessariamente a congiungersi allo sguardo attonito del poeta di fronte all’infinità della sofferenza non solo umana, bensì di ogni essente: inutile parlare di una qualche mediazione dialettica che non appartiene alla mentalità tragica di Lucrezio.
Basterebbe questa breve passaggio:
Nec videt in vera nullum fore morte alium se
Qui possit vivus sibi se lugere peremptum
Stansque iacentem se lacerari urive dolere (liber III, 885-7)
che si trova all’interno della lunga dissertazione di stampo epicureo con la quale il filosofo del Giardino voleva distruggere ogni timore della morte nella mente degli umani, per intuire una volta per tutte che l’originalità di Lucrezio è proprio nella sua natura di poeta, nella sua capacità di creare immagini che sanno troppo di corporeità e di esistenza e che sono radicalmente in grado di decostruire (per usare un termine proprio della nostra epoca) ogni certezza di stampo filosofico e per non colpire direttamente noi.
Forse, in verità, lo sentiamo così irrimediabilmente attuale perché egli non è affatto un classico, ma l’estremo erede di una tradizione tragica che risale ben oltre i tragici greci, all’autentico spirito dionisiaco che poi riaffiora in Nietzsche alle soglie della contemporaneità e che interroga direttamente noi esseri umani del XXI secolo. Forse – lo ripetiamo – è solo un poeta e come tale deve essere letto ancora oggi, con la nostra mente finalmente libera da ogni pregiudizio di scuola o di appartenenza, in noi che almeno non chiediamo al poeta nessun rigore filosofico ma solo una reale capacità di esprimere il mondo multiforme e inesauribile degli esseri viventi. O forse in quanto poeta che sapeva di filosofia è giunto alla interrogazione estrema di ogni vivente e canta essenzialmente; Ne tibi res redeant ad nilum funditus omnes (II, 864). Non lo sapremo finché non ritorneremo a leggerlo, non pazienza e umiltà, in quel suo stile latino così imprecisabile e unico che deve aver impressionato anche il misurato Cicerone.
(Sergio Gandini)
Probabilmente la leggenda più nota cresciuta intorno a Lucrezio, quella della sua presunta pazzia, dovuta all’assunzione di un filtro che avrebbe assunto per rimediare ad una delusione d’amore (in parte avvalorata da Cicerone stesso) e che avrebbe causato la incompiutezza del poema stesso, è frutto di questa radicale scomodità della figura di Lucrezio, ai margini del proprio tempo e, in seguito, screditato da certi teologici cristiani come San Girolamo che ne diedero l'immagine di un ateo psicotico in preda alle forze del male. E questa lettura prosegue ancora oggi in qualche ermeneuta di tipo psicoanalitico che desume da certi bruschi cambiamenti di immagine e di pensiero presenti nel poema i sintomi di una follia delirante o di problemi di ordine psichico. Certamente nel poema sono presenti profezie apocalittiche, visioni quasi allucinate e ambigue espressioni e, soprattutto, un radicale pessimismo esistenziale. Questo determina, a mio avviso, l’autentico paradosso di Lucrezio. Nulla appare più lontano dal vero spirito del messaggio di solare serenità che pervade la filosofia di Epicuro. E, ancora una volta, ben poco sapremmo del pensiero di Epicuro, sprofondato in una dimenticanza ancora più sistematica grazie all’operato di alcuni scrittori cristiani, tradizione che peraltro arrivò fino a Dante, probabilmente con la sola eccezione significativa di Seneca, se Lucrezio non ci avesse permesso di ricostruire con la sua opera poetica i lineamenti di fondo quel pensiero epicureo.
Che cosa poté attrarre Cicerone nell’opera di Lucrezio? Forse, a dispetto dei suoi limiti culturali e filosofici, Cicerone era veramente sensibile alla poesia e seppe scorgere che quella di Lucrezio era sublime poesia. Ma il paradosso resta intatto e il poema “De rerum natura” ne rimane intriso. Forse questo paradosso è la radice stessa della poesia e, perlomeno, della singolare forza che emana dalle pagine del poema.
Un noto racconto zen, diffuso in molte varianti recita pressappoco che un uomo che camminava per un campo s’imbatté in una tigre, si mise a correre, e giunto ad un precipizio, si afferrò alla radice di una vite selvatica e si lasciò penzolare oltre l’orlo. Tremante l’uomo guardava giù, dove, in fondo all’abisso, un’altra tigre lo aspettava per divorarlo: solo l’esile radice di vite lo reggeva, finché due topi iniziarono a rosicchiarla lentamente. A quel punto l’uomo scorse accanto a sé una bellissima fragola. Afferrandosi alla vite con una mano sola, con l’altra, afferrò la fragola. Com’era dolce! L’autentica poesia ha il medesimo sapore che scorre intatto tra i versi di questo poema.
Tempore item certo roseam Matuta per oras
Aetheris auroram differt et lumina pandit,
aut quia sol idem, sub terras ille revertens,
anticipat caelum radiis accendere temptans… (De rerm natura, liber V, 656-659)
Cercare di tradurla sarebbe impresa inutile: per fortuna siamo, in quando eredi di questa cultura classica, ancora in grado di provare a leggerlo in lingua originale, assaporando il sublime gioco di allitterazioni, la complessa costruzione e infine la luce che si rivela in fondo a certi passaggi del poema. Certo non in tutti: assumendosi il compito di divulgare un contenuto filosofico molte parti del testo sono di natura didascalica o esplicativa.
Come diceva l’altro grande poeta latino “Neque semper arcum tendit Apollo” (Orazio, Odi, lI, 10, 19) certi climax e altezze espressive sono raggiunte solo di rado e non possono essere mantenute a lungo; pochi vi riescono e Lucrezio è fra quei rari. Personalmente, fra tutti i classici, ancora di più che Orazio o Virgilio, perfino Catullo o Properzio, è il poema di Tito Lucrezio Caro che tengo sul mio scrittoio e del quale amo centellinare qualche verso.
C’è in questi versi una mescolanza di pensiero e poesia, una tensione di lirica e prosa filosofica: i romani chiamavano satira (dal latino satura lanx: il vassoio vuoto riempito di primizie in offerta agli dei) è un genere della letteratura, delle arti e, più in generale, un registro della comunicazione stessa, in grado di far convivere l'attenzione critica ai vari aspetti della società, di mostrane le contraddizioni e promuoverne la trasformazione. Forse la magia della poesia di Lucrezio risiede infine in questa rara quanto impervia dote, di fare coesistere gli opposti nella sua espressione poetica.
Spesso si cita il contrasto tra la tragica fine del sesto libro (la peste di Atene) e il fulgido inizio del primo libro (inno a Venere) per sostenere l’incompiutezza dell’opera di Lucrezio; eppure il De rerum natura rientra nel filone epico-didascalico, in cui tradizionalmente le opere venivano composte nel numero di sei libri o multipli di sei. Benché lo stato delle ricerche non permetta attualmente di escludere nessuna ipotesi, opterei per una scelta deliberata, per una estrema volontà di testimoniare, fino il fondo, la natura irrisolta e irresolubile del Mistero che avvolge la Realtà. In esso lo sforzo conoscitivo e salvifico della ricerca filosofica è destinato necessariamente a congiungersi allo sguardo attonito del poeta di fronte all’infinità della sofferenza non solo umana, bensì di ogni essente: inutile parlare di una qualche mediazione dialettica che non appartiene alla mentalità tragica di Lucrezio.
Basterebbe questa breve passaggio:
Nec videt in vera nullum fore morte alium se
Qui possit vivus sibi se lugere peremptum
Stansque iacentem se lacerari urive dolere (liber III, 885-7)
che si trova all’interno della lunga dissertazione di stampo epicureo con la quale il filosofo del Giardino voleva distruggere ogni timore della morte nella mente degli umani, per intuire una volta per tutte che l’originalità di Lucrezio è proprio nella sua natura di poeta, nella sua capacità di creare immagini che sanno troppo di corporeità e di esistenza e che sono radicalmente in grado di decostruire (per usare un termine proprio della nostra epoca) ogni certezza di stampo filosofico e per non colpire direttamente noi.
Forse, in verità, lo sentiamo così irrimediabilmente attuale perché egli non è affatto un classico, ma l’estremo erede di una tradizione tragica che risale ben oltre i tragici greci, all’autentico spirito dionisiaco che poi riaffiora in Nietzsche alle soglie della contemporaneità e che interroga direttamente noi esseri umani del XXI secolo. Forse – lo ripetiamo – è solo un poeta e come tale deve essere letto ancora oggi, con la nostra mente finalmente libera da ogni pregiudizio di scuola o di appartenenza, in noi che almeno non chiediamo al poeta nessun rigore filosofico ma solo una reale capacità di esprimere il mondo multiforme e inesauribile degli esseri viventi. O forse in quanto poeta che sapeva di filosofia è giunto alla interrogazione estrema di ogni vivente e canta essenzialmente; Ne tibi res redeant ad nilum funditus omnes (II, 864). Non lo sapremo finché non ritorneremo a leggerlo, non pazienza e umiltà, in quel suo stile latino così imprecisabile e unico che deve aver impressionato anche il misurato Cicerone.
(Sergio Gandini)