Letture
Ludwig Wittgenstein Osservazioni sui colori
Adesso che il secolo breve, il Novecento, è finito ci si potrebbe anche porre la domanda quali siano stati i più grandi filosofi di questo secolo. Credo che, al di là nella banalità di redigere classifiche di questo genere, più d’uno farebbe i nomi di Heidegger e Wittgenstein. Difficile però immaginare due pensatori più opposti tra loro, accomunati forse da poche caratteristiche fra le quali notiamo questa sola: non parlano mai di Dio. È solo dovuto all’onda lunga che scorre in tutto l’ottocento, quella che Weber chiama il processo di secolarizzazione e che prorompe in Nietzsche nel famoso annuncio che “Dio è morto!”? D’altronde asserzioni come questa sono poco significative e possono facilmente essere rovesciate: il Sein (Essere) al quale Heidegger si richiama soprattutto nel secondo periodo non presuppone una ricerca metafisica? |
Forse non tutti sanno che Wittgenstein, pur ritenuto uno dei due grandi del Novecento, riuscì a pubblicare in vita solo un’opera, il Tractatus logico-philosophicus e che tale trattato termina con l’enunciato: «Wovon man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen» (che potremmo rendere così: rispetto a ciò di cui non si è in grado di parlare, è necessario tacere). Questo muro insuperabile contro cui si sbriciola ogni possibilità di linguaggio è per Wittgenstein, come è risaputo, la metafisica, eppure nessuno potrebbe affermare che tale filosofo non ne avvertisse in sé l’esigenza necessaria, come appare in diversi passaggi delle sue opere mai compiute.
Tuttavia l’idea essenziale che soggiace a questo mio contributo è proprio rispettare l’intenzione di fondo del pensare di Wittgenstein stesso in questo preciso senso: se è inutile cercare Dio direttamente nella metafisica, sulla quale è impossibile esercitare gli strumenti del linguaggio, non potremmo cercare il misticismo di Wittgenstein altrove? Vale la pena di farlo, oppure è solo un vicolo cieco?
Ricordo che un poeta intervistato aveva confessato che non leggeva mai libri di poesia: leggeva molto, libri di vario genere, di biologia di zoologia di storia, mai di poesia. Dostoevskij leggeva essenzialmente giornali, anche se in una sua lettera al fratello dice che vorrebbe ricevere libri di Kant e di Hegel che, forse, non ricevette e non lesse mai. Personalmente preferisco accogliere l’impostazione di Wittgenstein e credo che questo filosofo sia davvero un grande mistico, proprio perché Dio non si trova sempre ed esattamente dove noi lo cerchiamo e semplicemente è altrove, dove non ci aspettiamo di trovarlo.
Sono consapevole della enorme difficoltà di fissare chiaramente a livello concettuale la differenza tra Metafisica e Mistica. Di certo questa differenza non può essere risolta in modo sbrigativo affermando che, di fronte al problema fondamentale dell’Essere, Heidegger procede nella direzione della metafisica e Wittgenstein in quella della mistica. Non risulta nemmeno facile trovare questa soluzione nel pensiero religioso propriamente detto, infatti la Chiesa e anche la teologia moderna hanno forse insistito troppo a lungo su una visione del cristianesimo secondo la quale ciò che è strettamente necessario alla vita cristiana e alla salvezza, sia solo elemento etico normativo che si concretizza nell’adempiere gli obblighi morali, sottintendendo così la via mistica è riservata solo alla perfezione della santità. Varrebbe la pena di ritornare anche in questo ambito alla lezione di Kant: se la metafisica intesa come sapere razionale è impossibile da raggiungere, in ambito morale l’essere umano può avere esperienza di quei postulati in grado di fondare la felicità. Possiamo intendere questo tipo di esperienza come affine alla mistica? Potremmo ancora farci un’estrema domanda: uno spirituale e un mistico agiscono precisamente nel medesimo modo? Queste due modalità della persona umana sono sovrapponibili? In modo davvero approssimativo mi sento di affermare che uno spirituale cerca di conoscere in modo teoretico ciò che il mistico sperimenta direttamente nella sua anima e nella sua carne.
Con questi riferimenti e soprattutto con tale spirito invito perciò a leggere in un’ottica nuova questo testo di Wittgenstein poco analizzato, pubblicato in inglese nel 1977 e tradotto in lingua italiana già nel 1981, e chiamato: “Osservazioni sui colori” col significativo sottotitolo “Una grammatica del vedere”. E se invece, paradossalmente, fosse una sorta di propedeutica all’esperienza mistica? Ho formulato intenzionalmente questa frase in modo da sottolineare l’aspetto paradossale nella mia ricerca, e vorrei che il mio lettore mi seguisse in questa via almeno fino in fondo al presente e breve saggio. Nei Diari segreti, redatti dal Wittgenstein combattente durante la prima guerra mondiale vissuta spesso ai limiti della sopravvivenza, si trova questo passaggio: «Così è questa vita. Ma come devo vivere allora per superare ognuno di questi momenti? Vivere nel bene e nella bellezza, finché la vita non giunga al termine da sola… È indescrivibile lo stato di grazia di cui adesso godo, perché sono in grado di pensare e di scrivere. Devo raggiungere l’indifferenza nei confronti delle difficoltà della vita esteriore». (Aggiungo solo che i termini sono stati evidenziati da me in corsivo, poiché sono di per sé caratteristici del linguaggio di ogni mistica).
Forse è vano cercare Dio mediante il linguaggio e Wittgenstein testimonia solo una superiore lucidità a non cercarlo dove sarebbe impossibile trovarlo; l’autentica Mistica cerca l’Ineffabile però come un’aspirazione intima all’esperienza stessa. Di certo il Divino non può essere trovato come si definisce un possibile oggetto di esperienza empirica ma importa la dedizione con cui si percorre una Via di ricerca.
È facile leggere tale dedizione non tanto nel suo pensare quanto direttamente in tanti eventi della sua vita: fu imprigionato presso Trento nel 1918, rientrò in Austria solo l’anno successivo e venne influenzato dal cristianesimo di Lev Tolstoj e dalla sua interpretazione del Vangeli e si liberò della cospicua eredità paterna convinto che il denaro corrompe, d’altronde tenne in alta considerazione anche gli scritti di Pascal e le Confessioni di Agostino. Visse poi con estrema semplicità, un arredo essenziale e nessun oggetto che non fosse strettamente utile, lasciò per coerenza l'ambiente accademico e metaforicamente anche la filosofia con l'intenzione, come dirà in seguito a un suo studente, di "voler continuare a pensare" in un altro modo; lavorò in seguito come insegnante in diverse scuole elementari nei distretti di Schneeberg e Semmering, dove pubblicò il suo secondo e ultimo libro: il Dizionario per le scuole elementari, di solito trascurato dalla critica ma importante per stabilire la continuità degli interessi logici dell'autore. Tuttavia, appena pubblicato, il Tractatus Logico-Philosophicus (il titolo peraltro gli era stato suggerito da Moore con l'evidente intenzione di rievocare il Tractatus Theologico-Politicus di Spinoza), era già diventato il punto di riferimento per il Circolo di Vienna al quale il filosofo austriaco non aderì mai ufficialmente, pur frequentandolo, e perfino criticandone apertamente i fraintendimenti della propria ricerca. Queste e altre vicende biografiche sulle quali è meglio non dilungarci hanno contribuito a creare un'immagine oracolare e misteriosa del filosofo, e dato luogo a tentativi di spiegazione esistenziali, ad esempio rispetto alla sua omosessualità, o patologiche (da taluni è stata avanzata l'ipotesi che soffrisse della Sindrome di Asperger).
Il tema dei colori che propongo all’attenzione non è però affatto marginale nelle ricerche di Wittgenstein, come potrebbe sembrare ad un approccio superficiale, ma attraversa tutte le fasi in cui di solito ci cerca di organizzare l’esposizione del pensiero di questo filosofo estraneo a qualsiasi sistematicità, fino ad arrivare appunto alla stesura di questo breve testo, frammentario quanto tutti gli altri, ma scritto proprio nel 1950-51, gli anni conclusivi della sua vita.
Il particolare problema logico di rappresentare i colori nella notazione logica, scandisce di fatto il passaggio dall'ottica del Tractatus alla nuova impostazione delle Osservazioni filosofiche: sintetizzando al massimo il suo percorso filosofico, si potrebbe affermare che ogni tentativo di rendere in proposizioni elementari (atomiche, nel linguaggio di alcuni logici) la gamma dei colori o più semplicemente un colore è impossibile perché ogni singolo colore in verità presuppone tutta la gamma cromatica. Dal momento che il colore è anche lunghezza d'onda e quindi numero, consiste anche in un rapporto di lunghezze d'onda: alla fine si incontra la medesima difficoltà che esiste nel descrivere una qualsiasi procedura esperienziale che non può essere schematizzate nei termini di una contraddizione logica. Nel linguaggio logico-matematico un enunciato è assurdo quando implica una contraddizione logica, per esempio 5 può risultare come somma di 3 e 2, ma non di 6 e 7. Questo invece non vale per i colori che si presentano nella forma dello spettro. Se dobbiamo esprimerlo in linguaggio matematico ciò presuppone un’altra soluzione. Questa difficoltà è stata risolta in informatica con array (matrici) elastici, termine che designa una struttura dati complessa, statica e omogenea. Ma lascio al lettore interessato la possibilità di approfondire questi aspetti matematici.
Alla domanda dell’amico Schlik, se i colori fossero qualcosa di logico o di empirico, facendo l’esempio del tale rinchiuso nella stanza rossa in grado di vedere solo il rosso, Wittgenstein rispose: «Se qualcuno non esce mai dalla sua camera, sa tuttavia che lo spazio continua, che esiste cioè la possibilità di uscire dalla camera (avesse pure le pareti di diamante), non è quindi un’esperienza: è insito nella sintassi dello spazio, a priori».
A me pare che l’immenso interesse della ricerca di Wittgenstein risieda prima di tutto nell’adesione all’esperienza, nella sua totale immersione in essa, che implica anche una estrema sensibilità pittorica: il colore è certo un oggetto di esperienza, tra possibili altri, come le famose esemplificazioni condotte sul gioco degli scacchi, e, insieme, non è mai un oggetto tra gli altri possibili, poiché quando Wittgenstein esemplifica sui colori o, se si preferisce, se sta svolgendo una ricerca logica sul concetto di colore quella riflessione è in sé vibrante, ciò implica una profonda emozione estetica. Date queste premesse al nostro lettore occorre avvertirlo che questa indicazione di lettura è tutt’altro che agevole e piana: le Osservazioni si presentano in quella forma aforistica e rapsodica che è tipica di tutta la riflessione di Wittgenstein (ad eccezione della forma logica del Tractatus che però pone differenti ma altrettanto ostici problemi di fruizione).
Il mio consiglio è quello di lasciarsi guidare dalla propria intuizione (come sovente accade per le opere redatte con autentico spirito mistico): Wittgenstein procede così, getta solo dei semi nella mente del lettore cui occorre lasciare lo spazio per germinare in assoluta libertà. Ma, accostandoci a questo testo, vediamo comunque di procedere per gradi e iniziamo pure da quelle attinenti al confronto che il filosofo svolge con le teorie precedenti.
Non vogliamo trovare una teoria dei colori (né una teoria fisiologica né una teoria psicologica), bensì la logica dei concetti di colore. E questa riesce a darci ciò che, spesso a torto, ci si è aspettati da una teoria. (parte I, n. 22, pag. 9, nella edizione di Einaudi, Torino, 2000 che indichiamo in copertina, ma sono disponibili anche versioni discrete sul web che rispettano la numerazione originale). Le difficoltà che percepiamo riflettendo sulla natura dei colori (e con cui Goethe volle fare i conti nella Farbenlehre) sono già insite nell'indeterminatezza del nostro concetto di eguaglianza tra colori. (p. III, n. 251).
La teoria goethiana della formazione dei colori dello spettro non è una teoria che si sia dimostrata insoddisfacente: per parlar propriamente non è affatto una teoria. Con essa non si può predire nulla. È piuttosto un vago schema concettuale del genere di quello che si trova nella psicologia di James. Non c'è neanche nessun experimentum crucis che possa farci decidere in favore di questa teoria o contro essa. Se osservazioni come queste possono essere contestualizzate con apparente facilità disponendo degli opportuni riferimenti ai testi sui quali Wittgenstein stava lavorando, altre volte il filosofo ci sorprende e ci disorienta come un saggio zen:
Qui vorrei fare un’osservazione generale sulla natura dei problemi filosofici. L’oscurità filosofica è inquietante. La si sente come un che di vergognoso. Si ha la sensazione di non potersi raccapezzare proprio là dove raccapezzare ci si dovrebbe. E tuttavia non è così. possiamo benissimo vivere anche senza queste distinzioni; anche senza sapercisi raccapezzare. (p. III, n. 33).
I
n ogni serio problema filosofico l'incertezza arriva giù, fino alle radici. Si deve sempre esser pronti a imparare qualcosa di completamente nuovo. (p. I, n. 15)
I
n filosofia non è soltanto necessario imparare caso per caso che cosa si debba dire su un certo oggetto; è anche necessario imparare come se ne debba parlare. Si deve imparare, sempre di nuovo, il metodo per affrontarlo. (p. III, n. 43)
Ovviamente le citazioni in questa direzione potrebbero moltiplicarsi:
Dipingo quello che vedo dalla mia finestra. Un posto ben preciso, determinato dalla sua posizione nell'architettura di una casa, lo dipingo in colore ocra. Dico che vedo questo punto in questo colore. Ciò non significa che qui io veda il colore ocra, perché questa sostanza colorata, ambientata così potrebbe apparire più chiara, più scura, più rossiccia (eccetera) dell'ocra. Ma che dire se qualcuno volesse che io gli indicassi l'esatta tonalità di colore che vedo in quel punto? - In che modo dovrei indicargliela, e in che modo dovrei determinarla? Si potrebbe chiedere che io produca un campione di colore (un campione di carta di questo colore). Non dico che un confronto di questo genere sarebbe del tutto privo di interesse: esso però ci mostra che non è chiaro già fin dal principio in qual modo si debbano confrontare le tonalità dei colori e che cosa significhi eguaglianza di colore. (p. I, n. 59)
Non si può immaginare che certi uomini abbiano una geometria dei colori diversa dalla nostra? Questo vuol sicuramente dire: Non si possono immaginare uomini, che abbiano concetti di colore diversi dai nostri? E ciò significa a sua volta: Non si possono immaginare uomini che non abbiano i nostri concetti di colore - e tuttavia abbiano concetti di colore che ai nostri concetti di colore siano imparentati in modo tale che noi li chiameremmo ancora ' concetti di colore? (p. III, n. 86)
Lasciamo perciò al lettore di compiere l’avventura della sua immersione in questo pensare in assoluta libertà e cerchiamo di isolare alcuni frammenti in cui la dimensione mistica appaia in maggiore trasparenza:
Nella vita di tutti i giorni noi siamo praticamente circondati da colori del tutto impuri. Ed è tanto più degno di nota, perciò, che abbiamo costruito un concetto di colori puri. (p. III, p. 59)
Se per i colori esistesse una teoria dell'armonia, essa comincerebbe con il distribuire i colori in differenti gruppi; con il vietare certe mescolanze o certi accostamenti e con il permettere altri; e, come la teoria dell'armonia, non giustificherebbe le sue regole. (p. I, n. 74)
Un colore riluce in un ambiente (come gli occhi sorridono soltanto in un volto). (p. I, n. 55)
D’altronde, a mio avviso, non è possibile riflettere sul colore, senza porsi il problema del colore puro, se non a partire dalla dimensione mistica del colore stesso: Come posso descrivere a un tizio in che modo noi impieghiamo la parola 'domani'? Posso insegnarlo a un bambino; ma questo non vuol dire descrivergli l'uso. Certo, però, io posso descrivere il modo di procedere di gente che abbia un concetto, per esempio 'verde che dà sul rosso', che noi non possediamo? - In ogni caso, questa prassi non posso insegnarla a nessuno. (p. III, n. 122)
Viene la tentazione di fronte a questo squarcio di Wittgenstein di parafrasare o di continuare in questa direzione – anche se non sono in grado di definire il concetto di “verde che dà sul rosso” posso averne l’intuizione: Come c'è un orecchio assoluto, e c'è gente che non ce l'ha, così si potrebbe benissimo pensare che, per quanto riguarda il vedere i colori, esista un gran numero di talenti diversi. Forse che tutti dovrebbero conoscere colori 'caldi ' e colori 'freddi'? A meno che non si impari semplicemente a chiamar così, o così, una certa disgiunzione di colori. Non potrebbe darsi, per esempio, che un pittore non avesse nessun concetto affatto dei 'quattro colori puri', e trovasse addirittura ridicolo il parlare di colori del genere? (p. III, n. 28)
Perciò: potrei allora avere un’intuizione mistica del Divino pur senza avere la capacità linguistica di formularla in un enunciato logicamente accettabile?
Quando diciamo che “il giallo saturo è più chiaro del blu saturo” non è una proposizione della psicologia (perché soltanto così, potrebbe essere storia naturale) – questo significa: noi non la impieghiamo come proposizione della storia naturale; e allora la questione è: che aspetto ha l’altro impiego, quello atemporale?” (p. III, n. 9)
E ancora aggiungerei come chiave di lettura di questo breve e aforistico scritto una raccomandazione che forse è valida per la ricerca del filosofo in toto: non conta tanto quello che Wittgenstein dice quanto, e forse ancora di più, quello che non dice e solo suggerisce, o meglio direi lascia trasparire.
Pensa a come un pittore rappresenterebbe la trasparenza attraverso un vetro colorato in rosso. Ciò che ne risulta è la complicata immagine di una superficie. Cioè: l'immagine conterrà un gran numero di gradazioni di rosso e di altri colori, messe l'una accanto all'altra. E analogamente se si guardasse attraverso un vetro blu. Ma che dire, se si dipingesse un quadro in cui là dove una certa cosa, che prima dava sull'azzurro o sul rosso, ora desse sul bianco.
Trattandosi in fondo di un saggio sui colori l’intuizione che i colori traspaiano gli uni dagli altri non è forse essenziale?
Per terminare questo breve contributo vale la pena di adottare lo schema circolare del pensiero greco e di ritornare all’inizio: se nel Tractatus cercava innanzitutto di emanciparsi dai problemi della psicologia, pur rimanendo entro i limiti di un approccio di tipo realista, nel prosieguo delle Ricerche invece la logica isolava dal mondo il soggetto metafisico, non più rappresentabile nei termini di semplice io; qualunque discorso implica a questo punto una difficile mescolanza tra logica pura e intuizione trascendente.
Vorrei solo aggiungere che, qualsiasi significato cerchiamo di sostituire al termine di Mistico, che deriva alla radice del greco Μύὠ, tacere, esso implica il riferimento a un piano diverso da quello puramente teoretico o logico. La verifica stessa di una proposizione è muta; coerentemente, per Wittgenstein, il piano del Mistico sta oltre perfino a quello della filosofia e apre al valore supremo: è la vita personale, l'etica, l'estetica, il fatto dell'esistenza del mondo. Viene naturale citare una delle proposizioni conclusive del Tractatus logico-philosophicus: «Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v'è salito).» (6.54)
Come non vedere in questo una reminiscenza del Sutra in cui il Buddha consiglia di lasciar perdere la zattera che pure ci ha portati all’altra riva?
In conclusione, ritornando al significativo sottotitolo di questo testo “Una grammatica del vedere” vorrei rammentare il celebre aforisma di Marcel Proust: “Le vrai voyage ce n’est pas de chercher des nouveaux paysages mais un nouveau regard” – forse tutta la ricerca di Wittgenstein non tende altro che a questo, a fondare un nuovo sguardo sul mondo, indispensabile non tanto all’uomo del ventesimo secolo, quanto all’essere umano autentico di ogni prospettiva mistica.
(Sergio Gandini)
Tuttavia l’idea essenziale che soggiace a questo mio contributo è proprio rispettare l’intenzione di fondo del pensare di Wittgenstein stesso in questo preciso senso: se è inutile cercare Dio direttamente nella metafisica, sulla quale è impossibile esercitare gli strumenti del linguaggio, non potremmo cercare il misticismo di Wittgenstein altrove? Vale la pena di farlo, oppure è solo un vicolo cieco?
Ricordo che un poeta intervistato aveva confessato che non leggeva mai libri di poesia: leggeva molto, libri di vario genere, di biologia di zoologia di storia, mai di poesia. Dostoevskij leggeva essenzialmente giornali, anche se in una sua lettera al fratello dice che vorrebbe ricevere libri di Kant e di Hegel che, forse, non ricevette e non lesse mai. Personalmente preferisco accogliere l’impostazione di Wittgenstein e credo che questo filosofo sia davvero un grande mistico, proprio perché Dio non si trova sempre ed esattamente dove noi lo cerchiamo e semplicemente è altrove, dove non ci aspettiamo di trovarlo.
Sono consapevole della enorme difficoltà di fissare chiaramente a livello concettuale la differenza tra Metafisica e Mistica. Di certo questa differenza non può essere risolta in modo sbrigativo affermando che, di fronte al problema fondamentale dell’Essere, Heidegger procede nella direzione della metafisica e Wittgenstein in quella della mistica. Non risulta nemmeno facile trovare questa soluzione nel pensiero religioso propriamente detto, infatti la Chiesa e anche la teologia moderna hanno forse insistito troppo a lungo su una visione del cristianesimo secondo la quale ciò che è strettamente necessario alla vita cristiana e alla salvezza, sia solo elemento etico normativo che si concretizza nell’adempiere gli obblighi morali, sottintendendo così la via mistica è riservata solo alla perfezione della santità. Varrebbe la pena di ritornare anche in questo ambito alla lezione di Kant: se la metafisica intesa come sapere razionale è impossibile da raggiungere, in ambito morale l’essere umano può avere esperienza di quei postulati in grado di fondare la felicità. Possiamo intendere questo tipo di esperienza come affine alla mistica? Potremmo ancora farci un’estrema domanda: uno spirituale e un mistico agiscono precisamente nel medesimo modo? Queste due modalità della persona umana sono sovrapponibili? In modo davvero approssimativo mi sento di affermare che uno spirituale cerca di conoscere in modo teoretico ciò che il mistico sperimenta direttamente nella sua anima e nella sua carne.
Con questi riferimenti e soprattutto con tale spirito invito perciò a leggere in un’ottica nuova questo testo di Wittgenstein poco analizzato, pubblicato in inglese nel 1977 e tradotto in lingua italiana già nel 1981, e chiamato: “Osservazioni sui colori” col significativo sottotitolo “Una grammatica del vedere”. E se invece, paradossalmente, fosse una sorta di propedeutica all’esperienza mistica? Ho formulato intenzionalmente questa frase in modo da sottolineare l’aspetto paradossale nella mia ricerca, e vorrei che il mio lettore mi seguisse in questa via almeno fino in fondo al presente e breve saggio. Nei Diari segreti, redatti dal Wittgenstein combattente durante la prima guerra mondiale vissuta spesso ai limiti della sopravvivenza, si trova questo passaggio: «Così è questa vita. Ma come devo vivere allora per superare ognuno di questi momenti? Vivere nel bene e nella bellezza, finché la vita non giunga al termine da sola… È indescrivibile lo stato di grazia di cui adesso godo, perché sono in grado di pensare e di scrivere. Devo raggiungere l’indifferenza nei confronti delle difficoltà della vita esteriore». (Aggiungo solo che i termini sono stati evidenziati da me in corsivo, poiché sono di per sé caratteristici del linguaggio di ogni mistica).
Forse è vano cercare Dio mediante il linguaggio e Wittgenstein testimonia solo una superiore lucidità a non cercarlo dove sarebbe impossibile trovarlo; l’autentica Mistica cerca l’Ineffabile però come un’aspirazione intima all’esperienza stessa. Di certo il Divino non può essere trovato come si definisce un possibile oggetto di esperienza empirica ma importa la dedizione con cui si percorre una Via di ricerca.
È facile leggere tale dedizione non tanto nel suo pensare quanto direttamente in tanti eventi della sua vita: fu imprigionato presso Trento nel 1918, rientrò in Austria solo l’anno successivo e venne influenzato dal cristianesimo di Lev Tolstoj e dalla sua interpretazione del Vangeli e si liberò della cospicua eredità paterna convinto che il denaro corrompe, d’altronde tenne in alta considerazione anche gli scritti di Pascal e le Confessioni di Agostino. Visse poi con estrema semplicità, un arredo essenziale e nessun oggetto che non fosse strettamente utile, lasciò per coerenza l'ambiente accademico e metaforicamente anche la filosofia con l'intenzione, come dirà in seguito a un suo studente, di "voler continuare a pensare" in un altro modo; lavorò in seguito come insegnante in diverse scuole elementari nei distretti di Schneeberg e Semmering, dove pubblicò il suo secondo e ultimo libro: il Dizionario per le scuole elementari, di solito trascurato dalla critica ma importante per stabilire la continuità degli interessi logici dell'autore. Tuttavia, appena pubblicato, il Tractatus Logico-Philosophicus (il titolo peraltro gli era stato suggerito da Moore con l'evidente intenzione di rievocare il Tractatus Theologico-Politicus di Spinoza), era già diventato il punto di riferimento per il Circolo di Vienna al quale il filosofo austriaco non aderì mai ufficialmente, pur frequentandolo, e perfino criticandone apertamente i fraintendimenti della propria ricerca. Queste e altre vicende biografiche sulle quali è meglio non dilungarci hanno contribuito a creare un'immagine oracolare e misteriosa del filosofo, e dato luogo a tentativi di spiegazione esistenziali, ad esempio rispetto alla sua omosessualità, o patologiche (da taluni è stata avanzata l'ipotesi che soffrisse della Sindrome di Asperger).
Il tema dei colori che propongo all’attenzione non è però affatto marginale nelle ricerche di Wittgenstein, come potrebbe sembrare ad un approccio superficiale, ma attraversa tutte le fasi in cui di solito ci cerca di organizzare l’esposizione del pensiero di questo filosofo estraneo a qualsiasi sistematicità, fino ad arrivare appunto alla stesura di questo breve testo, frammentario quanto tutti gli altri, ma scritto proprio nel 1950-51, gli anni conclusivi della sua vita.
Il particolare problema logico di rappresentare i colori nella notazione logica, scandisce di fatto il passaggio dall'ottica del Tractatus alla nuova impostazione delle Osservazioni filosofiche: sintetizzando al massimo il suo percorso filosofico, si potrebbe affermare che ogni tentativo di rendere in proposizioni elementari (atomiche, nel linguaggio di alcuni logici) la gamma dei colori o più semplicemente un colore è impossibile perché ogni singolo colore in verità presuppone tutta la gamma cromatica. Dal momento che il colore è anche lunghezza d'onda e quindi numero, consiste anche in un rapporto di lunghezze d'onda: alla fine si incontra la medesima difficoltà che esiste nel descrivere una qualsiasi procedura esperienziale che non può essere schematizzate nei termini di una contraddizione logica. Nel linguaggio logico-matematico un enunciato è assurdo quando implica una contraddizione logica, per esempio 5 può risultare come somma di 3 e 2, ma non di 6 e 7. Questo invece non vale per i colori che si presentano nella forma dello spettro. Se dobbiamo esprimerlo in linguaggio matematico ciò presuppone un’altra soluzione. Questa difficoltà è stata risolta in informatica con array (matrici) elastici, termine che designa una struttura dati complessa, statica e omogenea. Ma lascio al lettore interessato la possibilità di approfondire questi aspetti matematici.
Alla domanda dell’amico Schlik, se i colori fossero qualcosa di logico o di empirico, facendo l’esempio del tale rinchiuso nella stanza rossa in grado di vedere solo il rosso, Wittgenstein rispose: «Se qualcuno non esce mai dalla sua camera, sa tuttavia che lo spazio continua, che esiste cioè la possibilità di uscire dalla camera (avesse pure le pareti di diamante), non è quindi un’esperienza: è insito nella sintassi dello spazio, a priori».
A me pare che l’immenso interesse della ricerca di Wittgenstein risieda prima di tutto nell’adesione all’esperienza, nella sua totale immersione in essa, che implica anche una estrema sensibilità pittorica: il colore è certo un oggetto di esperienza, tra possibili altri, come le famose esemplificazioni condotte sul gioco degli scacchi, e, insieme, non è mai un oggetto tra gli altri possibili, poiché quando Wittgenstein esemplifica sui colori o, se si preferisce, se sta svolgendo una ricerca logica sul concetto di colore quella riflessione è in sé vibrante, ciò implica una profonda emozione estetica. Date queste premesse al nostro lettore occorre avvertirlo che questa indicazione di lettura è tutt’altro che agevole e piana: le Osservazioni si presentano in quella forma aforistica e rapsodica che è tipica di tutta la riflessione di Wittgenstein (ad eccezione della forma logica del Tractatus che però pone differenti ma altrettanto ostici problemi di fruizione).
Il mio consiglio è quello di lasciarsi guidare dalla propria intuizione (come sovente accade per le opere redatte con autentico spirito mistico): Wittgenstein procede così, getta solo dei semi nella mente del lettore cui occorre lasciare lo spazio per germinare in assoluta libertà. Ma, accostandoci a questo testo, vediamo comunque di procedere per gradi e iniziamo pure da quelle attinenti al confronto che il filosofo svolge con le teorie precedenti.
Non vogliamo trovare una teoria dei colori (né una teoria fisiologica né una teoria psicologica), bensì la logica dei concetti di colore. E questa riesce a darci ciò che, spesso a torto, ci si è aspettati da una teoria. (parte I, n. 22, pag. 9, nella edizione di Einaudi, Torino, 2000 che indichiamo in copertina, ma sono disponibili anche versioni discrete sul web che rispettano la numerazione originale). Le difficoltà che percepiamo riflettendo sulla natura dei colori (e con cui Goethe volle fare i conti nella Farbenlehre) sono già insite nell'indeterminatezza del nostro concetto di eguaglianza tra colori. (p. III, n. 251).
La teoria goethiana della formazione dei colori dello spettro non è una teoria che si sia dimostrata insoddisfacente: per parlar propriamente non è affatto una teoria. Con essa non si può predire nulla. È piuttosto un vago schema concettuale del genere di quello che si trova nella psicologia di James. Non c'è neanche nessun experimentum crucis che possa farci decidere in favore di questa teoria o contro essa. Se osservazioni come queste possono essere contestualizzate con apparente facilità disponendo degli opportuni riferimenti ai testi sui quali Wittgenstein stava lavorando, altre volte il filosofo ci sorprende e ci disorienta come un saggio zen:
Qui vorrei fare un’osservazione generale sulla natura dei problemi filosofici. L’oscurità filosofica è inquietante. La si sente come un che di vergognoso. Si ha la sensazione di non potersi raccapezzare proprio là dove raccapezzare ci si dovrebbe. E tuttavia non è così. possiamo benissimo vivere anche senza queste distinzioni; anche senza sapercisi raccapezzare. (p. III, n. 33).
I
n ogni serio problema filosofico l'incertezza arriva giù, fino alle radici. Si deve sempre esser pronti a imparare qualcosa di completamente nuovo. (p. I, n. 15)
I
n filosofia non è soltanto necessario imparare caso per caso che cosa si debba dire su un certo oggetto; è anche necessario imparare come se ne debba parlare. Si deve imparare, sempre di nuovo, il metodo per affrontarlo. (p. III, n. 43)
Ovviamente le citazioni in questa direzione potrebbero moltiplicarsi:
Dipingo quello che vedo dalla mia finestra. Un posto ben preciso, determinato dalla sua posizione nell'architettura di una casa, lo dipingo in colore ocra. Dico che vedo questo punto in questo colore. Ciò non significa che qui io veda il colore ocra, perché questa sostanza colorata, ambientata così potrebbe apparire più chiara, più scura, più rossiccia (eccetera) dell'ocra. Ma che dire se qualcuno volesse che io gli indicassi l'esatta tonalità di colore che vedo in quel punto? - In che modo dovrei indicargliela, e in che modo dovrei determinarla? Si potrebbe chiedere che io produca un campione di colore (un campione di carta di questo colore). Non dico che un confronto di questo genere sarebbe del tutto privo di interesse: esso però ci mostra che non è chiaro già fin dal principio in qual modo si debbano confrontare le tonalità dei colori e che cosa significhi eguaglianza di colore. (p. I, n. 59)
Non si può immaginare che certi uomini abbiano una geometria dei colori diversa dalla nostra? Questo vuol sicuramente dire: Non si possono immaginare uomini, che abbiano concetti di colore diversi dai nostri? E ciò significa a sua volta: Non si possono immaginare uomini che non abbiano i nostri concetti di colore - e tuttavia abbiano concetti di colore che ai nostri concetti di colore siano imparentati in modo tale che noi li chiameremmo ancora ' concetti di colore? (p. III, n. 86)
Lasciamo perciò al lettore di compiere l’avventura della sua immersione in questo pensare in assoluta libertà e cerchiamo di isolare alcuni frammenti in cui la dimensione mistica appaia in maggiore trasparenza:
Nella vita di tutti i giorni noi siamo praticamente circondati da colori del tutto impuri. Ed è tanto più degno di nota, perciò, che abbiamo costruito un concetto di colori puri. (p. III, p. 59)
Se per i colori esistesse una teoria dell'armonia, essa comincerebbe con il distribuire i colori in differenti gruppi; con il vietare certe mescolanze o certi accostamenti e con il permettere altri; e, come la teoria dell'armonia, non giustificherebbe le sue regole. (p. I, n. 74)
Un colore riluce in un ambiente (come gli occhi sorridono soltanto in un volto). (p. I, n. 55)
D’altronde, a mio avviso, non è possibile riflettere sul colore, senza porsi il problema del colore puro, se non a partire dalla dimensione mistica del colore stesso: Come posso descrivere a un tizio in che modo noi impieghiamo la parola 'domani'? Posso insegnarlo a un bambino; ma questo non vuol dire descrivergli l'uso. Certo, però, io posso descrivere il modo di procedere di gente che abbia un concetto, per esempio 'verde che dà sul rosso', che noi non possediamo? - In ogni caso, questa prassi non posso insegnarla a nessuno. (p. III, n. 122)
Viene la tentazione di fronte a questo squarcio di Wittgenstein di parafrasare o di continuare in questa direzione – anche se non sono in grado di definire il concetto di “verde che dà sul rosso” posso averne l’intuizione: Come c'è un orecchio assoluto, e c'è gente che non ce l'ha, così si potrebbe benissimo pensare che, per quanto riguarda il vedere i colori, esista un gran numero di talenti diversi. Forse che tutti dovrebbero conoscere colori 'caldi ' e colori 'freddi'? A meno che non si impari semplicemente a chiamar così, o così, una certa disgiunzione di colori. Non potrebbe darsi, per esempio, che un pittore non avesse nessun concetto affatto dei 'quattro colori puri', e trovasse addirittura ridicolo il parlare di colori del genere? (p. III, n. 28)
Perciò: potrei allora avere un’intuizione mistica del Divino pur senza avere la capacità linguistica di formularla in un enunciato logicamente accettabile?
Quando diciamo che “il giallo saturo è più chiaro del blu saturo” non è una proposizione della psicologia (perché soltanto così, potrebbe essere storia naturale) – questo significa: noi non la impieghiamo come proposizione della storia naturale; e allora la questione è: che aspetto ha l’altro impiego, quello atemporale?” (p. III, n. 9)
E ancora aggiungerei come chiave di lettura di questo breve e aforistico scritto una raccomandazione che forse è valida per la ricerca del filosofo in toto: non conta tanto quello che Wittgenstein dice quanto, e forse ancora di più, quello che non dice e solo suggerisce, o meglio direi lascia trasparire.
Pensa a come un pittore rappresenterebbe la trasparenza attraverso un vetro colorato in rosso. Ciò che ne risulta è la complicata immagine di una superficie. Cioè: l'immagine conterrà un gran numero di gradazioni di rosso e di altri colori, messe l'una accanto all'altra. E analogamente se si guardasse attraverso un vetro blu. Ma che dire, se si dipingesse un quadro in cui là dove una certa cosa, che prima dava sull'azzurro o sul rosso, ora desse sul bianco.
Trattandosi in fondo di un saggio sui colori l’intuizione che i colori traspaiano gli uni dagli altri non è forse essenziale?
Per terminare questo breve contributo vale la pena di adottare lo schema circolare del pensiero greco e di ritornare all’inizio: se nel Tractatus cercava innanzitutto di emanciparsi dai problemi della psicologia, pur rimanendo entro i limiti di un approccio di tipo realista, nel prosieguo delle Ricerche invece la logica isolava dal mondo il soggetto metafisico, non più rappresentabile nei termini di semplice io; qualunque discorso implica a questo punto una difficile mescolanza tra logica pura e intuizione trascendente.
Vorrei solo aggiungere che, qualsiasi significato cerchiamo di sostituire al termine di Mistico, che deriva alla radice del greco Μύὠ, tacere, esso implica il riferimento a un piano diverso da quello puramente teoretico o logico. La verifica stessa di una proposizione è muta; coerentemente, per Wittgenstein, il piano del Mistico sta oltre perfino a quello della filosofia e apre al valore supremo: è la vita personale, l'etica, l'estetica, il fatto dell'esistenza del mondo. Viene naturale citare una delle proposizioni conclusive del Tractatus logico-philosophicus: «Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v'è salito).» (6.54)
Come non vedere in questo una reminiscenza del Sutra in cui il Buddha consiglia di lasciar perdere la zattera che pure ci ha portati all’altra riva?
In conclusione, ritornando al significativo sottotitolo di questo testo “Una grammatica del vedere” vorrei rammentare il celebre aforisma di Marcel Proust: “Le vrai voyage ce n’est pas de chercher des nouveaux paysages mais un nouveau regard” – forse tutta la ricerca di Wittgenstein non tende altro che a questo, a fondare un nuovo sguardo sul mondo, indispensabile non tanto all’uomo del ventesimo secolo, quanto all’essere umano autentico di ogni prospettiva mistica.
(Sergio Gandini)