Letture
Nicolas Malabranche, Trattato dell'amore di Dio. Il Seicento è il secolo del Barocco e di Caravaggio, delle Meditatio Mortis, della definitiva diffusione della rivoluzione scientifica – è un secolo di enormi contraddizioni. Queste sono presenti da sempre nell’uomo: proprio un grande pensatore del Seicento, Pascal appunto, ha cercato di evidenziare l’intrinseca paradossalità dell’essere umano sospeso da sempre tra due infiniti, l’incommensurabilmente grande e l’illimitatamente microscopico, esitante tra le ragioni della mente e quelle del cuore, tra razionalità e finesse. |
In un certo senso ritengo che siamo tutti figli del Seicento: sicuramente l’umanità è, nel suo complesso, erede di complessi fenomeni di stratificazione e di formazione che si originano nelle ere geologiche che hanno reso possibile la Vita sulla terra fino ad arrivare agli attuali processi culturali, tuttavia esistono dei punti privilegiati, degli snodi essenziali in questo divenire, e il Seicento è quello più vicino a noi. Nel bene e nel male.
Fu il secolo di Spinoza, di uno dei più grandi tentativi sistematici di dare forma pensabile alla relazione fra Divino e umano, e anche quello di Bacone che, mediante la sua idea del potere che l’uomo avrebbe potuto conseguire sulla Natura, preparò l’affermazione di quella mentalità tecnica con cui dobbiamo continuare a fare i conti.
Il nucleo centrale dell’argomentazione filosofica di Malebranche potrebbe essere sintetizzato e presentato in questo modo anche al lettore non versato nelle questioni filosofiche: come potrebbero gli esseri umani muovere anche solo un braccio se non sanno precisamente neppure che cosa si debba fare per muovere un dito? Solo Dio stesso può essere la causa reale del movimento del nostro braccio che avviene in occasione dell’esprimersi dell’atto della nostra volontà.
Probabilmente è difficile comprendere quale intuizione ontologica intendesse indicare l’autore, giacché ogni interprete di un filosofo finisce per sovrapporre le proprie intuizioni e i propri vissuti alla lettera di un pensatore, in una perenne ermeneutica: eppure in questa intuizione di Malebranche, in verità, mi è sempre sembrato di scorgere questo paradosso che l’universo stesso, nulla esisterebbe, in una sorta di creazione continua e di rigenerazione, se Dio non attuasse in ogni istante il miracolo dell’Essere.
Conseguentemente la dottrina filosofica di Malebranche è passata alla storia sotto il nome di occasionalismo: la concezione di Malebranche appare, sotto numerosi aspetti, analoga a quella di Spinoza con una marcata differenza, che il Dio di Spinoza è Sostanza – erede certo della scolastica spagnola ma anche dell’ebraismo cabalistico – mentre il Dio che Malebranche si rappresenta è quello della tradizione religiosa agostiniana.
Certo leggere Malebranche oggi può risultare per nulla facile, a causa di quella che Gadamer ha sapientemente evidenziato come la distanza storica: intriso del pensiero e del lessico religioso degli Oratoriani, il Nostro è un autore ormai poco considerato e praticato dagli storici della filosofia, ad eccezione degli specialisti, e poco letto. Nel 1660, dopo la morte di sua madre seguita poco dopo da quella del padre, Malebranche vive una profonda crisi esistenziale, simile a quella di Pascal, ed entra nella congregazione dell'Oratorio, ispirata all'omonima fondazione romana di Filippo Neri; tale Congregazione, fondata dal cardinale Pierre de Bérulle in pieno clima di Controriforma cattolica, gli offre un ambiente molto favorevole allo sviluppo di una natura come la sua, portata al raccoglimento dell'anima e alla concentrazione del pensiero, come, di fatto, era la vita ritirata e laboriosa degli oratoriani, e che quindi si addice perfettamente al suo spirito.
Sempre un essere umano è la relazione che accade fra le sue potenzialità e l’ambiente in cui si trova a vivere e, direi volentieri, gli incontri formativi, che gli vengono offerti dalle circostanze storiche e non sono mai casuali: ciò accadde certo anche a Malebranche, che aveva bisogno di quel clima di raccoglimento per pensare alla luce della Verità. La sua opera maggiore infatti presenta il titolo di: Ricerca della verità, e venne pubblicata a Parigi nel 1674-75; furono davvero gli anni d’oro per il pensiero francese, giacché nel 1670 erano appena usciti postumi i Pensées di Pascal.
Come abbiamo già detto Malebranche non è di moda e si tende spesso a considerare i suoi scritti entro i limiti di un'opera di apologetica cristiana, dimenticando sovente lo spessore filosofico e metafisico delle sue ricerche.
“Le fini, quelque grand qu’il puisse être, ne peut avoir par lui-même aucun rapport à l’infini. Dix mille siècles par rapport à l’eternité ne sont rien. Le rapport de l’étendue de tout l’univers à des espaces qui n’auroient point de bornes, ne peut s’exprimer que par zéro”. (Traité de morale, II, VII, Œuvres, pp. 590-1, édition établie par G. Rodis-Lewis, Paris, 1979-1992).
“Il finito, per quanto grande possa essere, non può avere in se stesso nessun rapporto con l’infinito. Diecimila secoli in rapporto all’eternità sono un nulla. Il rapporto dell’estensione dell’universo a spazi privi di limiti non può esprimersi che mediante lo zero” (traduzione italiana di Sergio Gandini).
Basta credo questa breve citazione per restituire al nostro autore tutta la complessa curvatura del suo pensiero e dei suoi interessi: notiamo che nel 1699 è nominato membro onorario dell'Académie des sciences e nell'ultimo periodo della sua vita coltiva in modo particolare il calcolo infinitesimale e corregge le leggi di Cartesio sul moto, elaborando anche una teoria che cerca di spiegare la differenza dei colori in base alla frequenza delle vibrazioni.
Al lettore non intendiamo certo proporre la Ricerca, ma un breve testo più tardo: solo in parte si tratta di uno scritto d’occasione, in quanto egli stesso ammette che fu provocato dal padre benedettino Francois Lamy e fa cenni diretti al Quietismo che era già stato formalmente condannato. In un senso più profondo potremmo invece scorgere il bisogno dell’autore di ritornare su un tema ristretto, ma essenziale, della religione, in un modo sapiente che riafferma la parte essenziale della sua riflessione nel momento della raggiunta maturità.
Ci sembra bello proporre proprio nel tempo del Natale questo testo alla meditazione del nostro lettore: il libro è tuttora disponibile in questa versione filologicamente ineccepibile curata da Domenico Bosco e accompagnata dal testo originale in francese. La lingua di Malebranche, malgrado qualche arcaismo che comunque rimanda a un altro grande, essenziale per l’universo francese, Montaigne, è secca e asciutta, un autentico esempio di finesse, per fare un altro riferimento a Pascal.
Con estrema semplicità potremmo dire che, tra la fine del Seicento e l'inizio del Settecento ritorna interesse per la questione, cruciale per il credente, se l'amore per Dio debba essere lontano da ogni interesse. L’argomentazione centrale di Malebranche, come si riscontra sempre nei pensatori davvero profondi, cerca di attuare una mediazione che non direi dialettica, ma paradossale, tra due istanze differenti. Da un lato occorre riconoscere il dato di fatto che la ricerca del piacere si origina nell’essere umano dall'impulso a raggiungere la felicità che gli è stato trasmesso direttamente da Dio: questo implica che noi stessi siamo parte di Dio e, dunque, non può esistere un amore assolutamente disinteressato e libero dal nostro desiderio di essere felici, perché la nostra motivazione iniziale rimane il piacere e il nostro fine è la felicità. Dall’altro lato appare l’esigenza di apertura ad una diversa intuizione del Divino, più spaziosa.
Al di là dell’apparente razionalità che segna la sua scrittura è anche questo Altro che interessa Nicolas Malebranche, questo ineffabile oltre, in cui si situa l’Amore Divino. Già nel precedente Traité de morale, Malebranche aveva osservato che la parola amare significa cose molto diverse tra le quali occorre distinguere con cura. Questo bisogno di classificare i differenti tipi di amore emerge ancora in alcuni passi del testo che consideriamo, per esempio, qui:
“Souvent on aime les gens sans pouvoir dire pourquoi, parce qu’on n’a pas fait de réflexion sur le motif qui a excité l’amour; mais en y pensant attentivement on le découvre ce motif”. (p. 118)
“Spesso si amano le persone senza poter dire perché, poiché non si è fatta riflessione sul motivo che fa nascere l’amore; ma pensandoci con attenzione si scopre questo motivo”. (traduzione di Domenico Bosco)
Liberato quindi, mediante questa mia semplice premessa iniziale, il lettore dal dovere di capire il senso e il fine di questo breve scritto vorrei che procedesse alla sua lettura in questo tempo di avvento con animo libero da ogni impegno e preoccupazione, in modo da assaporare, magari in lingua originale, se le sue conoscenze glielo permettono, il nitore della prosa di Nicolas. Allora, se si inizia a leggere il testo, più che nel suo preciso argomentare, nella limpidezza di alcuni passaggi, veri squarci in cui, come dicevo all’inizio, si rivela la trasparenza dell’Essere, appaiono certi doni, come questo:
“…si Dieu ne produit en vous le motif de son amour, il est impossible que vous l’aimiez comme votre fin, comme votre souverain bien”. (p. 94)
“…se Dio non produce in voi il motivo del suo amore, è impossibile che lo amiate come vostro fine, come vostro sommo bene”. (traduzione di Domenico Bosco)
Eppure Malebranche non è, a rigor di termini, né un mistico, affermava infatti di non aver mai avuto esperienza di stati straordinari né, appunto un quietista alla Fénelon, né tantomeno un subitista alla Miguel De Molinos: è semplicemente Nicolas Malebranche, un vero razionalista del Seicento, cresciuto con Descartes e Agostino. Così possiamo godere del nitore della sua prosa in questa argomentazione complessa:
“Je puis cependant vous dire que Dieu veut que je veuille invinciblement être heureux, parce qu’il m’a fait libre; et qu’il ne pourrait ni me récompenser ni me punir, comme moi, je ne pourrait ni mériter ni démériter, si le plaisir et la douleur, la perfection ou la corruption de ma natura, m’étaient indifférents. Je puis vous dire qu’ayant nécessairement voulu que sa loi, l’ordre immuable, fût aussi la notre: il fallait non seulement que la beauté de cette loi nous plût, mais encore que nous aimassions naturellement ce que nous plaît”. (p. 104-106)
“Posso tuttavia dirvi che Dio vuole che io voglia invincibilmente essere felice, perché mi ha fatto libero; e non potrebbe né ricompensarmi né punirmi, come io non potrei né meritare né demeritare, se mi fossero indifferenti il piacere e il dolore, la perfezione e la corruzione della mia natura. Vi posso dire che, avendo necessariamente voluto che la sua legge, l’ordine immutabile, fosse anche la nostra, bisognava non solamente che la bellezza di questa legge ci piacesse, ma ancora che amassimo naturalmente ciò che ci piace”. (traduzione di Domenico Bosco)
Leggiamo però senza pregiudizi e con autentica attenzione invece un altro di questi passaggi:
“Ne me demandez pas pourquoi je veux être heureux, demandez-le à celui qui m’a fait, car cela ne dépend nullement de moi”. (p. 104)
“Non domandatemi perché voglio essere felice, domandatelo a colui che mi ha fatto, perché questo non dipende assolutamente da me”. (traduzione di Domenico Bosco)
In passaggi come questo il razionalismo e l’argomentazione tipiche del filosofo e del religioso sembrano mettersi da parte e si rivela la scientia intuitiva, per servirci della stessa espressione di Spinoza. Ma Malebranche rimane uomo del suo secolo e anche questo testo si conclude col tentativo di sintetizzare in modo quasi assiomatico le conclusioni alle quali è giunto: sempre in un’ottica simile a quella spinoziana noi siamo portati a riconoscere che solo Dio può essere l’oggetto su cui convogliare il nostro amore mediante una scelta pienamente razionale.
Eppure così si conclude il libro:
“Nous humanisons souvent la divinité, et nous attribuons souvent des desseins, et une conduire semblable à la nôtre; c’est là une source féconde d’erreurs…Dieu veut invinciblement être tel qu’il est; il veut aussi que nous le voulions nous-mêmes, et que nous l’aimons tel qu’il est, et non tel qu’il nous plaît de supposer qu’il soit”. (p. 138)
“Noi umanizziamo spesso la divinità, e le attribuiamo spesso dei disegni e una condotta simile alla nostra; sta qui una fonte feconda di errore…Dio vuole invincibilmente essere come è; vuole anche che lo vogliamo noi stessi, e che lo amiamo come è, e non come ci piace supporre che sia”. (traduzione di Doenico Bosco)
Lasciamo quindi il lettore libero di meditare il testo proprio in questo momento dell’anno, gli auguriamo di cuore che possa trovare, proprio in questo periodo che, troppo spesso, viene dissipato in preparativi e occupazioni forse doverose ma poco essenziali, un’anima davvero libera, tranquilla e distaccata che possa veramente disporlo a questa festa dello Spirito che consente di sfiorare l’Eterno. Penso che questo lucido quanto folgorante trattato sia un modo buono per disporsi in questo tempo di avvento a incontrare un Divino che, pur entrando nelle nostre viscere, rimanga nient’altro che se stesso.
(Sergio Gandini)
Fu il secolo di Spinoza, di uno dei più grandi tentativi sistematici di dare forma pensabile alla relazione fra Divino e umano, e anche quello di Bacone che, mediante la sua idea del potere che l’uomo avrebbe potuto conseguire sulla Natura, preparò l’affermazione di quella mentalità tecnica con cui dobbiamo continuare a fare i conti.
Il nucleo centrale dell’argomentazione filosofica di Malebranche potrebbe essere sintetizzato e presentato in questo modo anche al lettore non versato nelle questioni filosofiche: come potrebbero gli esseri umani muovere anche solo un braccio se non sanno precisamente neppure che cosa si debba fare per muovere un dito? Solo Dio stesso può essere la causa reale del movimento del nostro braccio che avviene in occasione dell’esprimersi dell’atto della nostra volontà.
Probabilmente è difficile comprendere quale intuizione ontologica intendesse indicare l’autore, giacché ogni interprete di un filosofo finisce per sovrapporre le proprie intuizioni e i propri vissuti alla lettera di un pensatore, in una perenne ermeneutica: eppure in questa intuizione di Malebranche, in verità, mi è sempre sembrato di scorgere questo paradosso che l’universo stesso, nulla esisterebbe, in una sorta di creazione continua e di rigenerazione, se Dio non attuasse in ogni istante il miracolo dell’Essere.
Conseguentemente la dottrina filosofica di Malebranche è passata alla storia sotto il nome di occasionalismo: la concezione di Malebranche appare, sotto numerosi aspetti, analoga a quella di Spinoza con una marcata differenza, che il Dio di Spinoza è Sostanza – erede certo della scolastica spagnola ma anche dell’ebraismo cabalistico – mentre il Dio che Malebranche si rappresenta è quello della tradizione religiosa agostiniana.
Certo leggere Malebranche oggi può risultare per nulla facile, a causa di quella che Gadamer ha sapientemente evidenziato come la distanza storica: intriso del pensiero e del lessico religioso degli Oratoriani, il Nostro è un autore ormai poco considerato e praticato dagli storici della filosofia, ad eccezione degli specialisti, e poco letto. Nel 1660, dopo la morte di sua madre seguita poco dopo da quella del padre, Malebranche vive una profonda crisi esistenziale, simile a quella di Pascal, ed entra nella congregazione dell'Oratorio, ispirata all'omonima fondazione romana di Filippo Neri; tale Congregazione, fondata dal cardinale Pierre de Bérulle in pieno clima di Controriforma cattolica, gli offre un ambiente molto favorevole allo sviluppo di una natura come la sua, portata al raccoglimento dell'anima e alla concentrazione del pensiero, come, di fatto, era la vita ritirata e laboriosa degli oratoriani, e che quindi si addice perfettamente al suo spirito.
Sempre un essere umano è la relazione che accade fra le sue potenzialità e l’ambiente in cui si trova a vivere e, direi volentieri, gli incontri formativi, che gli vengono offerti dalle circostanze storiche e non sono mai casuali: ciò accadde certo anche a Malebranche, che aveva bisogno di quel clima di raccoglimento per pensare alla luce della Verità. La sua opera maggiore infatti presenta il titolo di: Ricerca della verità, e venne pubblicata a Parigi nel 1674-75; furono davvero gli anni d’oro per il pensiero francese, giacché nel 1670 erano appena usciti postumi i Pensées di Pascal.
Come abbiamo già detto Malebranche non è di moda e si tende spesso a considerare i suoi scritti entro i limiti di un'opera di apologetica cristiana, dimenticando sovente lo spessore filosofico e metafisico delle sue ricerche.
“Le fini, quelque grand qu’il puisse être, ne peut avoir par lui-même aucun rapport à l’infini. Dix mille siècles par rapport à l’eternité ne sont rien. Le rapport de l’étendue de tout l’univers à des espaces qui n’auroient point de bornes, ne peut s’exprimer que par zéro”. (Traité de morale, II, VII, Œuvres, pp. 590-1, édition établie par G. Rodis-Lewis, Paris, 1979-1992).
“Il finito, per quanto grande possa essere, non può avere in se stesso nessun rapporto con l’infinito. Diecimila secoli in rapporto all’eternità sono un nulla. Il rapporto dell’estensione dell’universo a spazi privi di limiti non può esprimersi che mediante lo zero” (traduzione italiana di Sergio Gandini).
Basta credo questa breve citazione per restituire al nostro autore tutta la complessa curvatura del suo pensiero e dei suoi interessi: notiamo che nel 1699 è nominato membro onorario dell'Académie des sciences e nell'ultimo periodo della sua vita coltiva in modo particolare il calcolo infinitesimale e corregge le leggi di Cartesio sul moto, elaborando anche una teoria che cerca di spiegare la differenza dei colori in base alla frequenza delle vibrazioni.
Al lettore non intendiamo certo proporre la Ricerca, ma un breve testo più tardo: solo in parte si tratta di uno scritto d’occasione, in quanto egli stesso ammette che fu provocato dal padre benedettino Francois Lamy e fa cenni diretti al Quietismo che era già stato formalmente condannato. In un senso più profondo potremmo invece scorgere il bisogno dell’autore di ritornare su un tema ristretto, ma essenziale, della religione, in un modo sapiente che riafferma la parte essenziale della sua riflessione nel momento della raggiunta maturità.
Ci sembra bello proporre proprio nel tempo del Natale questo testo alla meditazione del nostro lettore: il libro è tuttora disponibile in questa versione filologicamente ineccepibile curata da Domenico Bosco e accompagnata dal testo originale in francese. La lingua di Malebranche, malgrado qualche arcaismo che comunque rimanda a un altro grande, essenziale per l’universo francese, Montaigne, è secca e asciutta, un autentico esempio di finesse, per fare un altro riferimento a Pascal.
Con estrema semplicità potremmo dire che, tra la fine del Seicento e l'inizio del Settecento ritorna interesse per la questione, cruciale per il credente, se l'amore per Dio debba essere lontano da ogni interesse. L’argomentazione centrale di Malebranche, come si riscontra sempre nei pensatori davvero profondi, cerca di attuare una mediazione che non direi dialettica, ma paradossale, tra due istanze differenti. Da un lato occorre riconoscere il dato di fatto che la ricerca del piacere si origina nell’essere umano dall'impulso a raggiungere la felicità che gli è stato trasmesso direttamente da Dio: questo implica che noi stessi siamo parte di Dio e, dunque, non può esistere un amore assolutamente disinteressato e libero dal nostro desiderio di essere felici, perché la nostra motivazione iniziale rimane il piacere e il nostro fine è la felicità. Dall’altro lato appare l’esigenza di apertura ad una diversa intuizione del Divino, più spaziosa.
Al di là dell’apparente razionalità che segna la sua scrittura è anche questo Altro che interessa Nicolas Malebranche, questo ineffabile oltre, in cui si situa l’Amore Divino. Già nel precedente Traité de morale, Malebranche aveva osservato che la parola amare significa cose molto diverse tra le quali occorre distinguere con cura. Questo bisogno di classificare i differenti tipi di amore emerge ancora in alcuni passi del testo che consideriamo, per esempio, qui:
“Souvent on aime les gens sans pouvoir dire pourquoi, parce qu’on n’a pas fait de réflexion sur le motif qui a excité l’amour; mais en y pensant attentivement on le découvre ce motif”. (p. 118)
“Spesso si amano le persone senza poter dire perché, poiché non si è fatta riflessione sul motivo che fa nascere l’amore; ma pensandoci con attenzione si scopre questo motivo”. (traduzione di Domenico Bosco)
Liberato quindi, mediante questa mia semplice premessa iniziale, il lettore dal dovere di capire il senso e il fine di questo breve scritto vorrei che procedesse alla sua lettura in questo tempo di avvento con animo libero da ogni impegno e preoccupazione, in modo da assaporare, magari in lingua originale, se le sue conoscenze glielo permettono, il nitore della prosa di Nicolas. Allora, se si inizia a leggere il testo, più che nel suo preciso argomentare, nella limpidezza di alcuni passaggi, veri squarci in cui, come dicevo all’inizio, si rivela la trasparenza dell’Essere, appaiono certi doni, come questo:
“…si Dieu ne produit en vous le motif de son amour, il est impossible que vous l’aimiez comme votre fin, comme votre souverain bien”. (p. 94)
“…se Dio non produce in voi il motivo del suo amore, è impossibile che lo amiate come vostro fine, come vostro sommo bene”. (traduzione di Domenico Bosco)
Eppure Malebranche non è, a rigor di termini, né un mistico, affermava infatti di non aver mai avuto esperienza di stati straordinari né, appunto un quietista alla Fénelon, né tantomeno un subitista alla Miguel De Molinos: è semplicemente Nicolas Malebranche, un vero razionalista del Seicento, cresciuto con Descartes e Agostino. Così possiamo godere del nitore della sua prosa in questa argomentazione complessa:
“Je puis cependant vous dire que Dieu veut que je veuille invinciblement être heureux, parce qu’il m’a fait libre; et qu’il ne pourrait ni me récompenser ni me punir, comme moi, je ne pourrait ni mériter ni démériter, si le plaisir et la douleur, la perfection ou la corruption de ma natura, m’étaient indifférents. Je puis vous dire qu’ayant nécessairement voulu que sa loi, l’ordre immuable, fût aussi la notre: il fallait non seulement que la beauté de cette loi nous plût, mais encore que nous aimassions naturellement ce que nous plaît”. (p. 104-106)
“Posso tuttavia dirvi che Dio vuole che io voglia invincibilmente essere felice, perché mi ha fatto libero; e non potrebbe né ricompensarmi né punirmi, come io non potrei né meritare né demeritare, se mi fossero indifferenti il piacere e il dolore, la perfezione e la corruzione della mia natura. Vi posso dire che, avendo necessariamente voluto che la sua legge, l’ordine immutabile, fosse anche la nostra, bisognava non solamente che la bellezza di questa legge ci piacesse, ma ancora che amassimo naturalmente ciò che ci piace”. (traduzione di Domenico Bosco)
Leggiamo però senza pregiudizi e con autentica attenzione invece un altro di questi passaggi:
“Ne me demandez pas pourquoi je veux être heureux, demandez-le à celui qui m’a fait, car cela ne dépend nullement de moi”. (p. 104)
“Non domandatemi perché voglio essere felice, domandatelo a colui che mi ha fatto, perché questo non dipende assolutamente da me”. (traduzione di Domenico Bosco)
In passaggi come questo il razionalismo e l’argomentazione tipiche del filosofo e del religioso sembrano mettersi da parte e si rivela la scientia intuitiva, per servirci della stessa espressione di Spinoza. Ma Malebranche rimane uomo del suo secolo e anche questo testo si conclude col tentativo di sintetizzare in modo quasi assiomatico le conclusioni alle quali è giunto: sempre in un’ottica simile a quella spinoziana noi siamo portati a riconoscere che solo Dio può essere l’oggetto su cui convogliare il nostro amore mediante una scelta pienamente razionale.
Eppure così si conclude il libro:
“Nous humanisons souvent la divinité, et nous attribuons souvent des desseins, et une conduire semblable à la nôtre; c’est là une source féconde d’erreurs…Dieu veut invinciblement être tel qu’il est; il veut aussi que nous le voulions nous-mêmes, et que nous l’aimons tel qu’il est, et non tel qu’il nous plaît de supposer qu’il soit”. (p. 138)
“Noi umanizziamo spesso la divinità, e le attribuiamo spesso dei disegni e una condotta simile alla nostra; sta qui una fonte feconda di errore…Dio vuole invincibilmente essere come è; vuole anche che lo vogliamo noi stessi, e che lo amiamo come è, e non come ci piace supporre che sia”. (traduzione di Doenico Bosco)
Lasciamo quindi il lettore libero di meditare il testo proprio in questo momento dell’anno, gli auguriamo di cuore che possa trovare, proprio in questo periodo che, troppo spesso, viene dissipato in preparativi e occupazioni forse doverose ma poco essenziali, un’anima davvero libera, tranquilla e distaccata che possa veramente disporlo a questa festa dello Spirito che consente di sfiorare l’Eterno. Penso che questo lucido quanto folgorante trattato sia un modo buono per disporsi in questo tempo di avvento a incontrare un Divino che, pur entrando nelle nostre viscere, rimanga nient’altro che se stesso.
(Sergio Gandini)