Letture
Un apoftegma di Antonio Abate
L'Apophthegmata Patrum è il titolo tradizionalmente dato a diverse collezioni di Detti dei Padri del Deserto: in greco addirittura i titoli sono tre: ἀποφθέγματα τῶν ἁγίων γερόντων, ἀποφθέγματα τῶν πατέρων, τὸ γεροντικόν. Si tratta originariamente di letteratura orale poiché questi detti furono tramandati da monaco a monaco, e solo successivamente trascritti, approssimativamente verso il V secolo d.C., alcuni in lingua copta, all’interno della quale occorrerebbe distinguere tra almeno tre dialetti differenti, altri in greco o altre lingue ancora. Sinteticamente si può dire che questi scritti contengono storie di saggezza che descrivono le pratiche spirituali e le esperienze dei primi eremiti che vissero nel deserto.
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Si potrebbe parlare a lungo del deserto, almeno in due direzioni di senso, quella della dinamica del provvisorio e quella della educazione all'assoluto: il deserto, come luogo ideale che diventa simbolo del distacco dal mondo, non può essere considerato una condizione permanente. Tanto per il popolo eletto, nel racconto dell’Esodo, quanto per Gesù stesso il soggiorno nel deserto fa parte di un itinerario spirituale che conduce all’incontro privilegiato con Dio. Il deserto diventa simbolo di un ambiente elementare, dove si risvegliano i bisogni essenziali: qui è possibile solo avanzare nudi, deboli, privi di ogni appoggio umano, nel digiuno del cibo materiale e spirituale, qui, infine, la vera sicurezza può arrivare soltanto dalla fede nell'unico Signore, non certo dagli idoli costruiti dalla cultura umana. Siamo quindi di fronte a una ben precisa corrente delle varie presenti nella spiritualità cristiana situata in un’area più ideale che definibile geograficamente, in un luogo che è, se così si può dire, sia Oriente sia Occidente. Si tratta dunque di una raccolta di testimonianze diverse, unificate però dalla pregnanza dell’espressione e dal riferimento diretto all’esperienza: non si tratta di esegesi, né di teologia, ma soltanto di ciò che qualcuno ha maturato dal proprio esercizio di vita e che viene comunicato solo affinché possa essere di giovamento ad altri incamminati nella medesima ricerca.
L’influenza degli Apophthegmata Patrum fu subito grandissima, ma a questo proposito occorre già fare delle precisazioni: né San Girolamo né Sant'Agostino ebbero modo di leggerli, poiché furono redatti per scritto solo in un periodo temporale successivo, è tuttavia verosimile che conoscessero la Vita di Sant’Antonio di Atanasio e altri testi riguardanti gli eremiti. L’interesse per questi testi fondamentali da parte di tutta una corrente della spiritualità cristiana continua nel corso dei secoli e si rinnova anche attualmente: citiamo, per esempio, Thomas Merton che pubblicò nel 1960 una propria antologia col titolo di The Wisdom of the Desert (traduzione italiana: La saggezza del deserto. Detti dei primi eremiti cristiani) e tanti altri dopo di lui, per cui si può affermare che questa eco non è mai diminuita ma tuttora è viva, e che sempre ricercatori dell’Invisibile ritornano, per ricevere energia alla loro pratica, a queste fonti originali di spiritualità. Nella premessa alla sua personale antologia di questi detti Merton precisa:
Questa antologia di detti dai Verba Seniorum non va intesa come un'opera di valore scientifico. Al contrario, è un'edizione libera e informale di storie scelte qua e là tra le varie versioni originali latine, senz'ordine e senza l'individuazione delle fonti specifiche. Il libro si prefigge come unico scopo quello di stimolare ed edificare il lettore. In altre parole, essendo un monaco del ventesimo secolo, sento di potermi avvalere con una certa libertà dei privilegi di cui godevano i monaci antichi; perciò ho costruito una raccolta tutta mia, senza criteri, intenzioni o propositi specifici, al solo scopo di conservare queste storie e goderne con gli amici. Così è nato il libro.
Proprio dallo spirito libero con il quale Merton approccia questo testo classico mi è venuto lo stimolo a isolare questo frammento, per ricevere da esso istruzioni alla pratica meditativa comune alla nostra esperienza.
Il frammento è attribuito ad Antonio abate: tra i tanti Padri (e ci piace ricordare anche Madri, tra cui cito per esempio Santa Sincletica), spicca la sua figura, resa familiare poi dall’immagine di tanti dipinti a partire dal quattrocento, ma anche vivissima nella tradizione popolare. È vero che esistono differenti versioni degli Apophthegmata Patrum, eppure nella maggioranza delle versioni questo frammento appare tradizionalmente come il primo testo nella raccolta e ciò assume per me una particolare rilevanza. Propongo al lettore questo testo nella versione edita da Città Nuova nel 1997, e curata da Luciana Mortari: essa unisce al pregio di essere quasi tascabile, quello di una precisa ricerca esegetica e di un inquadramento storico delle singole figure dei Padri.
Al lettore invece eventualmente interessato a fare esercizio di esegesi biblica segnalo anche un valido articolo scritto da Louis Leloir, "Les Pères du désert et saint Benoît. Un apophtegme d'Antoine" e originariamente apparso su "NOUVELLE REVUE THÉOLOGIQUE" 102/2 (1980): tale articolo è disponibile anche in traduzione italiana su Internet. Lo cito perché esso rappresenta un interessante esempio di come sia possibile attualizzare e riferire alla pratica quotidiana i Detti dei Padri del deserto: infatti, pur partendo da una precisa impostazione, quella della pratica monacale secondo la regola benedettina, l’autore svolge considerazioni significative per la vita religiosa del cristiano, sia esso monaco oppure laico. Proprio pensando al valore spirituale di questo tipo di analisi cerco ora di svolgere alcune brevi riflessioni intorno a questo detto di Antonio abate che apre tradizionalmente la raccolta degli Apophthegmata Patrum.
Un giorno, il santo padre Antonio, mentre sedeva nel deserto, fu preso da sconforto e da una fitta tenebra di pensieri. E diceva a Dio: “O Signore, voglio, ma i pensieri me lo impediscono. Cosa posso fare nella mia afflizione?” Ora, sporgendosi un po', Antonio vide un altro come lui, che sta seduto e lavora, poi interrompe il lavoro, si alza in piedi e prega, poi di nuovo si mette seduto a intrecciare corde, e poi ancora si alza e prega. Era un angelo del Signore, mandato a correggere Antonio e dargli forza. E udì l'angelo che diceva: "Fa’ così e sarai salvo". All’udire queste parole, fu preso da grande gioia e coraggio: così fece e si salvò.
Per quanto le traduzioni siano solo tentativi di rendere in una lingua differente un significato, in questo caso spirituale, vale forse la pena di soffermarsi più da vicino su alcuni termini presenti nel testo e di sottoporli a un minimo di analisi filologica, magari integrando, come dovrebbe fare ogni buon traduttore, questa versione italiana con altre versioni, condotte in una lingua differente.
Il testo di Mortari dice mentre sedeva nel deserto: questa potrebbe apparire al lettore poco attento solo una notazione accidentale di luogo. Una versione francese propone questo inizio in modo secondo me più efficace: “Le saint abbé Antoine, assis un jour au désert, se trouva pris d’ennui et dans une grande obscurité de pensées…”. In effetti nell’originale greco troviamo καθίζομαι: questo termine ci pone immediatamente davanti all’evidenza dell’atto del sedere come pratica meditativa.
Altrettanto emblematico risulta il secondo termine, che Mortari rende con fu preso da sconforto: in francese suona come pris d’ennui che ha il pregio di evidenziare la radice greca originaria ἀκηδία. Di nuovo un termine gravido di senso: nell'antichità esso indicava uno stato inerte di mancanza di dolore e cura, una forma pervasiva di indifferenza che genera malinconia. Tale termine ebbe fortuna nel Medioevo, assurse a concetto della teologia morale, per indicare il torpore malinconico e l'inerzia che può crescere in coloro che erano dediti a vita contemplativa, e Tommaso d'Aquino lo riprende e infatti definisce l’accidia come il “rattristarsi del bene divino”, in grado di indurre inerzia nell'agire stesso del bene divino. Ma per ritornare nell’epoca precisa degli Apophthegmata Patrum, questa nozione di accidia era già stata sviluppata con attenzione da Evagrio Pontico che la aveva indicata come radice di tutti gli ostacoli che possono crescere in coloro che praticano una intensa attività meditativa. Al lettore eventualmente interessato ad approfondire questa complessa tematica segnalo infine l’ottimo testo di Gabriel Bunge: Akedia. Die geistliche Leher des Evagrios Pontikos vom Überdruss, apparso una prima volta in Italia nel 1992, presso le edizioni dell’Abbazia di Praglia, col titolo di Akèdia. La dottrina spirituale di Evagrio Pontico sull’accidia, e successivamente nel 1999, presso le Edizioni Qiqajon, con la nuova interpretazione Akedia. Il male oscuro.
Lascio suggestionare per l’ultima volta il lettore dalla traduzione francese anche nel commento al passaggio immediatamente successivo: “Seigneur, je veux être sauvé, mais les pensées ne me laissent pas ; que ferai-je dans mon affliction ? Comment serai-je sauvé?”. Forse essa evidenzia meglio la sottile implicazione fra accidia/pensare: questa attività, indotta dalla condizione di immobilità, non è certo l’attività teoretica di νόησις.
Tale termine viene usato per la prima volta da Diogene di Apollonia, discepolo di Anassimene, ma diventerà centrale in Platone, che considera la conoscenza noetica come il grado più alto del sapere che ha come oggetto le idee-valori raggiungibili tramite l'anima; tornerà poi in Aristotele, nel neoplatonismo e, in particolare, in Plotino, che identifica la noesi con l'intuizione immediata degli oggetti semplici quelli cioè non composti: i noemata; proprio questo termine arriverà fino a Husserl, come compimento della tradizione filosofica occidentale. I pensieri che possono assalire Antonio sono più probabilmente fantasie, forme di fantasticherie, idee fisse, immaginazioni mentali, visualizzazioni pericolose – infine demòni, come poi ci ha abituato l’immaginario appunto in tanti quadri a partire dal Medioevo.
Proprio il riferimento a questo immaginario mi permette un’interessante digressione: colgo l’occasione per rimandare il lettore eventualmente interessato a uno studio critico di Piotr Sniedziewski, Les papillons noirs et l’ennui de Flaubert (2019), anch’esso disponibile su Internet. Piotr Sniedziewski (nato nel 1976) è professore all'Istituto di filologia polacca dell'Università Adam Mickiewicz di Poznań e autore di svariati libri, tra cui ricordo The Melancholic Gaze (edizione polacca: Cracovia, 2011; edizione inglese: Berlino, 2018), nonché traduttore di testi di Flaubert: La tentazione di sant'Antonio (2010) e Memorie di un pazzo (2011). L’articolo cui mi riferisco è dedicato alla metafora del sole nero che gli scrittori romantici (Théophile Gautier, Victor Hugo, Gérard de Nerval e altri) usarono in più occasioni per descrivere stati di tristezza e malinconia. La stessa metafora compare nell'opera di Flaubert (in Madame Bovary, Salammbô, La Tentation de saint Antoine). Aggiungo infine che l’opera di Flaubert ispirò al noto pittore simbolista Odilon Redon addirittura tre serie di raccolte litografiche, rispettivamente nel 1888, composta da 11 tavole, 1889, 6 tavole e poi nel 1896, 23 tavole: questa serie è di grande lunga la più conosciuta e riprodotta e costituisce uno dei vertici dell’arte incisoria di tutti i tempi.
Leggendo le pagine di questo interessante saggio viene da domandarsi se proprio Flaubert, questo beffardo difensore dell'arte pura, non avesse al fondo una tentazione neoplatonizzante. In verità, al termine della notte oscura (uso di proposito questa espressione per suggerire al lettore un’altra suggestiva pista di lettura nella direzione di San Giovanni della Croce) delle allucinazioni nessuno potrebbe essere sicuro di cosa vede veramente l'eremita alla fine del libro. È una visione reale, oppure potrebbe trattarsi di un'altra allucinazione, un’ulteriore tentazione fantasiosa del Nemico, avversario satanico. Qui però accade qualcosa di stupefacente: mi vengono in mente i soli neri e i globuli color fuoco attraverso cui vediamo il volto di Rodolphe in Madame Bovary, i raggi dorati attorno alle pupille nere dell'amante di Emma... Vale la pena di porre l’opera di Flaubert in una prospettiva più ampia e cercare di collocarla nell'eredità romantica, evidenziando però con quale rabbia cercò di liberarsi dai suoi stereotipi.
Torniamo, dopo la nostra breve ma spero suggestiva digressione, ad Antonio abate. In ogni caso l’apoftegma mira a dare un insegnamento di salvezza. Influenzato da questo clima artistico mi viene spontaneo fare un riferimento al celebre interrogativo presente nell’Idiota di Dostoevskij: “Quale bellezza salverà il mondo?”. È implicito in quel chiedersi l’idea di guarigione. Credo che sia davvero questa la ricerca dei primi eremiti: la salvezza ricercata nel deserto è prima di tutto una guarigione dalle malattie che si possono generare nella solitudine del deserto, quando il cuore è toccato non dal sole nero ma dal Sole di Cristo, dalla rivelazione del Divino presente in ciascuno di noi. Nell’atmosfera a volte naïve che caratterizza gli apoftegmi (notiamo però che non si tratta certo di ingenuità, quanto di ricerca dell’essenzialità), risulta normale incontrare, dopo tentazioni demoniache, un angelo, in grado di istruire attraverso l’esempio, l’unica autentica modalità che consenta di apprendere qualcosa.
Quale insegnamento viene trasmesso al padre Antonio da questo inviato del Signore? Innanzitutto sottolineo che l’angelo viene rappresentato per due volte come assis (appunto seduto) e tressant la corde. Sono consapevole che il testo dice lavora e che l’intera tradizione benedettina fa di questo passaggio uno dei cavalli di battaglia di quella che comunemente, ma in modo del tutto improprio, viene indicata come la regola “Ora et labora” (in realtà questo binomio è stato creato e definito in tal modo solo nel XIX secolo). Nel breve spazio di questo saggio non intendo comunque nemmeno sfiorare le complesse problematiche esegetiche legate al valore del lavoro. Mi permetto solo di suggerire che riferirsi in modo immediato e disinvolto al valore salvifico del lavoro non è forse l’unica interpretazione possibile, anche perché espone al rischio di derive pericolose: basti pensare a come, nella prospettiva protestante, questo insistere sul legame salvezza/lavoro conduca Lutero prima e Calvino poi a concezioni discutibili e criticate con autentica conoscenza delle problematiche sociali da Weber nella sua opera fondamentale “L'etica protestante e lo spirito del capitalismo” pubblicata in due saggi successivi nel 1904-1905.
Preferisco perciò rimanere il più possibile aderente alla lettera del racconto contenuto in questo primo apoftegma: l’angelo non è un venditore né un trafficante d’armi, il suo semplice lavoro consiste nell’intrecciare una corda. È vero che è possibile interpretare questa attività nei modi più svariati: per esempio, potrebbe essere intesa come un modo per fabbricare utili canestri da rivendere. In fondo anche attualmente in tanti monasteri i monaci si dedicano a piccole attività artigianali che non consentono certo loro di arricchirsi ma di ricavare modesti introiti con cui contribuire alla gestione della propria comunità.
Tuttavia io non riesco a vedere in questa attività una forma rudimentale di lavoro che implichi una qualche sorta di profitto materiale, piuttosto si tratta di applicare la mente su qualcosa, per intendersi una sorta di dhāraṇā, una concentrazione mentale applicata su un solo oggetto e unita alla ritenzione del respiro, che favorisce lo stabilirsi della mente del meditante in una condizione di fermezza. Per intenderci, preferisco interpretarlo come l’attività di un poeta che tesse immagini in forma di parole come Penelope faceva con la sua tela; oppure, per fare un altro esempio legato alla pratica del buddhismo tibetano, mi ricorda la costruzione di un complesso mandala mediante una pratica rituale in cui viene disegnata a terra, allo scopo di consacrazione o iniziazione o protezione, la rappresentazione dello stesso Universo. A questa pratica i monaci si dedicano per giorni e giorni con la massima concentrazione, utilizzando polveri colorate: il mandala può essere contemplato da tutti ma, al termine della procedura rituale, verrà restituito alle acque del fiume. L’essere destinato alla distruzione, come peraltro tutto ciò che appartiene al mondo dell’impermanenza, sminuisce forse il valore di questa attività? La sua intrinseca validità risiede essenzialmente nell’aver permesso una concentrazione positiva della propria mente.
(Sergio Gandini)
L’influenza degli Apophthegmata Patrum fu subito grandissima, ma a questo proposito occorre già fare delle precisazioni: né San Girolamo né Sant'Agostino ebbero modo di leggerli, poiché furono redatti per scritto solo in un periodo temporale successivo, è tuttavia verosimile che conoscessero la Vita di Sant’Antonio di Atanasio e altri testi riguardanti gli eremiti. L’interesse per questi testi fondamentali da parte di tutta una corrente della spiritualità cristiana continua nel corso dei secoli e si rinnova anche attualmente: citiamo, per esempio, Thomas Merton che pubblicò nel 1960 una propria antologia col titolo di The Wisdom of the Desert (traduzione italiana: La saggezza del deserto. Detti dei primi eremiti cristiani) e tanti altri dopo di lui, per cui si può affermare che questa eco non è mai diminuita ma tuttora è viva, e che sempre ricercatori dell’Invisibile ritornano, per ricevere energia alla loro pratica, a queste fonti originali di spiritualità. Nella premessa alla sua personale antologia di questi detti Merton precisa:
Questa antologia di detti dai Verba Seniorum non va intesa come un'opera di valore scientifico. Al contrario, è un'edizione libera e informale di storie scelte qua e là tra le varie versioni originali latine, senz'ordine e senza l'individuazione delle fonti specifiche. Il libro si prefigge come unico scopo quello di stimolare ed edificare il lettore. In altre parole, essendo un monaco del ventesimo secolo, sento di potermi avvalere con una certa libertà dei privilegi di cui godevano i monaci antichi; perciò ho costruito una raccolta tutta mia, senza criteri, intenzioni o propositi specifici, al solo scopo di conservare queste storie e goderne con gli amici. Così è nato il libro.
Proprio dallo spirito libero con il quale Merton approccia questo testo classico mi è venuto lo stimolo a isolare questo frammento, per ricevere da esso istruzioni alla pratica meditativa comune alla nostra esperienza.
Il frammento è attribuito ad Antonio abate: tra i tanti Padri (e ci piace ricordare anche Madri, tra cui cito per esempio Santa Sincletica), spicca la sua figura, resa familiare poi dall’immagine di tanti dipinti a partire dal quattrocento, ma anche vivissima nella tradizione popolare. È vero che esistono differenti versioni degli Apophthegmata Patrum, eppure nella maggioranza delle versioni questo frammento appare tradizionalmente come il primo testo nella raccolta e ciò assume per me una particolare rilevanza. Propongo al lettore questo testo nella versione edita da Città Nuova nel 1997, e curata da Luciana Mortari: essa unisce al pregio di essere quasi tascabile, quello di una precisa ricerca esegetica e di un inquadramento storico delle singole figure dei Padri.
Al lettore invece eventualmente interessato a fare esercizio di esegesi biblica segnalo anche un valido articolo scritto da Louis Leloir, "Les Pères du désert et saint Benoît. Un apophtegme d'Antoine" e originariamente apparso su "NOUVELLE REVUE THÉOLOGIQUE" 102/2 (1980): tale articolo è disponibile anche in traduzione italiana su Internet. Lo cito perché esso rappresenta un interessante esempio di come sia possibile attualizzare e riferire alla pratica quotidiana i Detti dei Padri del deserto: infatti, pur partendo da una precisa impostazione, quella della pratica monacale secondo la regola benedettina, l’autore svolge considerazioni significative per la vita religiosa del cristiano, sia esso monaco oppure laico. Proprio pensando al valore spirituale di questo tipo di analisi cerco ora di svolgere alcune brevi riflessioni intorno a questo detto di Antonio abate che apre tradizionalmente la raccolta degli Apophthegmata Patrum.
Un giorno, il santo padre Antonio, mentre sedeva nel deserto, fu preso da sconforto e da una fitta tenebra di pensieri. E diceva a Dio: “O Signore, voglio, ma i pensieri me lo impediscono. Cosa posso fare nella mia afflizione?” Ora, sporgendosi un po', Antonio vide un altro come lui, che sta seduto e lavora, poi interrompe il lavoro, si alza in piedi e prega, poi di nuovo si mette seduto a intrecciare corde, e poi ancora si alza e prega. Era un angelo del Signore, mandato a correggere Antonio e dargli forza. E udì l'angelo che diceva: "Fa’ così e sarai salvo". All’udire queste parole, fu preso da grande gioia e coraggio: così fece e si salvò.
Per quanto le traduzioni siano solo tentativi di rendere in una lingua differente un significato, in questo caso spirituale, vale forse la pena di soffermarsi più da vicino su alcuni termini presenti nel testo e di sottoporli a un minimo di analisi filologica, magari integrando, come dovrebbe fare ogni buon traduttore, questa versione italiana con altre versioni, condotte in una lingua differente.
Il testo di Mortari dice mentre sedeva nel deserto: questa potrebbe apparire al lettore poco attento solo una notazione accidentale di luogo. Una versione francese propone questo inizio in modo secondo me più efficace: “Le saint abbé Antoine, assis un jour au désert, se trouva pris d’ennui et dans une grande obscurité de pensées…”. In effetti nell’originale greco troviamo καθίζομαι: questo termine ci pone immediatamente davanti all’evidenza dell’atto del sedere come pratica meditativa.
Altrettanto emblematico risulta il secondo termine, che Mortari rende con fu preso da sconforto: in francese suona come pris d’ennui che ha il pregio di evidenziare la radice greca originaria ἀκηδία. Di nuovo un termine gravido di senso: nell'antichità esso indicava uno stato inerte di mancanza di dolore e cura, una forma pervasiva di indifferenza che genera malinconia. Tale termine ebbe fortuna nel Medioevo, assurse a concetto della teologia morale, per indicare il torpore malinconico e l'inerzia che può crescere in coloro che erano dediti a vita contemplativa, e Tommaso d'Aquino lo riprende e infatti definisce l’accidia come il “rattristarsi del bene divino”, in grado di indurre inerzia nell'agire stesso del bene divino. Ma per ritornare nell’epoca precisa degli Apophthegmata Patrum, questa nozione di accidia era già stata sviluppata con attenzione da Evagrio Pontico che la aveva indicata come radice di tutti gli ostacoli che possono crescere in coloro che praticano una intensa attività meditativa. Al lettore eventualmente interessato ad approfondire questa complessa tematica segnalo infine l’ottimo testo di Gabriel Bunge: Akedia. Die geistliche Leher des Evagrios Pontikos vom Überdruss, apparso una prima volta in Italia nel 1992, presso le edizioni dell’Abbazia di Praglia, col titolo di Akèdia. La dottrina spirituale di Evagrio Pontico sull’accidia, e successivamente nel 1999, presso le Edizioni Qiqajon, con la nuova interpretazione Akedia. Il male oscuro.
Lascio suggestionare per l’ultima volta il lettore dalla traduzione francese anche nel commento al passaggio immediatamente successivo: “Seigneur, je veux être sauvé, mais les pensées ne me laissent pas ; que ferai-je dans mon affliction ? Comment serai-je sauvé?”. Forse essa evidenzia meglio la sottile implicazione fra accidia/pensare: questa attività, indotta dalla condizione di immobilità, non è certo l’attività teoretica di νόησις.
Tale termine viene usato per la prima volta da Diogene di Apollonia, discepolo di Anassimene, ma diventerà centrale in Platone, che considera la conoscenza noetica come il grado più alto del sapere che ha come oggetto le idee-valori raggiungibili tramite l'anima; tornerà poi in Aristotele, nel neoplatonismo e, in particolare, in Plotino, che identifica la noesi con l'intuizione immediata degli oggetti semplici quelli cioè non composti: i noemata; proprio questo termine arriverà fino a Husserl, come compimento della tradizione filosofica occidentale. I pensieri che possono assalire Antonio sono più probabilmente fantasie, forme di fantasticherie, idee fisse, immaginazioni mentali, visualizzazioni pericolose – infine demòni, come poi ci ha abituato l’immaginario appunto in tanti quadri a partire dal Medioevo.
Proprio il riferimento a questo immaginario mi permette un’interessante digressione: colgo l’occasione per rimandare il lettore eventualmente interessato a uno studio critico di Piotr Sniedziewski, Les papillons noirs et l’ennui de Flaubert (2019), anch’esso disponibile su Internet. Piotr Sniedziewski (nato nel 1976) è professore all'Istituto di filologia polacca dell'Università Adam Mickiewicz di Poznań e autore di svariati libri, tra cui ricordo The Melancholic Gaze (edizione polacca: Cracovia, 2011; edizione inglese: Berlino, 2018), nonché traduttore di testi di Flaubert: La tentazione di sant'Antonio (2010) e Memorie di un pazzo (2011). L’articolo cui mi riferisco è dedicato alla metafora del sole nero che gli scrittori romantici (Théophile Gautier, Victor Hugo, Gérard de Nerval e altri) usarono in più occasioni per descrivere stati di tristezza e malinconia. La stessa metafora compare nell'opera di Flaubert (in Madame Bovary, Salammbô, La Tentation de saint Antoine). Aggiungo infine che l’opera di Flaubert ispirò al noto pittore simbolista Odilon Redon addirittura tre serie di raccolte litografiche, rispettivamente nel 1888, composta da 11 tavole, 1889, 6 tavole e poi nel 1896, 23 tavole: questa serie è di grande lunga la più conosciuta e riprodotta e costituisce uno dei vertici dell’arte incisoria di tutti i tempi.
Leggendo le pagine di questo interessante saggio viene da domandarsi se proprio Flaubert, questo beffardo difensore dell'arte pura, non avesse al fondo una tentazione neoplatonizzante. In verità, al termine della notte oscura (uso di proposito questa espressione per suggerire al lettore un’altra suggestiva pista di lettura nella direzione di San Giovanni della Croce) delle allucinazioni nessuno potrebbe essere sicuro di cosa vede veramente l'eremita alla fine del libro. È una visione reale, oppure potrebbe trattarsi di un'altra allucinazione, un’ulteriore tentazione fantasiosa del Nemico, avversario satanico. Qui però accade qualcosa di stupefacente: mi vengono in mente i soli neri e i globuli color fuoco attraverso cui vediamo il volto di Rodolphe in Madame Bovary, i raggi dorati attorno alle pupille nere dell'amante di Emma... Vale la pena di porre l’opera di Flaubert in una prospettiva più ampia e cercare di collocarla nell'eredità romantica, evidenziando però con quale rabbia cercò di liberarsi dai suoi stereotipi.
Torniamo, dopo la nostra breve ma spero suggestiva digressione, ad Antonio abate. In ogni caso l’apoftegma mira a dare un insegnamento di salvezza. Influenzato da questo clima artistico mi viene spontaneo fare un riferimento al celebre interrogativo presente nell’Idiota di Dostoevskij: “Quale bellezza salverà il mondo?”. È implicito in quel chiedersi l’idea di guarigione. Credo che sia davvero questa la ricerca dei primi eremiti: la salvezza ricercata nel deserto è prima di tutto una guarigione dalle malattie che si possono generare nella solitudine del deserto, quando il cuore è toccato non dal sole nero ma dal Sole di Cristo, dalla rivelazione del Divino presente in ciascuno di noi. Nell’atmosfera a volte naïve che caratterizza gli apoftegmi (notiamo però che non si tratta certo di ingenuità, quanto di ricerca dell’essenzialità), risulta normale incontrare, dopo tentazioni demoniache, un angelo, in grado di istruire attraverso l’esempio, l’unica autentica modalità che consenta di apprendere qualcosa.
Quale insegnamento viene trasmesso al padre Antonio da questo inviato del Signore? Innanzitutto sottolineo che l’angelo viene rappresentato per due volte come assis (appunto seduto) e tressant la corde. Sono consapevole che il testo dice lavora e che l’intera tradizione benedettina fa di questo passaggio uno dei cavalli di battaglia di quella che comunemente, ma in modo del tutto improprio, viene indicata come la regola “Ora et labora” (in realtà questo binomio è stato creato e definito in tal modo solo nel XIX secolo). Nel breve spazio di questo saggio non intendo comunque nemmeno sfiorare le complesse problematiche esegetiche legate al valore del lavoro. Mi permetto solo di suggerire che riferirsi in modo immediato e disinvolto al valore salvifico del lavoro non è forse l’unica interpretazione possibile, anche perché espone al rischio di derive pericolose: basti pensare a come, nella prospettiva protestante, questo insistere sul legame salvezza/lavoro conduca Lutero prima e Calvino poi a concezioni discutibili e criticate con autentica conoscenza delle problematiche sociali da Weber nella sua opera fondamentale “L'etica protestante e lo spirito del capitalismo” pubblicata in due saggi successivi nel 1904-1905.
Preferisco perciò rimanere il più possibile aderente alla lettera del racconto contenuto in questo primo apoftegma: l’angelo non è un venditore né un trafficante d’armi, il suo semplice lavoro consiste nell’intrecciare una corda. È vero che è possibile interpretare questa attività nei modi più svariati: per esempio, potrebbe essere intesa come un modo per fabbricare utili canestri da rivendere. In fondo anche attualmente in tanti monasteri i monaci si dedicano a piccole attività artigianali che non consentono certo loro di arricchirsi ma di ricavare modesti introiti con cui contribuire alla gestione della propria comunità.
Tuttavia io non riesco a vedere in questa attività una forma rudimentale di lavoro che implichi una qualche sorta di profitto materiale, piuttosto si tratta di applicare la mente su qualcosa, per intendersi una sorta di dhāraṇā, una concentrazione mentale applicata su un solo oggetto e unita alla ritenzione del respiro, che favorisce lo stabilirsi della mente del meditante in una condizione di fermezza. Per intenderci, preferisco interpretarlo come l’attività di un poeta che tesse immagini in forma di parole come Penelope faceva con la sua tela; oppure, per fare un altro esempio legato alla pratica del buddhismo tibetano, mi ricorda la costruzione di un complesso mandala mediante una pratica rituale in cui viene disegnata a terra, allo scopo di consacrazione o iniziazione o protezione, la rappresentazione dello stesso Universo. A questa pratica i monaci si dedicano per giorni e giorni con la massima concentrazione, utilizzando polveri colorate: il mandala può essere contemplato da tutti ma, al termine della procedura rituale, verrà restituito alle acque del fiume. L’essere destinato alla distruzione, come peraltro tutto ciò che appartiene al mondo dell’impermanenza, sminuisce forse il valore di questa attività? La sua intrinseca validità risiede essenzialmente nell’aver permesso una concentrazione positiva della propria mente.
(Sergio Gandini)