Musica
The Philosopher’s Hand di Terry Riley
Maurizio Stefanìa: pianoforte preparato
copyright dell'esecuzione Maurizio Stefanìa Il brano, scritto per solo pianoforte, è una composizione spontanea, a tutti gli effetti una libera improvvisazione sullo stile dei raga indiani ispirata alla memoria di Pandit Pran Nath, musicista cantante e maestro di Kirana pakistano, una figura che fu molto importante nello sviluppo artistico, sia di compositore che di esecutore, di Terry Riley.
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La composizione è scritta in notazione ‘convenzionale’, ovvero come un normale spartito di pianoforte di musica classica, ma è da interpretare con una certa libertà e non basandosi pertanto esclusivamente sullo schema metrico della suddivisione in battute. A testimonianza di ciò vi sono frequenti indicazioni nello spartito riguardo dove ritardare o suonare più lentamente per poi riprendere il tempo originario del brano, esso stesso basato dall’inizio su una pulsazione non del tutto vincolante: freely, con la croma equivalente a 58-69 bpm (beats per minute).
Dal punto di vista stilistico il brano ha tre caratteristiche fondamentali. Esso si basa su un unico accordo al basso, pur se declinato con le micro varianti del caso; fa un uso estensivo del pedale della risonanza (pedal throughout è notato anch’esso all’inizio); infine lo sviluppo melodico è costruito su fraseggi che insistono su una determinata scala e su alcune sue note chiave. Tutto ciò fa sì che la composizione sia da interpretare come una trasposizione al pianoforte di un tipico raga indiano. E il perché di un raga trasposto su un pianoforte è presto spiegato. Non solo Riley è egli stesso un pianista, ma bisogna anche tener presente che il pianoforte è lo strumento che più di tutti può, per via delle sue caratteristiche timbriche, percussive e di estensione, avvicinarsi al suono e quindi all’atmosfera di una tipica improvvisazione di musica tradizionale indiana eseguita, ad esempio, con tampura e sitar. E non da ultima vi fu una situazione contingente: un pianoforte a coda, uno splendido Bluthner, era a disposizione nello studio di registrazione quando si decise di inserire questo brano nell’album Requiem for Adam.
Requiem for Adam è una suite in tre movimenti per quartetto d’archi composta da Riley per i Kronos Quartet in memoria di Adam Harrington, figlio sedicenne di David, leader e primo violino del famoso quartetto americano, morto improvvisamente per un attacco cardiaco mentre stava scalando con la famiglia il Monte Diablo in California la domenica di Pasqua del 1995. Riley ricorda come durante la settimana in cui erano allo Skywalker Ranch per la registrazione di Requiem for Adam, gli fu suggerito dal produttore dei Kronos di registrare anche dei brani per piano solo. In particolare, nell’ultimo giorno di registrazione, David Harringhton lo raggiunse in studio sedendosi a gambe incrociate vicino al piano e ascoltando i vari brani che stava eseguendo o improvvisando. Infine gli disse: “Terry, mi sto chiedendo che sonorità avrebbe se tu suonassi qualcosa per 4 o 5 minuti pensando a Pandit Pran Nath”. E così prese vita il brano, mentre Riley improvvisava pensando al suo Maestro e all’ultima volta, poco prima che quest’ultimo morisse nel 1996, in cui lo accompagnò al piano mentre Pandit cantava il Raga Darbari Kanada. Fu poi deciso di includere anche questa traccia nell’album, e riguardo il titolo, questo venne in mente a Terry Riley quando gli fu ricordato un episodio. Prandit Pran Nath era presente al servizio funebre di Adam Harrington e a un certo punto prese per mano David, il quale riferì poi di come essa fosse stata la mano più morbida che avesse mai toccato.
Il percorso musicale di Terry Riley è alquanto particolare. Nato nel 1935 a Colfax, in California, alla fine degli anni Sessanta era già all’apice della sua fama dopo aver pubblicato due album che sono considerati a ragione delle pietre miliari della musica moderna: In C (1964) e A Rainbow Over A Curved Air (1968). Tuttavia, nonostante lucrose proposte che seguirono da parte delle multinazionali dell’industria musicale americana, egli preferì isolarsi per cominciare un percorso di introspezione musicale molto personale. Lasciò gli Stati Uniti per l’India con lo scopo di approfondire lo studio della musica classica Indostana, vale a dire la tradizione dei raga dell’India del Nord, sotto la guida appunto di Pandit Pran Nath. Durante questo percorso, che cominciò nel 1970 e proseguì fino alla scomparsa del suo Maestro e Guru, Riley assorbì completamente tutti i dettami della musica indiana, approfondendo alcuni aspetti che in nuce erano già caratteristici della sua concezione musicale. Ad esempio, già dalla metà degli anni ’50, Riley si cimentò prima in sessioni di libera improvvisazione con altri compositori. Qualche anno dopo fece la conoscenza alla UC Berkley University di La Monte Young. Quest’ultimo lo introdusse allo stile di John Coltrane: a un’idea di musica totalmente improvvisata così come a una idea di musica basata su lunghe note tenute per l’arco di tutto un brano. Infine Riley sperimentò e incluse nella sua personale gamma di possibilità sonore anche la musica elettronica e in particolare l’uso di loop su nastri preregistrati.
Il risultato immediato dell’incontro con la musica indiana fu, da un punto di vista prettamente compositivo e concettuale, un rifiuto netto verso ogni forma di musica notata. A ciò non fecero eccezione nemmeno gli esperimenti della corrente Minimalista, a cui egli stesso aveva dato un contributo, se non il contributo decisivo con la composizione In C. Di fatto nella musica definita minimalista, la notazione è comunque presente, anche se spesso ridotta solo a pochi segni scritti su un singolo pentagramma (vedasi, per citarne un paio, composizioni quali “Piano Phase” di Steve Reich oppure la meno famosa “Change” di Meredith Monk). Nel 1964, basando la composizione su 53 brevi e semplici frasi musicali da combinarsi liberamente nella tonalità di Do maggiore, la più semplice per la gran parte degli strumenti, In C ebbe il pregio, o l’ardire, di rompere completamente con la tradizione precedente della musica atonale (“… un vero e proprio atto di coraggio, poiché nessuno allora scriveva più musica tonale”, affermò Riley).
Pertanto, dopo In C, il percorso di ricerca musicale di Riley si basa essenzialmente su una musica del tutto improvvisata che egli stesso eseguiva a solo e dal vivo, ripetendo e combinando dei pattern musicali grazie anche all’ausilio di un sistema di loop su nastri preregistrati. Riley si serviva principalmente di organi e tastiere elettroniche, ma a volte suonava anche il sassofono soprano e piccole percussioni. Le sue performance, veri e propri happening seguite da una schiera di giovani fan estasiati, siamo all’epoca del movimento Hippie, consistevano in lunghe sessioni in cui egli disponeva la sua strumentazione appoggiata su dei tappeti e suonando per ore seduto in posizione Sukhasana (erano per certi versi l’equivalente di ciò che avveniva in Kerala e in alcuni altri stati dell’India del sud con le danze e musiche del Kathakali, che iniziano al tramonto e possono proseguire per tutta la notte fino all’arrivo dell’alba, a simboleggiare la vittoria del bene sul male).
Difatti, l’aspetto che in quegli anni più interessava a Riley era la capacità che questa musica aveva di coinvolgere profondamente sia l’ascoltatore che l’esecutore. Seppur anche il jazz fosse basato sull’improvvisazione, egli riconosceva come quest’ultimo si interessasse piuttosto all’espressione, mentre la musica indiana, pur se all’apparenza informale è bensì rigorosamente definita secondo norme finalizzate a creare un particolare stato d’animo e di emozioni. Volendo semplificare, si può affermare che la sua musica si colloca nel mezzo, a unione delle due culture, quella occidentale e orientale, e che nel seguire gli insegnamenti di Pandit Pran Nath egli si concentrò soprattutto sull’ influenza che la musica esercita sulle nostre emozioni: “…cominciai a concepire pezzi che erano come modelli di operazioni molecolari e universali con turbinanti galassie di suono e ciò divenne il mio modello per una nuova forma musicale”.
Questa fase musicale proseguì fin verso la fine degli anni ’70 quando Riley, di ritorno negli Stati Uniti per insegnare Composizione, Improvvisazione e Musica classica indiana presso il Mills College di Oakland in California, fece l’incontro con quattro giovani musicisti che in qualche modo lo aiutarono a estendere il range e la diversità delle sue composizioni negli anni seguenti, nonché a formare un solido e reciproco sodalizio musicale tuttora in corso. Il riferimento è ovviamente al quartetto di archi, ormai parte della storia della musica contemporanea con il nome di Kronos Quartet, che nel 1978 cominciava una residenza di due anni presso il Mills College. E David Harrington fu colui che persuase Riley a scrivere per il loro gruppo e che lo riportò verso una concezione compositiva più ‘tradizionale’. Un ritorno alla musica scritta che è tutt’altro che un gesto nostalgico, ma da considerarsi come un nuovo e rinnovato criterio compositivo grazie al quale Riley è stato in grado di includere tutte le sue esperienze e ricerche precedenti in una scrittura più matura e consapevole, una scrittura che doveva confrontarsi anche con le caratteristiche tecniche degli strumenti ad arco che esige di riferirsi a più parti, come richiede un ensemble di quattro strumenti. Requiem for Adam è la quinta composizione in ordine cronologico della collaborazione tra i Kronos e Riley e The Philosopher’s Hand, a tutti gli effetti una bonus track inizialmente non prevista per questo album, rappresenta una piccola gemma nel vasto repertorio del compositore californiano.
(Maurizio Stefanìa)
Dal punto di vista stilistico il brano ha tre caratteristiche fondamentali. Esso si basa su un unico accordo al basso, pur se declinato con le micro varianti del caso; fa un uso estensivo del pedale della risonanza (pedal throughout è notato anch’esso all’inizio); infine lo sviluppo melodico è costruito su fraseggi che insistono su una determinata scala e su alcune sue note chiave. Tutto ciò fa sì che la composizione sia da interpretare come una trasposizione al pianoforte di un tipico raga indiano. E il perché di un raga trasposto su un pianoforte è presto spiegato. Non solo Riley è egli stesso un pianista, ma bisogna anche tener presente che il pianoforte è lo strumento che più di tutti può, per via delle sue caratteristiche timbriche, percussive e di estensione, avvicinarsi al suono e quindi all’atmosfera di una tipica improvvisazione di musica tradizionale indiana eseguita, ad esempio, con tampura e sitar. E non da ultima vi fu una situazione contingente: un pianoforte a coda, uno splendido Bluthner, era a disposizione nello studio di registrazione quando si decise di inserire questo brano nell’album Requiem for Adam.
Requiem for Adam è una suite in tre movimenti per quartetto d’archi composta da Riley per i Kronos Quartet in memoria di Adam Harrington, figlio sedicenne di David, leader e primo violino del famoso quartetto americano, morto improvvisamente per un attacco cardiaco mentre stava scalando con la famiglia il Monte Diablo in California la domenica di Pasqua del 1995. Riley ricorda come durante la settimana in cui erano allo Skywalker Ranch per la registrazione di Requiem for Adam, gli fu suggerito dal produttore dei Kronos di registrare anche dei brani per piano solo. In particolare, nell’ultimo giorno di registrazione, David Harringhton lo raggiunse in studio sedendosi a gambe incrociate vicino al piano e ascoltando i vari brani che stava eseguendo o improvvisando. Infine gli disse: “Terry, mi sto chiedendo che sonorità avrebbe se tu suonassi qualcosa per 4 o 5 minuti pensando a Pandit Pran Nath”. E così prese vita il brano, mentre Riley improvvisava pensando al suo Maestro e all’ultima volta, poco prima che quest’ultimo morisse nel 1996, in cui lo accompagnò al piano mentre Pandit cantava il Raga Darbari Kanada. Fu poi deciso di includere anche questa traccia nell’album, e riguardo il titolo, questo venne in mente a Terry Riley quando gli fu ricordato un episodio. Prandit Pran Nath era presente al servizio funebre di Adam Harrington e a un certo punto prese per mano David, il quale riferì poi di come essa fosse stata la mano più morbida che avesse mai toccato.
Il percorso musicale di Terry Riley è alquanto particolare. Nato nel 1935 a Colfax, in California, alla fine degli anni Sessanta era già all’apice della sua fama dopo aver pubblicato due album che sono considerati a ragione delle pietre miliari della musica moderna: In C (1964) e A Rainbow Over A Curved Air (1968). Tuttavia, nonostante lucrose proposte che seguirono da parte delle multinazionali dell’industria musicale americana, egli preferì isolarsi per cominciare un percorso di introspezione musicale molto personale. Lasciò gli Stati Uniti per l’India con lo scopo di approfondire lo studio della musica classica Indostana, vale a dire la tradizione dei raga dell’India del Nord, sotto la guida appunto di Pandit Pran Nath. Durante questo percorso, che cominciò nel 1970 e proseguì fino alla scomparsa del suo Maestro e Guru, Riley assorbì completamente tutti i dettami della musica indiana, approfondendo alcuni aspetti che in nuce erano già caratteristici della sua concezione musicale. Ad esempio, già dalla metà degli anni ’50, Riley si cimentò prima in sessioni di libera improvvisazione con altri compositori. Qualche anno dopo fece la conoscenza alla UC Berkley University di La Monte Young. Quest’ultimo lo introdusse allo stile di John Coltrane: a un’idea di musica totalmente improvvisata così come a una idea di musica basata su lunghe note tenute per l’arco di tutto un brano. Infine Riley sperimentò e incluse nella sua personale gamma di possibilità sonore anche la musica elettronica e in particolare l’uso di loop su nastri preregistrati.
Il risultato immediato dell’incontro con la musica indiana fu, da un punto di vista prettamente compositivo e concettuale, un rifiuto netto verso ogni forma di musica notata. A ciò non fecero eccezione nemmeno gli esperimenti della corrente Minimalista, a cui egli stesso aveva dato un contributo, se non il contributo decisivo con la composizione In C. Di fatto nella musica definita minimalista, la notazione è comunque presente, anche se spesso ridotta solo a pochi segni scritti su un singolo pentagramma (vedasi, per citarne un paio, composizioni quali “Piano Phase” di Steve Reich oppure la meno famosa “Change” di Meredith Monk). Nel 1964, basando la composizione su 53 brevi e semplici frasi musicali da combinarsi liberamente nella tonalità di Do maggiore, la più semplice per la gran parte degli strumenti, In C ebbe il pregio, o l’ardire, di rompere completamente con la tradizione precedente della musica atonale (“… un vero e proprio atto di coraggio, poiché nessuno allora scriveva più musica tonale”, affermò Riley).
Pertanto, dopo In C, il percorso di ricerca musicale di Riley si basa essenzialmente su una musica del tutto improvvisata che egli stesso eseguiva a solo e dal vivo, ripetendo e combinando dei pattern musicali grazie anche all’ausilio di un sistema di loop su nastri preregistrati. Riley si serviva principalmente di organi e tastiere elettroniche, ma a volte suonava anche il sassofono soprano e piccole percussioni. Le sue performance, veri e propri happening seguite da una schiera di giovani fan estasiati, siamo all’epoca del movimento Hippie, consistevano in lunghe sessioni in cui egli disponeva la sua strumentazione appoggiata su dei tappeti e suonando per ore seduto in posizione Sukhasana (erano per certi versi l’equivalente di ciò che avveniva in Kerala e in alcuni altri stati dell’India del sud con le danze e musiche del Kathakali, che iniziano al tramonto e possono proseguire per tutta la notte fino all’arrivo dell’alba, a simboleggiare la vittoria del bene sul male).
Difatti, l’aspetto che in quegli anni più interessava a Riley era la capacità che questa musica aveva di coinvolgere profondamente sia l’ascoltatore che l’esecutore. Seppur anche il jazz fosse basato sull’improvvisazione, egli riconosceva come quest’ultimo si interessasse piuttosto all’espressione, mentre la musica indiana, pur se all’apparenza informale è bensì rigorosamente definita secondo norme finalizzate a creare un particolare stato d’animo e di emozioni. Volendo semplificare, si può affermare che la sua musica si colloca nel mezzo, a unione delle due culture, quella occidentale e orientale, e che nel seguire gli insegnamenti di Pandit Pran Nath egli si concentrò soprattutto sull’ influenza che la musica esercita sulle nostre emozioni: “…cominciai a concepire pezzi che erano come modelli di operazioni molecolari e universali con turbinanti galassie di suono e ciò divenne il mio modello per una nuova forma musicale”.
Questa fase musicale proseguì fin verso la fine degli anni ’70 quando Riley, di ritorno negli Stati Uniti per insegnare Composizione, Improvvisazione e Musica classica indiana presso il Mills College di Oakland in California, fece l’incontro con quattro giovani musicisti che in qualche modo lo aiutarono a estendere il range e la diversità delle sue composizioni negli anni seguenti, nonché a formare un solido e reciproco sodalizio musicale tuttora in corso. Il riferimento è ovviamente al quartetto di archi, ormai parte della storia della musica contemporanea con il nome di Kronos Quartet, che nel 1978 cominciava una residenza di due anni presso il Mills College. E David Harrington fu colui che persuase Riley a scrivere per il loro gruppo e che lo riportò verso una concezione compositiva più ‘tradizionale’. Un ritorno alla musica scritta che è tutt’altro che un gesto nostalgico, ma da considerarsi come un nuovo e rinnovato criterio compositivo grazie al quale Riley è stato in grado di includere tutte le sue esperienze e ricerche precedenti in una scrittura più matura e consapevole, una scrittura che doveva confrontarsi anche con le caratteristiche tecniche degli strumenti ad arco che esige di riferirsi a più parti, come richiede un ensemble di quattro strumenti. Requiem for Adam è la quinta composizione in ordine cronologico della collaborazione tra i Kronos e Riley e The Philosopher’s Hand, a tutti gli effetti una bonus track inizialmente non prevista per questo album, rappresenta una piccola gemma nel vasto repertorio del compositore californiano.
(Maurizio Stefanìa)