Letture
Verso Tiziano (1488-1576) passando da Moroni (1521-1580)
Gli innamoramenti dell’adolescenza sono i più tenaci ma occorre comprendere che si cresce anche nel tempo: così si conoscono altri pittori, si scoprono nuove affinità e si percorrono vie un tempo imprevedibili. Da quando ho iniziato a scrivere intorno all’arte mi accorgo che la mia pratica di pittore e quella di contemplatore del Bello tendono sempre più a intrecciarsi: così dopo Turner è bene per me tentare di parlare anche di Tiziano. Da giovane soprattutto disegnavo e così coltivai l’amore per le visioni nitide e chiare di Piero della Francesca e di Vermeer – ma da quando iniziai a praticare la pittura a olio presto sentii attrazioni differenti. Come dice bene Redon: “Se vuoi conoscere la mia esperienza, è tutta qui: trovare se stessi solo nell’impasto, pennello alla mano… L’arte espressiva s’irradia nella sua pienezza solo attraverso le materie utilizzate”.
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Difficile spiegare questo a chi non ha una minima esperienza del fatto del dipingere, in particolare della differenza fra pittura a tempera e a olio. Ricordo uno dei miei maestri che una volta venne a trovarmi fin del mio studio e, mentre ancora era sulla soglia, esclamò: “Ah, che buon odore di lavoro!”.
Cerco di concentrarmi sull’essenziale, anche se il lettore deve essere disposto a seguirmi per un po' nel mio lungo percorso di avvicinamento verso l’arte di Tiziano.
La pittura a olio nacque nelle Fiandre e venne importata in Italia: da questo punto di vista le due scuole principali, quella toscana di Raffaello e quella veneta di Giovanni Bellini, non differivano nella sostanza, giacché si servivano, dopo aver tracciato con precisione il disegno, di preparazioni chiare e rifinite sulle quali modellavano le figure con impasti leggeri di spessore regolare e uniforme, in modo da fondere i vari toni con delicatezza, evitando quasi la minima traccia di pennello. Fu Giorgione il primo a tentare la rivoluzione tonale, utilizzando una consistenza fatta di impasti ricchi, stesi senza l’intelaiatura di contorni preparatori, e procedendo a velature sovrapposte: ma Giorgione morì prematuramente e le premesse innovative della sua tecnica furono portate alle estreme conseguenze da Tiziano. Spesso Tiziano non eseguiva un disegno preparatorio, ma procedeva assemblando i vari elementi in base alle semplici leggi prospettiche, in modo quasi intuitivo e del tutto personale secondo il proprio gusto cromatico – una sorta di impasto a corpo – poi continuava per progressive sovrapposizioni del colore.
Possediamo una preziosa testimonianza (è bene lasciare ai pittori il compito di parlare del dipingere) di Palma il Giovane, riportata nel 1668 dal Boschini, che afferma come Tiziano impostasse il quadro con “una tal massa indistinta di colori, che servivano (come dire) per far letto, a base alle espressioni, che sopra poi li doveva fabbricare; e… faceva comparire in quattro pennellate la promessa di una rara figura” poi “rivogliava i quadri alla muraglia, e gli lasciava alle volte qualche mese…”.
Insomma Tiziano non dipinge infatti quasi mai alla prima, ma proprio per questo i primi strati sono segnati da un grande impeto, senza preoccupazione per i contorni o il disegno, così gli impasti fluiscono in modo libero e le pennellate scoccano spontanee: si racconta che arrivò perfino, in certi casi, a stendere il colore direttamente con le dita.
Tiziano insomma sovverte così i canoni coloristici medioevali che prevedevano una successione dalle luci verso le ombre dipingendo con colori chiari sopra i mezzitoni che a loro volta sono dipinti sopra le ombre; questa sua particolare tecnica è stata ormai accertata scientificamente grazie a stratigrafie ottenute dai microprelievi delle opere dell’autore, che mostrano il sovrapporsi anche di dodici stesure successive, confermando l’antica leggenda che Tiziano arrivasse anche a venti velature successive.
Milano è una città ormai densa di proposte culturali e artistiche: in questi mesi abbiamo potuto vedere El Greco accanto a Goya, e in tale ricchezza forse rischia di passare quasi inosservata la mostra Giambattista Moroni e il mistero del ritratto perfetto che davvero rappresenta un’occasione unica. Allestita nella prestigiosa sede delle Gallerie d’Italia, questa mostra ha almeno due punti di forza: permette di accostarsi pienamente all’opera di Moroni, sulla quale riesce a fare davvero il punto, e ci permette di vedere quadri provenienti da importanti musei stranieri, spesso poco inclini a prestare le loro opere.
Così ci è eccezionalmente permesso di ammirare quello che, a giudizio non solo mio ma di tanti altri critici, è l’autentico capolavoro di Giambattista Moroni, “Il sarto”, conservato ora alla National Gallery di Londra, accanto al non meno celebre ritratto di Gian Gerolamo Grumelli, Il cavaliere in rosa, che ora si trova a Bergamo, a palazzo Moroni.
E non solo: per comprendere davvero un artista sarebbe necessario poter osservare e confrontare fra loro i quadri più significativi che egli stesso ebbe modo di vedere e di cui subì l’influenza. Moretto da Brescia fu il maestro di Moroni: dobbiamo così ammettere che non sempre l’allievo supera il maestro, ma intanto abbiamo la possibilità di guardare anche opere di Moretto davvero straordinarie. E ancora: i potenti mezzi delle Gallerie sono riusciti a far arrivare anche opere sublimi di Lotto e, appunto, due quadri di Tiziano.
Eccomi dunque davanti a questo quadro eccelso di Tiziano, direttamente dal Philadelphia, Museum of Art, che certo conoscevo già, ma solo per fama. Sono d’accordo sul fatto che i prodigi della fotografia e della rete ci mettono ora nelle condizioni di accedere a conoscenze e dati di fatto come mai nessuna civiltà precedente ha potuto fare, ma resto convinto che, per contemplare, occorre vedere un’opera d’arte dal vero.
E prendersi tutto il tempo necessario – meglio limitarsi ad analizzare seriamente un’opera sola che esaminare svariate opere in modo superficiale. Al lettore prometto intanto che questo contributo sarà solo il primo di una serie perché davvero Tiziano non può essere compresso in poche pagine – al lettore, ma soprattutto a me stesso.
Certamente il quadro che stiamo per considerare è un’opera esemplare, proprio dal punto di vista dei problemi ermeneutici che pone e necessita di varie considerazioni preliminari. Già a un primo sguardo si può cogliere in quest'opera la presenza di un effetto di parziale mascheramento, anche se non ne è immediatamente chiara la finalità. È opportuno anche aggiungere che esiste un’altra versione del medesimo soggetto, che si trova al Metropolitan Museum di New York, ma in cui la tenda non è presente.
Perché questa duplice esecuzione di un medesimo soggetto? Perché questa figura risulta velata? Spero di avere incuriosito abbastanza il lettore.
Occorre prima di tutto dare un nome al personaggio ritratto: è Filippo Archinto. Nato ad Arona nel 1495, laureatosi in Giurisprudenza a Padova ed entrato già nel 1536 alla corte di papa Paolo III, divenne vicario generale di Roma; nel 1539 fu nominato vescovo di Sansepolcro e nel 1546 fu trasferito alla sede vescovile di Saluzzo. Divenne poi nunzio apostolico a Venezia per conto di Giulio III; infine nel 1556, sotto il papato di Paolo IV, fu nominato arcivescovo di Milano. Subito però l'aristocrazia milanese pose rilevanti ostacoli alla sua effettiva presa di possesso dell'archidiocesi, e finì così esiliato a Bergamo, dove morì nel 1558, senza mai aver potuto esercitare la carica alla quale era stato destinato da Paolo IV. Per comprendere questa presa di posizione occorre situare gli eventi nel preciso contesto storico: sono i delicati anni del Concilio di Trento e Archinto si era distinto proprio per la sua determinazione nell’appoggiare lo spirito della controriforma cattolica: per questo era stato scelto da Paolo IV, per la medesima ragione era inviso all’aristocrazia milanese, allarmata dalla fama di riformatore che si era guadagnata durante il suo vicariato a Roma.
Nell'opera in mostra, Archinto ci appare come un uomo anziano che sta seduto su uno scranno mentre regge un libro con la mano sinistra; una tenda semitrasparente ne nasconde in parte il volto e il corpo. L'interpretazione più antica del ritratto data attorno al 1558, anno della sua morte e spiega la velatura dell'immagine in riferimento alla sua scomparsa fisica: è un’ipotesi coerente. Ma che necessità avrebbe avuto Tiziano di fare due versioni del medesimo soggetto? Quale enigma si nasconde in questa scelta?
Se poi ci si concentra sui valori formali, il ritratto di New York appare di qualità decisamente inferiore, al punto che diversi critici hanno messo in dubbio l’attribuzione a Tiziano, mentre tutti, o quasi, sono concordi, nel riconoscere la mano del Maestro nell’opera conservata a Philadelphia.
Gli specialisti dell’opera di Tiziano hanno ovviamente avanzato diversi ipotesi per spiegare l'esecuzione dei due ritratti e, in particolare, sulla funzione dell'effetto di mascheramento parziale che caratterizza la versione più recente; mi limiterò solo a presentare le due teorie più interessanti. Secondo una prima ipotesi, Tiziano avrebbe inteso perpetuare la gara tra Parrasio e Zeusi, due grandi pittori greci dei quali non possediamo nessuna opera, al di là di questo racconto che assume così un valore mitico. Si narra che Zeusi avesse dipinto dell’uva con un effetto di tale realtà che alcuni passerotti cominciarono a svolazzare intorno al quadro per beccare gli acini; Parrasio invece aveva presentato un drappo rosso. Così Zeusi chiese al rivale di scostarlo e di mostrare finalmente l'opera sottostante. Parrasio fu il vincitore in questa singolare tenzone, perché se Zeusi era riuscito a trarre in inganno solo degli uccelli, Parrasio aveva potuto ingannare anche l’occhio esperto di un pittore. Nel ritratto di Archinto dunque Tiziano avrebbe dimostrato la propria straordinaria padronanza tecnica nella rappresentazione dei tessuti, sia i ricchi velluti sia gli impalpabili veli, mediante l'abile resa della cortina che vela a metà il quadro. La seconda ipotesi invece insiste nel vedere nella cortina una simbolica allusione agli intralci politici che sopravvennero a oscurare la carriera dell'arcivescovo fino a portarlo all'allontanamento da Milano e all'esilio di Bergamo.
Possiamo prima di tutto notare che le due ipotesi non si escludono affatto: se aggiungiamo a questa circostanza il dato tecnico che porta ad escludere che il ritratto non velato di Archinto potrebbe essere opera della scuola o addirittura di un altro artista, riconosciamo in Tiziano un artista davvero unico, interessato e capace di conferire, mediante questo effetto di parziale mascheramento, una molteplicità di implicazioni e significati in una sola opera. Per chiarire il mio pensiero aggiungo solo che simili piani di lettura complessi e polisemici si trovano, per esempio, in pittori come Piero della Francesca e Velázquez, oppure recentemente in Duchamp o Magritte.
Così Tiziano ci si presenta come un artista capace di suggerire con la sua opera aspetti di indeterminazione e problematicità, lasciando solo allo spettatore preparato il compito di coglierli, e di rimanere aperto agli interrogativi che ne scaturiscono rispetto alla rappresentazione pittorica e all’arte stessa. Tali suggestioni risultano peraltro affidate a caratteristiche apparentemente marginali dell'opera, che mostrano però come sia sottile, nell’esercizio stesso della creatività, la linea di confine fra sintassi e semantica, e come sia complessa la relazione tra l'artista e il suo pubblico.
Prima di lasciare le sale delle Gallerie d’Italia invito il visitatore e lettore a osservare a lungo e in modo attento i dipinti di Moroni. Tiziano viene sovente giudicato come il più abile ritrattista del suo tempo, capace di immortalare nei ritratti il carattere e le emozioni dei suoi soggetti, e per l’approfondito scavo psicologico del quale era capace.
Moroni è egualmente famoso soprattutto per la sua attività di ritrattista, ma in un senso differente: i suoi dipinti possono essere definiti veri e proprio ritratti in azione, poiché presentano personaggi nell'attimo in cui stanno compiendo un gesto e riescono così a evitare l'arida fissità del ritratto ufficiale. A questa dote aggiungerei la sublime capacità di creare un equilibrio di toni fra volto e sfondo. E che lodi usare per definire la sua capacità di ritrarre Bartolomeo Colleoni, che certo non poté conoscere essendo ormai morto da tempo? Occorre riconoscere che in questo ritratto, e in quello di Giovanni Bressani, che Moroni non poté conoscere di persona (ritratto presente in mostra ma che si trova nella National Galleries of Scotland a Edimburgo) Moroni si dimostra capace di costruire un ritratto ideale che riesce a essere più vero di ogni realtà fenomenica. Per cui la tenzone fra Tiziano e Moroni, rispetto all’arte del ritratto, se qualcuno fosse interessato a proporla, per conto mio, potrebbe ancora chiudersi con un elegante pareggio.
Desidero anche segnalare che una delle nove sale in cui è articolata è di particolare interesse per i contemplativi, in quanto viene preceduta da una citazione di Ignazio di Loyola: “Composizione sarà vedere con l’occhio dell’immaginazione un luogo fisico in cui si trovi ciò che voglio contemplare” e mostra un’altra tematica rappresentativa che divenne di moda proprio in seguito all’atmosfera spirituale promossa dalla riforma cattolica, cui ho accennato prima, quella di avere a casa quadri, di carattere devozionale, che promovessero la “meditazione” su alcune esperienze religiose. Anche in tale produzione Moroni finì col distinguersi e i suoi quadri vennero molto ricercati.
Preferisco però concludere il mio contributo odierno ritornando davanti al ritratto di Filippo Archinto: occorre osservare a lungo un quadro per iniziare diventare intimi a esso. Invito ora il mio lettore a concentrarsi sulla figura velata a destra del quadro. La mano destra del cardinale è coperta solo per metà dalla tenda, mentre la mano sinistra è interamente velata: in verità si riesce a distinguere solo tre dita e sono poste in una particolarissima inclinazione per cui, complice anche l’effetto di velatura, nello spazio vuoto fra le dita, si crea un’immagine strana, sembrano le due orbite vuote di un teschio. Questa mano velata, isolata da ogni contesto, mi è apparsa come uno di quelle rappresentazioni involontarie tanto studiate dalla psicoanalisi e, contemporaneamente, il mio pensiero associativo è subito passato alla serie dei papi di Francis Bacon. Per provare l’emozione che ho sentito davanti a questo quadro occorre vedere. Di certo, c’è in questo frantumarsi e disgregarsi dell’immagine figurativa, qualcosa di inesprimibile, che appare a volte in altri quadri di Tiziano, per esempio nella Pietà delle Gallerie dell’Accademia, qualcosa che rende Tiziano ai miei occhi come un artista veramente in anticipo di trecento anni rispetto alla sua epoca, padre ideale di tutta l’arte contemporanea.
(Sergio Gandini)
Cerco di concentrarmi sull’essenziale, anche se il lettore deve essere disposto a seguirmi per un po' nel mio lungo percorso di avvicinamento verso l’arte di Tiziano.
La pittura a olio nacque nelle Fiandre e venne importata in Italia: da questo punto di vista le due scuole principali, quella toscana di Raffaello e quella veneta di Giovanni Bellini, non differivano nella sostanza, giacché si servivano, dopo aver tracciato con precisione il disegno, di preparazioni chiare e rifinite sulle quali modellavano le figure con impasti leggeri di spessore regolare e uniforme, in modo da fondere i vari toni con delicatezza, evitando quasi la minima traccia di pennello. Fu Giorgione il primo a tentare la rivoluzione tonale, utilizzando una consistenza fatta di impasti ricchi, stesi senza l’intelaiatura di contorni preparatori, e procedendo a velature sovrapposte: ma Giorgione morì prematuramente e le premesse innovative della sua tecnica furono portate alle estreme conseguenze da Tiziano. Spesso Tiziano non eseguiva un disegno preparatorio, ma procedeva assemblando i vari elementi in base alle semplici leggi prospettiche, in modo quasi intuitivo e del tutto personale secondo il proprio gusto cromatico – una sorta di impasto a corpo – poi continuava per progressive sovrapposizioni del colore.
Possediamo una preziosa testimonianza (è bene lasciare ai pittori il compito di parlare del dipingere) di Palma il Giovane, riportata nel 1668 dal Boschini, che afferma come Tiziano impostasse il quadro con “una tal massa indistinta di colori, che servivano (come dire) per far letto, a base alle espressioni, che sopra poi li doveva fabbricare; e… faceva comparire in quattro pennellate la promessa di una rara figura” poi “rivogliava i quadri alla muraglia, e gli lasciava alle volte qualche mese…”.
Insomma Tiziano non dipinge infatti quasi mai alla prima, ma proprio per questo i primi strati sono segnati da un grande impeto, senza preoccupazione per i contorni o il disegno, così gli impasti fluiscono in modo libero e le pennellate scoccano spontanee: si racconta che arrivò perfino, in certi casi, a stendere il colore direttamente con le dita.
Tiziano insomma sovverte così i canoni coloristici medioevali che prevedevano una successione dalle luci verso le ombre dipingendo con colori chiari sopra i mezzitoni che a loro volta sono dipinti sopra le ombre; questa sua particolare tecnica è stata ormai accertata scientificamente grazie a stratigrafie ottenute dai microprelievi delle opere dell’autore, che mostrano il sovrapporsi anche di dodici stesure successive, confermando l’antica leggenda che Tiziano arrivasse anche a venti velature successive.
Milano è una città ormai densa di proposte culturali e artistiche: in questi mesi abbiamo potuto vedere El Greco accanto a Goya, e in tale ricchezza forse rischia di passare quasi inosservata la mostra Giambattista Moroni e il mistero del ritratto perfetto che davvero rappresenta un’occasione unica. Allestita nella prestigiosa sede delle Gallerie d’Italia, questa mostra ha almeno due punti di forza: permette di accostarsi pienamente all’opera di Moroni, sulla quale riesce a fare davvero il punto, e ci permette di vedere quadri provenienti da importanti musei stranieri, spesso poco inclini a prestare le loro opere.
Così ci è eccezionalmente permesso di ammirare quello che, a giudizio non solo mio ma di tanti altri critici, è l’autentico capolavoro di Giambattista Moroni, “Il sarto”, conservato ora alla National Gallery di Londra, accanto al non meno celebre ritratto di Gian Gerolamo Grumelli, Il cavaliere in rosa, che ora si trova a Bergamo, a palazzo Moroni.
E non solo: per comprendere davvero un artista sarebbe necessario poter osservare e confrontare fra loro i quadri più significativi che egli stesso ebbe modo di vedere e di cui subì l’influenza. Moretto da Brescia fu il maestro di Moroni: dobbiamo così ammettere che non sempre l’allievo supera il maestro, ma intanto abbiamo la possibilità di guardare anche opere di Moretto davvero straordinarie. E ancora: i potenti mezzi delle Gallerie sono riusciti a far arrivare anche opere sublimi di Lotto e, appunto, due quadri di Tiziano.
Eccomi dunque davanti a questo quadro eccelso di Tiziano, direttamente dal Philadelphia, Museum of Art, che certo conoscevo già, ma solo per fama. Sono d’accordo sul fatto che i prodigi della fotografia e della rete ci mettono ora nelle condizioni di accedere a conoscenze e dati di fatto come mai nessuna civiltà precedente ha potuto fare, ma resto convinto che, per contemplare, occorre vedere un’opera d’arte dal vero.
E prendersi tutto il tempo necessario – meglio limitarsi ad analizzare seriamente un’opera sola che esaminare svariate opere in modo superficiale. Al lettore prometto intanto che questo contributo sarà solo il primo di una serie perché davvero Tiziano non può essere compresso in poche pagine – al lettore, ma soprattutto a me stesso.
Certamente il quadro che stiamo per considerare è un’opera esemplare, proprio dal punto di vista dei problemi ermeneutici che pone e necessita di varie considerazioni preliminari. Già a un primo sguardo si può cogliere in quest'opera la presenza di un effetto di parziale mascheramento, anche se non ne è immediatamente chiara la finalità. È opportuno anche aggiungere che esiste un’altra versione del medesimo soggetto, che si trova al Metropolitan Museum di New York, ma in cui la tenda non è presente.
Perché questa duplice esecuzione di un medesimo soggetto? Perché questa figura risulta velata? Spero di avere incuriosito abbastanza il lettore.
Occorre prima di tutto dare un nome al personaggio ritratto: è Filippo Archinto. Nato ad Arona nel 1495, laureatosi in Giurisprudenza a Padova ed entrato già nel 1536 alla corte di papa Paolo III, divenne vicario generale di Roma; nel 1539 fu nominato vescovo di Sansepolcro e nel 1546 fu trasferito alla sede vescovile di Saluzzo. Divenne poi nunzio apostolico a Venezia per conto di Giulio III; infine nel 1556, sotto il papato di Paolo IV, fu nominato arcivescovo di Milano. Subito però l'aristocrazia milanese pose rilevanti ostacoli alla sua effettiva presa di possesso dell'archidiocesi, e finì così esiliato a Bergamo, dove morì nel 1558, senza mai aver potuto esercitare la carica alla quale era stato destinato da Paolo IV. Per comprendere questa presa di posizione occorre situare gli eventi nel preciso contesto storico: sono i delicati anni del Concilio di Trento e Archinto si era distinto proprio per la sua determinazione nell’appoggiare lo spirito della controriforma cattolica: per questo era stato scelto da Paolo IV, per la medesima ragione era inviso all’aristocrazia milanese, allarmata dalla fama di riformatore che si era guadagnata durante il suo vicariato a Roma.
Nell'opera in mostra, Archinto ci appare come un uomo anziano che sta seduto su uno scranno mentre regge un libro con la mano sinistra; una tenda semitrasparente ne nasconde in parte il volto e il corpo. L'interpretazione più antica del ritratto data attorno al 1558, anno della sua morte e spiega la velatura dell'immagine in riferimento alla sua scomparsa fisica: è un’ipotesi coerente. Ma che necessità avrebbe avuto Tiziano di fare due versioni del medesimo soggetto? Quale enigma si nasconde in questa scelta?
Se poi ci si concentra sui valori formali, il ritratto di New York appare di qualità decisamente inferiore, al punto che diversi critici hanno messo in dubbio l’attribuzione a Tiziano, mentre tutti, o quasi, sono concordi, nel riconoscere la mano del Maestro nell’opera conservata a Philadelphia.
Gli specialisti dell’opera di Tiziano hanno ovviamente avanzato diversi ipotesi per spiegare l'esecuzione dei due ritratti e, in particolare, sulla funzione dell'effetto di mascheramento parziale che caratterizza la versione più recente; mi limiterò solo a presentare le due teorie più interessanti. Secondo una prima ipotesi, Tiziano avrebbe inteso perpetuare la gara tra Parrasio e Zeusi, due grandi pittori greci dei quali non possediamo nessuna opera, al di là di questo racconto che assume così un valore mitico. Si narra che Zeusi avesse dipinto dell’uva con un effetto di tale realtà che alcuni passerotti cominciarono a svolazzare intorno al quadro per beccare gli acini; Parrasio invece aveva presentato un drappo rosso. Così Zeusi chiese al rivale di scostarlo e di mostrare finalmente l'opera sottostante. Parrasio fu il vincitore in questa singolare tenzone, perché se Zeusi era riuscito a trarre in inganno solo degli uccelli, Parrasio aveva potuto ingannare anche l’occhio esperto di un pittore. Nel ritratto di Archinto dunque Tiziano avrebbe dimostrato la propria straordinaria padronanza tecnica nella rappresentazione dei tessuti, sia i ricchi velluti sia gli impalpabili veli, mediante l'abile resa della cortina che vela a metà il quadro. La seconda ipotesi invece insiste nel vedere nella cortina una simbolica allusione agli intralci politici che sopravvennero a oscurare la carriera dell'arcivescovo fino a portarlo all'allontanamento da Milano e all'esilio di Bergamo.
Possiamo prima di tutto notare che le due ipotesi non si escludono affatto: se aggiungiamo a questa circostanza il dato tecnico che porta ad escludere che il ritratto non velato di Archinto potrebbe essere opera della scuola o addirittura di un altro artista, riconosciamo in Tiziano un artista davvero unico, interessato e capace di conferire, mediante questo effetto di parziale mascheramento, una molteplicità di implicazioni e significati in una sola opera. Per chiarire il mio pensiero aggiungo solo che simili piani di lettura complessi e polisemici si trovano, per esempio, in pittori come Piero della Francesca e Velázquez, oppure recentemente in Duchamp o Magritte.
Così Tiziano ci si presenta come un artista capace di suggerire con la sua opera aspetti di indeterminazione e problematicità, lasciando solo allo spettatore preparato il compito di coglierli, e di rimanere aperto agli interrogativi che ne scaturiscono rispetto alla rappresentazione pittorica e all’arte stessa. Tali suggestioni risultano peraltro affidate a caratteristiche apparentemente marginali dell'opera, che mostrano però come sia sottile, nell’esercizio stesso della creatività, la linea di confine fra sintassi e semantica, e come sia complessa la relazione tra l'artista e il suo pubblico.
Prima di lasciare le sale delle Gallerie d’Italia invito il visitatore e lettore a osservare a lungo e in modo attento i dipinti di Moroni. Tiziano viene sovente giudicato come il più abile ritrattista del suo tempo, capace di immortalare nei ritratti il carattere e le emozioni dei suoi soggetti, e per l’approfondito scavo psicologico del quale era capace.
Moroni è egualmente famoso soprattutto per la sua attività di ritrattista, ma in un senso differente: i suoi dipinti possono essere definiti veri e proprio ritratti in azione, poiché presentano personaggi nell'attimo in cui stanno compiendo un gesto e riescono così a evitare l'arida fissità del ritratto ufficiale. A questa dote aggiungerei la sublime capacità di creare un equilibrio di toni fra volto e sfondo. E che lodi usare per definire la sua capacità di ritrarre Bartolomeo Colleoni, che certo non poté conoscere essendo ormai morto da tempo? Occorre riconoscere che in questo ritratto, e in quello di Giovanni Bressani, che Moroni non poté conoscere di persona (ritratto presente in mostra ma che si trova nella National Galleries of Scotland a Edimburgo) Moroni si dimostra capace di costruire un ritratto ideale che riesce a essere più vero di ogni realtà fenomenica. Per cui la tenzone fra Tiziano e Moroni, rispetto all’arte del ritratto, se qualcuno fosse interessato a proporla, per conto mio, potrebbe ancora chiudersi con un elegante pareggio.
Desidero anche segnalare che una delle nove sale in cui è articolata è di particolare interesse per i contemplativi, in quanto viene preceduta da una citazione di Ignazio di Loyola: “Composizione sarà vedere con l’occhio dell’immaginazione un luogo fisico in cui si trovi ciò che voglio contemplare” e mostra un’altra tematica rappresentativa che divenne di moda proprio in seguito all’atmosfera spirituale promossa dalla riforma cattolica, cui ho accennato prima, quella di avere a casa quadri, di carattere devozionale, che promovessero la “meditazione” su alcune esperienze religiose. Anche in tale produzione Moroni finì col distinguersi e i suoi quadri vennero molto ricercati.
Preferisco però concludere il mio contributo odierno ritornando davanti al ritratto di Filippo Archinto: occorre osservare a lungo un quadro per iniziare diventare intimi a esso. Invito ora il mio lettore a concentrarsi sulla figura velata a destra del quadro. La mano destra del cardinale è coperta solo per metà dalla tenda, mentre la mano sinistra è interamente velata: in verità si riesce a distinguere solo tre dita e sono poste in una particolarissima inclinazione per cui, complice anche l’effetto di velatura, nello spazio vuoto fra le dita, si crea un’immagine strana, sembrano le due orbite vuote di un teschio. Questa mano velata, isolata da ogni contesto, mi è apparsa come uno di quelle rappresentazioni involontarie tanto studiate dalla psicoanalisi e, contemporaneamente, il mio pensiero associativo è subito passato alla serie dei papi di Francis Bacon. Per provare l’emozione che ho sentito davanti a questo quadro occorre vedere. Di certo, c’è in questo frantumarsi e disgregarsi dell’immagine figurativa, qualcosa di inesprimibile, che appare a volte in altri quadri di Tiziano, per esempio nella Pietà delle Gallerie dell’Accademia, qualcosa che rende Tiziano ai miei occhi come un artista veramente in anticipo di trecento anni rispetto alla sua epoca, padre ideale di tutta l’arte contemporanea.
(Sergio Gandini)