Letture
TUCIDIDE (Θουκυδίδης): La Guerra del Peloponneso
In questi momenti in cui la guerra reale torna proprio in Europa è facile cadere nello sconforto e nella prostrazione. Come possiamo invece alimentare semi positivi di consapevolezza? Questa è la domanda che il meditante deve avere sempre fissa davanti a sé, come la sua autentica aspirazione, nelle difficoltà sia della propria vita personale sia in quelle delle contingenze storiche in cui si trova a esistere. La guerra è sempre esistita e forse esisterà sempre: essa è intimamente connessa alle paure e alle fragilità della condizione umana stessa, che sono in grado, in molte circostanze, di determinare risposte errate precipitose e violente in tutti gli esseri umani. Aggiungiamo però, oltre alle motivazioni individuali che portano a sviluppare comportamenti aggressivi, esistono anche cause oggettive che vanno ricercate con attenzione analizzando il contesto socio-economico. |
In realtà non è possibile negare che la guerra rappresenta anche, e forse principalmente, un affare dal punto di vista economico: esistono fabbricanti e commercianti di armi, e il bilancio di tutti gli stati prevede spese ingenti in tali ambiti.
Che cosa può concretamente fare il singolo di fronte a questa complessa situazione? Potrebbe, per esempio, scegliere di non utilizzare come Banca per i propri risparmi una che investe soldi in settori legati a tali ambiti. Forse la risposta che tutti però in qualche modo cercano, al di là delle scelte personali di investimento, è sempre la medesima: come promuovere, nei limiti individuali, un pensiero che si rivolga verso la pace? Aspirare alla pace non significa sposare sempre e comunque il pacifismo: i partigiani che agirono nella seconda guerra mondiale erano disposti a combattere e a morire in nome di una pace vera. Non vorrei però cadere in una semplice retorica. E credo che, in questo momento storico, avere il coraggio di non schierarsi potrebbe promuovere una parola più autentica di pace. È possibile aiutare, aderendo a organizzazioni umanitarie, coloro che sono aggrediti in questa attualità storica, concretamente, senza necessariamente aderire alle ragioni di una delle parti in conflitto. Forse è possibile sospendere il giudizio e demandare allo storico di chiarire queste ragioni, di natura oggettiva. Questo tempo ha una reale necessità del lavoro imparziale dello storico quanto di quello dell’attivista politico: perciò, sia in base alle mie specifiche competenze sia rispetto alla natura del sito Meditatio, scelgo per me la parte dello storico.
Dunque, di fronte all’attualità della guerra, il mio pensiero corre immediatamente a questo testo fondamentale della cultura occidentale, la Guerra del Peloponneso di Tucidide. Questo testo, come è noto, segna la nascita della storiografia stessa nella cultura occidentale: esso contiene il prezioso insegnamento che la Storia è κτῆμα ἐς αἰεί, cioè “possesso per sempre", una miniera di dati validi in ogni tempo e spazio, una luce che illumina passato, presente e futuro, e che costituisce un sapere in grado di essere trasmesso e utilizzato dalle generazioni future. Questo concetto verrà raccolto da tutta la tradizione romana, a partire da Tito Livio che lo coniuga nei termini di “historia magistra vitae”, la storia è maestra di vita.
Secondo Tucidide la natura umana è segnata da un inesauribile desiderio di accrescimento(αὔξησις), che non può essere né limitato né contrastato se non dalla presenza di una forza uguale e contraria: si tratta di una visione oggettiva fisica e scientifica del reale. Tale tendenza ad aumentare la propria potenza è il tratto ricorrente della società umana organizzata politicamente: di conseguenza, quando, all'interno di un territorio circoscritto geograficamente, si vengono formando due centri di potere - nel caso greco analizzato da Tucidide nel suo testo si tratta delle due città-stato (πόλεις) di Sparta e Atene - è certo che queste due entità tenderanno ad accrescere la propria forza, ad espandersi, a sottomettere le città più deboli, finché le reciproche sfere di influenza entreranno inevitabilmente in conflitto. Non sono possibili altri esiti, se non la guerra di annientamento: trattati di pace, accordi di convivenza, alleanze possono avere luogo, ma solo per tempi e modi limitati, perché il desiderio di accrescimento implica il desiderio di annientare il rivale.
Riconoscendo la centralità della guerra nella storia umana, Tucidide riconosce anche l'importanza delle basi materiali grazie alle quali gli uomini si fanno la guerra, vale a dire il denaro. Senza denaro non si fa la guerra e, reciprocamente, la guerra diventa un affare economico per coloro che detengono il potere; questo riporta alle considerazioni iniziali. In Tucidide la storia è diretta dagli uomini e dalle risorse materiali, non dagli dei o da considerazioni di ordine diverso: sottolineiamo questo punto poiché rappresenta l’indubbia attualità di Tucidide in ogni epoca storica, anche nella nostra.
La centralità della guerra nella storia è stata messa in dubbio nel novecento da altri approcci storici, per esempio, quello degli Annales, che mira a pervenire a una visione più globale della Storia, capace di superare l’idea della storia come racconto di eventi nella direzione di un accadere storico segnato dalla proposta di problemi, fino a quelli attuali che intendono evidenziare la complessa trama intessuta, dietro gli eventi considerati propriamente storici, dalle dinamiche presenti nella vita quotidiana.
Fatte questo doverose premesse, abbastanza note e generiche, vorrei cercare ora di entrare più a fondo nell’animo di questo autore. Anzitutto occorre considerare che egli rimane sostanzialmente isolato nel suo tempo: scriveva in fondo per una élite di estimatori, o forse presagiva davvero che se la storia è κτῆμα ἐς αἰεί, per coerenza, doveva essere disposto a ritirarsi in attesa di tempi differenti in cui sarebbero sorti uomini in grado di comprenderlo? Per esempio, l’idea fondante della sua opera come di un’unica guerra durata ventisette anni non fu mai accettata dai suoi contemporanei. Eppure oggi appare indiscutibile; forse succede lo stesso con l’idea espressa da Hobsbawn nel suo “Il secolo breve”, cioè che non esistono due successive guerre mondiali ma un unico immane conflitto paragonabile solo a quello che rappresentò per l’Europa la guerra dei Trent’anni. Eppure nessuno dei suoi contemporanei ebbe l’ardire di scrivere un’altra guerra del Peloponneso. Egualmente il suo stile risulta davvero difficile e scoraggia ancora oggi molti lettori: il carattere speculativo della sua opera trova infatti espressione in una prosa densa e irregolare, con periodi complessi e le caratteristiche peculiari del suo stile impiegano un ampio uso di variatio e di antitesi.
Tale stile deriva da una singolare commistione di elementi davvero contraddittori: da una parte egli intende narrare in modo assolutamente oggettivo i fatti del divenire storico, sulla base della fedeltà a certi assiomi di base, come si rivela in alcuni passaggi: “Così poco si affatica la maggior parte degli uomini nella ricerca della verità: preferiscono invece rivolgersi a versioni già pronte” (I, 20, 3, ed. UTET, 1982, a cura di Donini). Basta già una semplice osservazione come questa a restituire tutta la statura di questa persona, quella di un autentico testimone della Verità, come poté essere Socrate e pochi altri, nel suo tempo dilaniato da una guerra interminabile e dallo scontro tra il modello aristocratico e democratico che ebbe infine termine solo con l’avvento della nuova mentalità cosmopolita promossa dalla cultura alessandrina. Dall’altra parte invece, al dovere dello storico, si unisce la preoccupazione dell’essere umano Tucidide di riflettere, in una prospettiva meditativa, sulla complessità dei vissuti umani incarnati negli eventi storici.
In sintesi è corretto affermare che Tucidide ritiene la storiografia capace di giungere a delle conclusioni generali attraverso uno studio dettagliato dei fatti particolari e rifiuta qualsiasi interpretazione filosofica e religiosa: la storia mira a raggiungere la verità (ἀλήθεια) senza aggiunte e deformazioni, senza elementi mitici e confortanti. Se ancora la storiografia di Erodoto trovava la sua base nel trascendente, nella volontà o nel capriccio degli dei, per Tucidide i fatti hanno la loro spiegazione in se stessi. Fu quindi il primo a riconoscere la politica come sfera autonoma dell'attività umana: infatti la ragione ultima che sta alla base della storia è la brama di potere dei singoli stati; infine, nella narrazione dei fatti, Tucidide mostra di essere un acuto osservatore della psicologia collettiva e contemporaneamente porta sulla scena le individualità come attori della storia.
Un altro elemento che va evidenziato è il ruolo centrale dei discorsi nel suo resoconto dei fatti: essi vengono espressi in forma diretta e si rivelano come lo strumento necessario per la ricerca del vero, in quanto il loro scopo è quello di rendere il verosimile possibile, cioè quello che importa a Tucidide, in quanto storico oggettivo (e sebbene fosse possibile che egli abbia assistito direttamente a qualcuno di questi discorsi) non è tanto ricostruire esattamente quello che fu pronunciato in determinate circostanze, quanto permettere al lettore di cogliere dall’interno del loro farsi il senso effettivo di quegli eventi. Questa impostazione così personale evita allo storico di intervenire personalmente nella narrazione e contribuisce a quella impressione di distacco e imparzialità, così caratteristica in lui, in quanto sono gli stessi personaggi a spiegare i motivi, i retroscena, le cause e gli obiettivi che determinano l’agire umano.
Ma veramente Tucidide rimane fedele a questo apparente imperativo della assoluta neutralità? Se leggiamo in modo attento forse l’esempio più famoso di tali discorsi, quello tenuto da Pericle per commemorare i caduti del primo anno di guerra, ci accorgiamo ben presto che diventa lo spunto per tessere l'elogio della potenza e della vita culturale di Atene, "maestra dell'Ellade", e per celebrare un autentico elogio della democrazia.
Leggiamo, per esempio, il seguente passaggio: “Riassumendo, affermo che tutta la città è un esempio di educazione per la Grecia e che, a mio parere, il singolo individuo educato da noi può essere disponibile, e sufficiente, alle più svariate attività, con la massima versatilità e disinvoltura. E che questo non sia uno sfoggio di parole dette per l’occasione, ma piuttosto la verità dei fatti lo indica la stessa potenza della città che abbiamo ottenuto attraverso queste caratteristiche di vita” (II, 41,1-2). In questo discorso appare con chiarezza quest’antinomia di fondo tra una sorta di cinico distacco nei confronti della realtà narrata, coerente con le premesse della impostazione storiografica, e un credo più profondo, quello nei valori eterni della democrazia, eterni non in quando dimostrati dalla logica dei fatti indagati storicamente, bensì eterni in quanto iscritti nella mente di ciascun essere umano.
Pare di trovarsi di fronte alla medesima antinomia vissuta in prima persona da Machiavelli, autore il quale viene sovente accostato a Tucidide in virtù della sua scelta rivoluzionaria di separare dalla storia la considerazione della morale, oppure per il tono fondante del suo realismo assoluto. Machiavelli, universalmente noto come l’autore del Principe, disincantato osservatore della realtà del suo tempo, autore di un trattato di azione politica, scrisse anche i “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio”, opera magistrale che si confronta appunto con quel modello di “historia magistra vitae” ricordato all’inizio: dunque, in questa opera, proprio lo storico cinico e realista esalta i valori fondanti di Roma, perfino la sua intrinseca fede nella democrazia, come quelli che permisero la sua vera ascesa nella storia dell’umanità.
Proviamo anche a rileggere tutta la descrizione della Peste di Atene, già tornata attuale in tempi recenti, a causa della diffusione del covid: come non essere impressionati dall'intima partecipazione emotiva ai fatti descritti? E ancora il tragico episodio della spedizione ateniese in Sicilia, in cui si evidenzia, seppure con la consueta compostezza dello scrittore, tutto il suo dolore e la rabbia per la drammatica sorte dei soldati compatrioti? Non si tratta, a mio avviso, di andare alla ricerca di presunte e celate contraddizioni nell’opera dello storico Tucidide: si tratta, al contrario, di cogliere una superiore armonia tra visione scientifica della ricerca storica e il dovere di testimoniare i valori sostanziali dell’essere umano in ogni epoca.
Egualmente occorre vedere il tratto del sublime in questo scrittore di storia che fu, prima di tutto, un autentico meditante sopra gli eventi della storia: per coglierlo bisogna stare di fronte al fatto, evidente proprio nella descrizione prima ricordata della Peste di Atene, in cui trovò la morte lo stesso Pericle, della coesistenza nella realtà dell’elemento progettuale dell’essere umano, che si rivela anche nella missione dello storico, votato essenzialmente alla ricerca delle cause, e quella mentalità tragica propria dell’epoca classica, e che ritorna in Tucidide come curvatura esistenziale e anche profetica sul senso ultimo della storia stessa.
(Sergio Gandini)
Che cosa può concretamente fare il singolo di fronte a questa complessa situazione? Potrebbe, per esempio, scegliere di non utilizzare come Banca per i propri risparmi una che investe soldi in settori legati a tali ambiti. Forse la risposta che tutti però in qualche modo cercano, al di là delle scelte personali di investimento, è sempre la medesima: come promuovere, nei limiti individuali, un pensiero che si rivolga verso la pace? Aspirare alla pace non significa sposare sempre e comunque il pacifismo: i partigiani che agirono nella seconda guerra mondiale erano disposti a combattere e a morire in nome di una pace vera. Non vorrei però cadere in una semplice retorica. E credo che, in questo momento storico, avere il coraggio di non schierarsi potrebbe promuovere una parola più autentica di pace. È possibile aiutare, aderendo a organizzazioni umanitarie, coloro che sono aggrediti in questa attualità storica, concretamente, senza necessariamente aderire alle ragioni di una delle parti in conflitto. Forse è possibile sospendere il giudizio e demandare allo storico di chiarire queste ragioni, di natura oggettiva. Questo tempo ha una reale necessità del lavoro imparziale dello storico quanto di quello dell’attivista politico: perciò, sia in base alle mie specifiche competenze sia rispetto alla natura del sito Meditatio, scelgo per me la parte dello storico.
Dunque, di fronte all’attualità della guerra, il mio pensiero corre immediatamente a questo testo fondamentale della cultura occidentale, la Guerra del Peloponneso di Tucidide. Questo testo, come è noto, segna la nascita della storiografia stessa nella cultura occidentale: esso contiene il prezioso insegnamento che la Storia è κτῆμα ἐς αἰεί, cioè “possesso per sempre", una miniera di dati validi in ogni tempo e spazio, una luce che illumina passato, presente e futuro, e che costituisce un sapere in grado di essere trasmesso e utilizzato dalle generazioni future. Questo concetto verrà raccolto da tutta la tradizione romana, a partire da Tito Livio che lo coniuga nei termini di “historia magistra vitae”, la storia è maestra di vita.
Secondo Tucidide la natura umana è segnata da un inesauribile desiderio di accrescimento(αὔξησις), che non può essere né limitato né contrastato se non dalla presenza di una forza uguale e contraria: si tratta di una visione oggettiva fisica e scientifica del reale. Tale tendenza ad aumentare la propria potenza è il tratto ricorrente della società umana organizzata politicamente: di conseguenza, quando, all'interno di un territorio circoscritto geograficamente, si vengono formando due centri di potere - nel caso greco analizzato da Tucidide nel suo testo si tratta delle due città-stato (πόλεις) di Sparta e Atene - è certo che queste due entità tenderanno ad accrescere la propria forza, ad espandersi, a sottomettere le città più deboli, finché le reciproche sfere di influenza entreranno inevitabilmente in conflitto. Non sono possibili altri esiti, se non la guerra di annientamento: trattati di pace, accordi di convivenza, alleanze possono avere luogo, ma solo per tempi e modi limitati, perché il desiderio di accrescimento implica il desiderio di annientare il rivale.
Riconoscendo la centralità della guerra nella storia umana, Tucidide riconosce anche l'importanza delle basi materiali grazie alle quali gli uomini si fanno la guerra, vale a dire il denaro. Senza denaro non si fa la guerra e, reciprocamente, la guerra diventa un affare economico per coloro che detengono il potere; questo riporta alle considerazioni iniziali. In Tucidide la storia è diretta dagli uomini e dalle risorse materiali, non dagli dei o da considerazioni di ordine diverso: sottolineiamo questo punto poiché rappresenta l’indubbia attualità di Tucidide in ogni epoca storica, anche nella nostra.
La centralità della guerra nella storia è stata messa in dubbio nel novecento da altri approcci storici, per esempio, quello degli Annales, che mira a pervenire a una visione più globale della Storia, capace di superare l’idea della storia come racconto di eventi nella direzione di un accadere storico segnato dalla proposta di problemi, fino a quelli attuali che intendono evidenziare la complessa trama intessuta, dietro gli eventi considerati propriamente storici, dalle dinamiche presenti nella vita quotidiana.
Fatte questo doverose premesse, abbastanza note e generiche, vorrei cercare ora di entrare più a fondo nell’animo di questo autore. Anzitutto occorre considerare che egli rimane sostanzialmente isolato nel suo tempo: scriveva in fondo per una élite di estimatori, o forse presagiva davvero che se la storia è κτῆμα ἐς αἰεί, per coerenza, doveva essere disposto a ritirarsi in attesa di tempi differenti in cui sarebbero sorti uomini in grado di comprenderlo? Per esempio, l’idea fondante della sua opera come di un’unica guerra durata ventisette anni non fu mai accettata dai suoi contemporanei. Eppure oggi appare indiscutibile; forse succede lo stesso con l’idea espressa da Hobsbawn nel suo “Il secolo breve”, cioè che non esistono due successive guerre mondiali ma un unico immane conflitto paragonabile solo a quello che rappresentò per l’Europa la guerra dei Trent’anni. Eppure nessuno dei suoi contemporanei ebbe l’ardire di scrivere un’altra guerra del Peloponneso. Egualmente il suo stile risulta davvero difficile e scoraggia ancora oggi molti lettori: il carattere speculativo della sua opera trova infatti espressione in una prosa densa e irregolare, con periodi complessi e le caratteristiche peculiari del suo stile impiegano un ampio uso di variatio e di antitesi.
Tale stile deriva da una singolare commistione di elementi davvero contraddittori: da una parte egli intende narrare in modo assolutamente oggettivo i fatti del divenire storico, sulla base della fedeltà a certi assiomi di base, come si rivela in alcuni passaggi: “Così poco si affatica la maggior parte degli uomini nella ricerca della verità: preferiscono invece rivolgersi a versioni già pronte” (I, 20, 3, ed. UTET, 1982, a cura di Donini). Basta già una semplice osservazione come questa a restituire tutta la statura di questa persona, quella di un autentico testimone della Verità, come poté essere Socrate e pochi altri, nel suo tempo dilaniato da una guerra interminabile e dallo scontro tra il modello aristocratico e democratico che ebbe infine termine solo con l’avvento della nuova mentalità cosmopolita promossa dalla cultura alessandrina. Dall’altra parte invece, al dovere dello storico, si unisce la preoccupazione dell’essere umano Tucidide di riflettere, in una prospettiva meditativa, sulla complessità dei vissuti umani incarnati negli eventi storici.
In sintesi è corretto affermare che Tucidide ritiene la storiografia capace di giungere a delle conclusioni generali attraverso uno studio dettagliato dei fatti particolari e rifiuta qualsiasi interpretazione filosofica e religiosa: la storia mira a raggiungere la verità (ἀλήθεια) senza aggiunte e deformazioni, senza elementi mitici e confortanti. Se ancora la storiografia di Erodoto trovava la sua base nel trascendente, nella volontà o nel capriccio degli dei, per Tucidide i fatti hanno la loro spiegazione in se stessi. Fu quindi il primo a riconoscere la politica come sfera autonoma dell'attività umana: infatti la ragione ultima che sta alla base della storia è la brama di potere dei singoli stati; infine, nella narrazione dei fatti, Tucidide mostra di essere un acuto osservatore della psicologia collettiva e contemporaneamente porta sulla scena le individualità come attori della storia.
Un altro elemento che va evidenziato è il ruolo centrale dei discorsi nel suo resoconto dei fatti: essi vengono espressi in forma diretta e si rivelano come lo strumento necessario per la ricerca del vero, in quanto il loro scopo è quello di rendere il verosimile possibile, cioè quello che importa a Tucidide, in quanto storico oggettivo (e sebbene fosse possibile che egli abbia assistito direttamente a qualcuno di questi discorsi) non è tanto ricostruire esattamente quello che fu pronunciato in determinate circostanze, quanto permettere al lettore di cogliere dall’interno del loro farsi il senso effettivo di quegli eventi. Questa impostazione così personale evita allo storico di intervenire personalmente nella narrazione e contribuisce a quella impressione di distacco e imparzialità, così caratteristica in lui, in quanto sono gli stessi personaggi a spiegare i motivi, i retroscena, le cause e gli obiettivi che determinano l’agire umano.
Ma veramente Tucidide rimane fedele a questo apparente imperativo della assoluta neutralità? Se leggiamo in modo attento forse l’esempio più famoso di tali discorsi, quello tenuto da Pericle per commemorare i caduti del primo anno di guerra, ci accorgiamo ben presto che diventa lo spunto per tessere l'elogio della potenza e della vita culturale di Atene, "maestra dell'Ellade", e per celebrare un autentico elogio della democrazia.
Leggiamo, per esempio, il seguente passaggio: “Riassumendo, affermo che tutta la città è un esempio di educazione per la Grecia e che, a mio parere, il singolo individuo educato da noi può essere disponibile, e sufficiente, alle più svariate attività, con la massima versatilità e disinvoltura. E che questo non sia uno sfoggio di parole dette per l’occasione, ma piuttosto la verità dei fatti lo indica la stessa potenza della città che abbiamo ottenuto attraverso queste caratteristiche di vita” (II, 41,1-2). In questo discorso appare con chiarezza quest’antinomia di fondo tra una sorta di cinico distacco nei confronti della realtà narrata, coerente con le premesse della impostazione storiografica, e un credo più profondo, quello nei valori eterni della democrazia, eterni non in quando dimostrati dalla logica dei fatti indagati storicamente, bensì eterni in quanto iscritti nella mente di ciascun essere umano.
Pare di trovarsi di fronte alla medesima antinomia vissuta in prima persona da Machiavelli, autore il quale viene sovente accostato a Tucidide in virtù della sua scelta rivoluzionaria di separare dalla storia la considerazione della morale, oppure per il tono fondante del suo realismo assoluto. Machiavelli, universalmente noto come l’autore del Principe, disincantato osservatore della realtà del suo tempo, autore di un trattato di azione politica, scrisse anche i “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio”, opera magistrale che si confronta appunto con quel modello di “historia magistra vitae” ricordato all’inizio: dunque, in questa opera, proprio lo storico cinico e realista esalta i valori fondanti di Roma, perfino la sua intrinseca fede nella democrazia, come quelli che permisero la sua vera ascesa nella storia dell’umanità.
Proviamo anche a rileggere tutta la descrizione della Peste di Atene, già tornata attuale in tempi recenti, a causa della diffusione del covid: come non essere impressionati dall'intima partecipazione emotiva ai fatti descritti? E ancora il tragico episodio della spedizione ateniese in Sicilia, in cui si evidenzia, seppure con la consueta compostezza dello scrittore, tutto il suo dolore e la rabbia per la drammatica sorte dei soldati compatrioti? Non si tratta, a mio avviso, di andare alla ricerca di presunte e celate contraddizioni nell’opera dello storico Tucidide: si tratta, al contrario, di cogliere una superiore armonia tra visione scientifica della ricerca storica e il dovere di testimoniare i valori sostanziali dell’essere umano in ogni epoca.
Egualmente occorre vedere il tratto del sublime in questo scrittore di storia che fu, prima di tutto, un autentico meditante sopra gli eventi della storia: per coglierlo bisogna stare di fronte al fatto, evidente proprio nella descrizione prima ricordata della Peste di Atene, in cui trovò la morte lo stesso Pericle, della coesistenza nella realtà dell’elemento progettuale dell’essere umano, che si rivela anche nella missione dello storico, votato essenzialmente alla ricerca delle cause, e quella mentalità tragica propria dell’epoca classica, e che ritorna in Tucidide come curvatura esistenziale e anche profetica sul senso ultimo della storia stessa.
(Sergio Gandini)