Letture
Vincenzo Catena e l'arte di ascoltare con gli occhi.
Quando si passa sopra un ponte, a Venezia, perlopiù si fatica ad avanzare: qualche turista sta fotografandone un altro, adesso ci si può anche fotografare insieme in un selfie; al prossimo ponte la storia si ripete, si direbbe che non può essere eppure immancabilmente qualcuno è fermo in posa e qualcuno si sforza di rendere naturale l’ennesima istantanea. A Venezia ci sono solo quattrocento diciassette ponti e quanti turisti li attraversano ogni giorno? Tuttavia è sempre la medesima foto, lo stesso sorriso, la stessa inquadratura: l’arco del ponte, lo sfondo in un canale, le case, il cielo e l’acqua. Come non accorgersi che è sempre la medesima immagine? Si risponde che è un ricordo, il ricordo di quella persona che è stata a Venezia e desidera conservarne un frammento; ma che significato potrebbe avere questo ricordo? |
Credo che a Venezia, in verità, ci sia solo un ponte un canale un fondale di cartapesta e che è vano posare in quel modo. A Venezia semmai è bello lasciarsi cullare dalle onde di pietra delle calli e arrendersi, essere disposti a perdersi: per quanto si disponga di precise mappe, adesso anche di google maps che è disposto a guidarti passo dopo passo, si finisce sempre per svoltare in un angolo imprevisto, il segnale si fa debole, la mappa lacunosa, sulla calle troppo piccola, ci si ritrova alla fine di un canale privo di ponte e si deve ritornare sui propri passi. Visitare Venezia è perdersi in un labirinto.
Mi viene in mente un racconto di H.G.Wells, letto nella adolescenza, credo fosse tradotto come La porta verde, in cui il protagonista bambino entra per caso in un giardino fatato; pur se talora di essere sul punto di ritrovarlo, lo cercherà poi invano per tutta la vita.
È accaduto così anche a me, in un modo particolare, come poteva succedere solo a un pittore: cammino a Venezia, in una calle particolarmente stretta, d’improvviso mi trovo di fronte a una chiesa, una delle tante che ci sono, così tante che si finisce per non provare più nemmeno ad entrarvi – invece quella volta entro, chissà perché, e mi trovo davanti a uj quadro. Leggo la didascalia accanto al dipinto, l’autore mi è perfettamente ignoto: rimango però a fissarlo stupefatto, è davvero un prodigio di bellezza.
Questo fatto mi è avvenuto davvero credo vent’anni fa. Ovviamente avevo anche finito per dimenticarmi il nome dell’artista che non conoscevo. Non la commozione di quella visione. Per vent’anni non sono più riuscito a rivedere dal vero quel quadro, come se fossi stato vittima di una maledizione. Ma siccome sono un pittore ho iniziato a cercare e, con qualche fatica, procedendo per approssimazioni ed esclusioni, sono riuscito a ricostruire quale potesse essere quella chiesa e perfino a ritrovarla: solo che ogni volta l’ho sempre trovata chiusa. Nel frattempo ho sviluppato ipotesi sempre più precise, fino a identificare quell’artista ignoto e a documentarmi per quanto possibile su di lui.
A rivedere quel quadro però non sono mai riuscito: a Venezia ci sono centotrentasette chiese, molte meno dei ponti ma ormai non ci sono certo abbastanza preti neanche per tenerle aperte! Adesso lentamente qualcosa sta cambiando grazie soprattutto all’impegno di tanti volontari: mi sono informato con maggiore precisione e, finalmente, quest’anno ho potuto rivedere quello che era diventato per antonomasia il mio quadro a Venezia, approfittando del giorno preciso e del breve spazio di due ore in cui mi avevano assicurato che avrei trovato la chiesa aperta.
Credo di aver incuriosito a sufficienza il mio occasionale lettore e che sia giunto il momento di svelare chi sia il misterioso autore di questo quadro: il dipinto al quale mi riferisco è Visione di Santa Cristina, di Vincenzo Catena, conservato nella Chiesa Santa Maria Mater Domini, a Venezia, ma davvero credo che il nome di Catena sia davvero poco conosciuto al di fuori degli addetti ai lavori.
Forse avremmo dimenticato perfino il nome di questo artista senza la famosa iscrizione datata 1506 sul retro della cosiddetta Laura di Giorgione conservata a Vienna, nel Kunsthistorisches Museum: in essa il celebre pittore si dichiara cholega de maistro vizenzo catena, indicando quindi una relazione tra i due artisti. Ignoriamo però perfino il tempo della nascita di Catena, che alcuni storici pongono nel 1480 altri nel 1470 e scarsi sono i dati della sua vita, a parte alcuni tratti aneddotici: per esempio, potrebbe essere nato in una famiglia di oriundi dalmati, altrove si attesta che fosse scapolo, e forse malaticcio, argomentandolo dal fatto che di lui ci sono pervenuti ben cinque testamenti. Comunque ormai è conosciuto anche come Vincenzo di Biagio e si ritiene che sia morto nel 1531. Entrando nello specifico della storia dell’arte, gli esperti stessi non sanno essere più precisi: chi lo indica senz’altro come allievo di Giovanni Bellini, chi di Alvise Vivarini, altri di Cima da Conegliano. Forse intorno al 1520 soggiornò a Roma, dato questo che risulterebbe dall'influenza di Raffaello nella Sacra famiglia con Sant’Anna: questo viene indicato come l’anno della sua svolta e dell’inizio della ultima fase artistica, in cui viene appunto collocata l’esecuzione della Pala a Santa Cristina. C’è chi delinea nella sua pittura due fasi, altri tre; avrebbe anche subito l’influsso di Tiziano e di Palma il Vecchio; in generale la critica moderna, pur ammirandone qualche opera, generalmente lo svaluta e lo mette fra gl'ibridi e i ritardatarî, o tutt’al più lo colloca con disinvoltura, come il Fogolari, fra gli eclettici.
La semplice verità è che, a tutt’oggi, esiste un solo studio monografico su Catena: esso fu redatto nel 1954 da Giles Henry Robertson (1913–1987), figlio del professor Donald Struan Robertson, professore di greco all'Università di Cambridge, e fratello minore di Martin Robertson; studiò poi alla Leys School di Cambridge e fu nutrito dai classici dell'Università di Oxford fino a diventare un eminente storico dell'arte britannico del ventesimo secolo ed esperto del Rinascimento italiano. Così, alla fine delle ostilità in Europa, si unì al team del programma Monuments, Fine Arts, and Archives (i "Monuments Men") per rintracciare tesori d'arte nascosti dai nazisti o saccheggiati dalle truppe alleate.
Solo di recente, nel 2007, è uscito su una rivista un articolo di Enrico Dal Pozzolo, che si avventura in numerose novità attributive, cronologiche e di lettura iconografica, anche se rimane in un ambito strettamente specialistico.
Anche un altro possibile filone di indagine risulta poco incoraggiante: chi era Santa Cristina? La Passione di Santa Cristina ci è pervenuta in redazioni di epoche diverse, le quali discordano sulle sue origini: le fonti orientali intendono Tiro in Fenicia, quelle latine intendono Tiro come il territorio laziale che si affaccia sul Mar Tirreno. Il testo più antico in nostro possesso, risale alla prima metà del V secolo ed è contenuto in un papiro proveniente da Ossirinco, in Egitto, e pubblicato solo nel 1911. Ma il testo più noto, che anche Catena doveva conoscere, è quello della Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, in cui si narra di una fanciulla di nome Cristina, figlia di Urbanus, comandante delle milizie bolsenesi dell'imperatore, destinata dai genitori diventare sacerdotessa degli dei. Al suo rifiuto, all'età di undici anni, fu rinchiusa dal padre in una torre insieme a dodici ancelle pagane, affinché la convincessero ad adorare delle statue di idoli romani; il padre poi, esasperato dal suo comportamento, finì per farle legare una macina al collo, dando l’ordine di annegarla nelle acque del lago di Bolsena, ma Cristina venne salvata e ricondotta a riva da angeli inviati da Cristo, che la battezzò. Il racconto prosegue con notizie di altri prodigi: ma di essi non c’è traccia nella Pala di Catena che conserva solo la macina e privilegia il legame Cristo/Cristina che appare già evidente nel nome.
Dopo queste necessarie precisazioni di carattere storico posso infine ritornare al mio dipinto: devo confessare prima a me stesso e al lettore lo stupore per la storia singolare che mi lega a questo quadro. Lo vedi venti anni fa e lo rivedo ora, anche se ho continuato a vederlo nella memoria in modo sempre più illanguidito, aiutandomi però con diverse riproduzioni a partire dal momento in cui mi sembrava di averlo ormai identificato.
E ora mi sorprendo a chiedermi le ragioni di quell’amore a prima vista e di questo stupore; ammetto con sincera modestia che allora, per me da sempre innamorato di Piero e Vermeer, le mie cognizioni della pittura veneta erano ancora piuttosto approssimative. La prima autentica scoperta fu per me Cima da Conegliano in un'altra visione, il Battesimo di Cristo di Cima da Conegliano, un dipinto olio su tavola conservata nella Chiesa di San Giovanni in Bragora, ancora una volta a Venezia; in quella chiesa però ero andato del tutto ignaro, solo perché in essa era stato battezzato Vivaldi, il mio compositore preferito da quando ascolto musica. Ora invece, dopo tutti questi anni di studio e di contemplazioni, posso considerare con maggiori cognizioni questo dipinto: di primo acchito riconosco la grazia sottile di Cima, ma posso ammirare la forza visionaria di Giorgione e la sublime sapienza coloristica di Giovanni Bellini. Ma c’è di più: sono in grado di comprendere pienamente come Vincenzo sia riuscito ad assimilare direttamente la rivoluzione di Tiziano che invece risultò quasi incomprensibile a molti suoi contemporanei: basti pensare che la sua Assunta conservata ai Frari fu molto criticata. Era questa la prima grande commissione di carattere religioso che il giovane Tiziano riceveva dalla Repubblica Veneta e soltanto due anni dopo l’inizio dei lavori presentò un’opera la cui altezza sfiorava i sette metri: l’Assunta. Talmente soddisfatto del suo lavoro, Tiziano firmò la tavola, azione poco comune all’epoca, mentre i contemporanei reagirono con poco entusiasmo alle innovazioni presenti: leggo addirittura nel testo di un critico che “la dinamicità e le vivaci pennellate di colore dell’Assunta si andavano infatti a scontrare ad una tradizione pittorica che a Venezia era ancora succube della ieraticità delle opere bizantine”.
Sono certo che questa non era il sentimento di Catena, educato dalla consuetudine con Giovanni Bellini alla rivoluzione coloristica del maestro: ma sono altrettanto sicuro che Catena iniziò allora a proseguire nella sua ricerca pittorica stimolato dalla sfida lanciata da Tiziano e deciso a trovare una sua soluzione davvero personale. Il mio sentire discorda pienamente dai critici prima accennati che riducono la ricerca di Catena nei limiti di un superficiale eclettismo, e lo presentano come un ritrattista attento, alla Moroni.
Sempre ai Frari è conservata la pala Pesaro: confrontando direttamente le due opere emerge per me chiaramente come il Maestro ripeta il medesimo schema compositivo, facilitato dal formato verticale. Appaiono due zone distinte, il mondo umano e quello del cielo, l’immanenza e la trascendenza: nella Pala Pesaro queste due zone sono separate, ma nell’Assunta il desiderio d’amore di Maria la porta a valicare quell’incolmabile spazio e ad ascendere direttamente verso il cielo, anche se una provvidenziale nube ancora la protegge dal fulgore del Divino.
Considero con maggiore attenzione la pala di Catena e ritrovo perfettamente la medesima organizzazione dello spazio; solo quattro anni separano le due opere.
Il mondo dell’immanenza e quello della trascendenza si dividono con equanimità lo spazio della tavola, ma la loro divisione è pressoché annullata in questa pala: un angelo, eseguendo direttamente l’ordine impartito da Cristo, con la mano regge la veste bianca di purezza nella quale verrà avvolta e trasfigurata Santa Cristina dopo il martirio. Nessuna traccia però del martirio, già narrato da tanti agiografi, trapela in questa visione: ci sono solo degli altri angeli-bambini, intorno alla santa, che sembrano giocare insieme, servendosi anche della ruota, unico flebile accenno alle circostanze del martirio.
Il dipinto di Catena si intitola Visione di Santa Cristina: non sappiamo quale visione precisamente ella ebbe ma seguiamo la direzione degli occhi della santa che tiene lo sguardo diritto dinanzi a sé, proprio dove ci sono le montagne di colori ineffabili che il maestro poteva aver appreso solo dalla assidua frequentazione di Giovanni Bellini. Ma ciò che la santa vede lo vede con gli occhi della mente: ha direttamente questa visione del Cristo in gloria, avvolto in un manto violetto. Quei manti quei drappeggi quei paludamenti di cui è colma tutta la pittura a partire dal Rinascimento, se li osserviamo con attenzione, non sono altro che luci. Ciò che vide Santa Cristina noi non lo possiamo sapere, ma di quella sublime luce Catena ammanta ogni frammento di questo stupefacente dipinto – quella luce cancella ogni barriera fra immanente e trascendente.
Dōgen insegna: “Gli esseri insenzienti che predicano il Dharma sono un mistero. Se ascoltiamo con le orecchie, alla fine è troppo difficile da capire. Se ascoltiamo con gli occhi, siamo in grado di conoscerlo”.
Vincenzo ci insegna ad ascoltare con gli occhi.
(Sergio Gandini)
Mi viene in mente un racconto di H.G.Wells, letto nella adolescenza, credo fosse tradotto come La porta verde, in cui il protagonista bambino entra per caso in un giardino fatato; pur se talora di essere sul punto di ritrovarlo, lo cercherà poi invano per tutta la vita.
È accaduto così anche a me, in un modo particolare, come poteva succedere solo a un pittore: cammino a Venezia, in una calle particolarmente stretta, d’improvviso mi trovo di fronte a una chiesa, una delle tante che ci sono, così tante che si finisce per non provare più nemmeno ad entrarvi – invece quella volta entro, chissà perché, e mi trovo davanti a uj quadro. Leggo la didascalia accanto al dipinto, l’autore mi è perfettamente ignoto: rimango però a fissarlo stupefatto, è davvero un prodigio di bellezza.
Questo fatto mi è avvenuto davvero credo vent’anni fa. Ovviamente avevo anche finito per dimenticarmi il nome dell’artista che non conoscevo. Non la commozione di quella visione. Per vent’anni non sono più riuscito a rivedere dal vero quel quadro, come se fossi stato vittima di una maledizione. Ma siccome sono un pittore ho iniziato a cercare e, con qualche fatica, procedendo per approssimazioni ed esclusioni, sono riuscito a ricostruire quale potesse essere quella chiesa e perfino a ritrovarla: solo che ogni volta l’ho sempre trovata chiusa. Nel frattempo ho sviluppato ipotesi sempre più precise, fino a identificare quell’artista ignoto e a documentarmi per quanto possibile su di lui.
A rivedere quel quadro però non sono mai riuscito: a Venezia ci sono centotrentasette chiese, molte meno dei ponti ma ormai non ci sono certo abbastanza preti neanche per tenerle aperte! Adesso lentamente qualcosa sta cambiando grazie soprattutto all’impegno di tanti volontari: mi sono informato con maggiore precisione e, finalmente, quest’anno ho potuto rivedere quello che era diventato per antonomasia il mio quadro a Venezia, approfittando del giorno preciso e del breve spazio di due ore in cui mi avevano assicurato che avrei trovato la chiesa aperta.
Credo di aver incuriosito a sufficienza il mio occasionale lettore e che sia giunto il momento di svelare chi sia il misterioso autore di questo quadro: il dipinto al quale mi riferisco è Visione di Santa Cristina, di Vincenzo Catena, conservato nella Chiesa Santa Maria Mater Domini, a Venezia, ma davvero credo che il nome di Catena sia davvero poco conosciuto al di fuori degli addetti ai lavori.
Forse avremmo dimenticato perfino il nome di questo artista senza la famosa iscrizione datata 1506 sul retro della cosiddetta Laura di Giorgione conservata a Vienna, nel Kunsthistorisches Museum: in essa il celebre pittore si dichiara cholega de maistro vizenzo catena, indicando quindi una relazione tra i due artisti. Ignoriamo però perfino il tempo della nascita di Catena, che alcuni storici pongono nel 1480 altri nel 1470 e scarsi sono i dati della sua vita, a parte alcuni tratti aneddotici: per esempio, potrebbe essere nato in una famiglia di oriundi dalmati, altrove si attesta che fosse scapolo, e forse malaticcio, argomentandolo dal fatto che di lui ci sono pervenuti ben cinque testamenti. Comunque ormai è conosciuto anche come Vincenzo di Biagio e si ritiene che sia morto nel 1531. Entrando nello specifico della storia dell’arte, gli esperti stessi non sanno essere più precisi: chi lo indica senz’altro come allievo di Giovanni Bellini, chi di Alvise Vivarini, altri di Cima da Conegliano. Forse intorno al 1520 soggiornò a Roma, dato questo che risulterebbe dall'influenza di Raffaello nella Sacra famiglia con Sant’Anna: questo viene indicato come l’anno della sua svolta e dell’inizio della ultima fase artistica, in cui viene appunto collocata l’esecuzione della Pala a Santa Cristina. C’è chi delinea nella sua pittura due fasi, altri tre; avrebbe anche subito l’influsso di Tiziano e di Palma il Vecchio; in generale la critica moderna, pur ammirandone qualche opera, generalmente lo svaluta e lo mette fra gl'ibridi e i ritardatarî, o tutt’al più lo colloca con disinvoltura, come il Fogolari, fra gli eclettici.
La semplice verità è che, a tutt’oggi, esiste un solo studio monografico su Catena: esso fu redatto nel 1954 da Giles Henry Robertson (1913–1987), figlio del professor Donald Struan Robertson, professore di greco all'Università di Cambridge, e fratello minore di Martin Robertson; studiò poi alla Leys School di Cambridge e fu nutrito dai classici dell'Università di Oxford fino a diventare un eminente storico dell'arte britannico del ventesimo secolo ed esperto del Rinascimento italiano. Così, alla fine delle ostilità in Europa, si unì al team del programma Monuments, Fine Arts, and Archives (i "Monuments Men") per rintracciare tesori d'arte nascosti dai nazisti o saccheggiati dalle truppe alleate.
Solo di recente, nel 2007, è uscito su una rivista un articolo di Enrico Dal Pozzolo, che si avventura in numerose novità attributive, cronologiche e di lettura iconografica, anche se rimane in un ambito strettamente specialistico.
Anche un altro possibile filone di indagine risulta poco incoraggiante: chi era Santa Cristina? La Passione di Santa Cristina ci è pervenuta in redazioni di epoche diverse, le quali discordano sulle sue origini: le fonti orientali intendono Tiro in Fenicia, quelle latine intendono Tiro come il territorio laziale che si affaccia sul Mar Tirreno. Il testo più antico in nostro possesso, risale alla prima metà del V secolo ed è contenuto in un papiro proveniente da Ossirinco, in Egitto, e pubblicato solo nel 1911. Ma il testo più noto, che anche Catena doveva conoscere, è quello della Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, in cui si narra di una fanciulla di nome Cristina, figlia di Urbanus, comandante delle milizie bolsenesi dell'imperatore, destinata dai genitori diventare sacerdotessa degli dei. Al suo rifiuto, all'età di undici anni, fu rinchiusa dal padre in una torre insieme a dodici ancelle pagane, affinché la convincessero ad adorare delle statue di idoli romani; il padre poi, esasperato dal suo comportamento, finì per farle legare una macina al collo, dando l’ordine di annegarla nelle acque del lago di Bolsena, ma Cristina venne salvata e ricondotta a riva da angeli inviati da Cristo, che la battezzò. Il racconto prosegue con notizie di altri prodigi: ma di essi non c’è traccia nella Pala di Catena che conserva solo la macina e privilegia il legame Cristo/Cristina che appare già evidente nel nome.
Dopo queste necessarie precisazioni di carattere storico posso infine ritornare al mio dipinto: devo confessare prima a me stesso e al lettore lo stupore per la storia singolare che mi lega a questo quadro. Lo vedi venti anni fa e lo rivedo ora, anche se ho continuato a vederlo nella memoria in modo sempre più illanguidito, aiutandomi però con diverse riproduzioni a partire dal momento in cui mi sembrava di averlo ormai identificato.
E ora mi sorprendo a chiedermi le ragioni di quell’amore a prima vista e di questo stupore; ammetto con sincera modestia che allora, per me da sempre innamorato di Piero e Vermeer, le mie cognizioni della pittura veneta erano ancora piuttosto approssimative. La prima autentica scoperta fu per me Cima da Conegliano in un'altra visione, il Battesimo di Cristo di Cima da Conegliano, un dipinto olio su tavola conservata nella Chiesa di San Giovanni in Bragora, ancora una volta a Venezia; in quella chiesa però ero andato del tutto ignaro, solo perché in essa era stato battezzato Vivaldi, il mio compositore preferito da quando ascolto musica. Ora invece, dopo tutti questi anni di studio e di contemplazioni, posso considerare con maggiori cognizioni questo dipinto: di primo acchito riconosco la grazia sottile di Cima, ma posso ammirare la forza visionaria di Giorgione e la sublime sapienza coloristica di Giovanni Bellini. Ma c’è di più: sono in grado di comprendere pienamente come Vincenzo sia riuscito ad assimilare direttamente la rivoluzione di Tiziano che invece risultò quasi incomprensibile a molti suoi contemporanei: basti pensare che la sua Assunta conservata ai Frari fu molto criticata. Era questa la prima grande commissione di carattere religioso che il giovane Tiziano riceveva dalla Repubblica Veneta e soltanto due anni dopo l’inizio dei lavori presentò un’opera la cui altezza sfiorava i sette metri: l’Assunta. Talmente soddisfatto del suo lavoro, Tiziano firmò la tavola, azione poco comune all’epoca, mentre i contemporanei reagirono con poco entusiasmo alle innovazioni presenti: leggo addirittura nel testo di un critico che “la dinamicità e le vivaci pennellate di colore dell’Assunta si andavano infatti a scontrare ad una tradizione pittorica che a Venezia era ancora succube della ieraticità delle opere bizantine”.
Sono certo che questa non era il sentimento di Catena, educato dalla consuetudine con Giovanni Bellini alla rivoluzione coloristica del maestro: ma sono altrettanto sicuro che Catena iniziò allora a proseguire nella sua ricerca pittorica stimolato dalla sfida lanciata da Tiziano e deciso a trovare una sua soluzione davvero personale. Il mio sentire discorda pienamente dai critici prima accennati che riducono la ricerca di Catena nei limiti di un superficiale eclettismo, e lo presentano come un ritrattista attento, alla Moroni.
Sempre ai Frari è conservata la pala Pesaro: confrontando direttamente le due opere emerge per me chiaramente come il Maestro ripeta il medesimo schema compositivo, facilitato dal formato verticale. Appaiono due zone distinte, il mondo umano e quello del cielo, l’immanenza e la trascendenza: nella Pala Pesaro queste due zone sono separate, ma nell’Assunta il desiderio d’amore di Maria la porta a valicare quell’incolmabile spazio e ad ascendere direttamente verso il cielo, anche se una provvidenziale nube ancora la protegge dal fulgore del Divino.
Considero con maggiore attenzione la pala di Catena e ritrovo perfettamente la medesima organizzazione dello spazio; solo quattro anni separano le due opere.
Il mondo dell’immanenza e quello della trascendenza si dividono con equanimità lo spazio della tavola, ma la loro divisione è pressoché annullata in questa pala: un angelo, eseguendo direttamente l’ordine impartito da Cristo, con la mano regge la veste bianca di purezza nella quale verrà avvolta e trasfigurata Santa Cristina dopo il martirio. Nessuna traccia però del martirio, già narrato da tanti agiografi, trapela in questa visione: ci sono solo degli altri angeli-bambini, intorno alla santa, che sembrano giocare insieme, servendosi anche della ruota, unico flebile accenno alle circostanze del martirio.
Il dipinto di Catena si intitola Visione di Santa Cristina: non sappiamo quale visione precisamente ella ebbe ma seguiamo la direzione degli occhi della santa che tiene lo sguardo diritto dinanzi a sé, proprio dove ci sono le montagne di colori ineffabili che il maestro poteva aver appreso solo dalla assidua frequentazione di Giovanni Bellini. Ma ciò che la santa vede lo vede con gli occhi della mente: ha direttamente questa visione del Cristo in gloria, avvolto in un manto violetto. Quei manti quei drappeggi quei paludamenti di cui è colma tutta la pittura a partire dal Rinascimento, se li osserviamo con attenzione, non sono altro che luci. Ciò che vide Santa Cristina noi non lo possiamo sapere, ma di quella sublime luce Catena ammanta ogni frammento di questo stupefacente dipinto – quella luce cancella ogni barriera fra immanente e trascendente.
Dōgen insegna: “Gli esseri insenzienti che predicano il Dharma sono un mistero. Se ascoltiamo con le orecchie, alla fine è troppo difficile da capire. Se ascoltiamo con gli occhi, siamo in grado di conoscerlo”.
Vincenzo ci insegna ad ascoltare con gli occhi.
(Sergio Gandini)