Letture
William Turner o del Sublime
Ogni tradizione considera sacra la misura del tempo costituita da un anno; magari l’inizio dell’anno viene posto in momenti differenti, a primavera in Cina piuttosto che nel solstizio invernale, ma la misura dell’anno permane. Ho iniziato a scrivere su Meditatio proprio a gennaio di questo anno, in occasione della mostra a Venaria Reale di Constable, così assume per me un particolare significato congedarmi da questo anno proprio in occasione della mostra di Turner nel medesimo luogo. |
La mostra si colloca in realtà in un più ampio progetto che davvero merita una lode particolare: tale progetto permetterà all’appassionato d’arte di contemplare a distanza ravvicinata tre pietre miliari dell’arte moderna, Constable Turner Blake, sul medesimo sfondo, quello della Reggia di Venaria. Non è una semplice circostanza esterna: contemplare queste opere in questo ambiente, osservare a lungo un quadro di Turner smagliante di luce e poi poter staccare lo sguardo, per un istante, e farlo riposare nello spazio simmetrico dei giardini inferiori della Reggia, intrisi dei lucori autunnali, permette di continuare la contemplazione senza avvertire nessuna frattura, anzi la conduce in modo naturale nell’intimità. Poiché la mostra terminerà il 28 gennaio 2024 invito l’appassionato d’arte a non mancare questo appuntamento e a considerarlo volentieri come un dono, fra gli altri fatti in questo periodo, ma a se stesso e a coloro che lo accompagneranno.
Chi ha già letto qualche mio scritto sa bene che Turner non è per me solo un grande, ma rappresenta uno dei vertici della pittura di ogni epoca ed è, anche, uno dei pittori che sento più affine alla mia esperienza artistica. Mi accorgo che, in verità, è più arduo parlare di ciò che sentiamo più prossimo a noi: nel parlarne siamo subito colti da profonda emozione e ci riesce difficile conservare la lucidità della comunicazione intellettuale; gli argomenti poi si affollano e i rimandi possibili si moltiplicano, rischiamo di diventare confusi.
E c’è altro ancora. Poiché sono in tema di confessioni, aggiungerò che Piero della Francesca e Vermeer sono gli altri due artisti che più amo da sempre. Ma la mia affinità con loro risale già alla mia adolescenza e risulta nutrita e mediata dagli studi: dalla lettura della “Leggenda aurea” di Jacopo da Varagine, e poi di Vasari, Berenson, Longhi, Venturi per Piero; dall’incontro con Proust quella per Vermeer.
Invece l’incontro con Turner è avvenuto più tardi, quando già ero entrato nella pratica del dipingere, e direttamente, per semplice stupore davanti ai suoi quadri, senza mediazioni letterarie. Mi rendo conto che questo, adesso, rappresenta per me un valore aggiunto: ho guardato e ammirato a lungo le visioni Turner, con venerazione, a volte perfino con una punta di invidia, ma sempre con umiltà, come l’apprendista guarda il Maestro al lavoro nel suo studio. A lungo non ho cercato giudizi di altri, nemmeno le sue vicende biografiche mi hanno interessato: guardavo e basta. E avverto che è solo così che si può comprendere davvero: l’arte autentica parla direttamente al cuore, per immagini, irriducibili a qualunque parola, si esprime immediatamente a chi è in grado di intenderla.
In seguito potrà anche avvenire la mediazione linguistica, ma essa deve conservare il calore che viene dalla visione “di prima mano”, senza la quale l’arte diventa facilmente pura retorica, artifizio di specialisti della comunicazione mediatica.
Ora però mi trovo ricondotto al dovere di parlare di Turner, non ho scusa da addurre, mi sono messo da solo in questa situazione, capisco che spiegare Turner è davvero arduo, se uno non lo capisce da sé.
Mi viene da dire, in modo provocatorio, “Turner è il profeta dell’informale” – ma questa boutade lascia il tempo che trova: avverto il rischio sempre presente nel critico di avvalorare le sue preferenze personali, piuttosto che cercare di comprendere l’opera del pittore che ha di fronte. Turner è stato salutato dagli Impressionisti come precursore, poi dagli astrattisti, mi viene da dire, quasi da tutti i pittori. Per stemperare un po' la mia pressione emotiva racconto ora questo aneddoto: nel 1966 Rothko, visitando una mostra di opere del pittore britannico al MoMA, impressionato dall’affinità dei dipinti di Turner con la sua arte, avrebbe detto in seguito: “Quest’uomo, Turner ha imparato molto da me”. In realtà, il grande pittore americano, ancora una volta, sottolineava un’idea ormai acquisita non tanto dai critici, quanto dai pittori del XX secolo: Turner è stato uno tra i più importanti precursori dell’arte contemporanea. Così mi rendo anche conto che è troppo facile sovrapporre a Turner i miei valori estetici e giudicarlo in base al fatto che egli li realizza pienamente. Ma Turner in sé, che cosa davvero cercava di vedere?
Nel corso degli anni ho peregrinato per l’Italia seguendo diverse mostre in cui erano presenti suoi quadri e questo mi ha ovviamente consentito di frequentare a lungo, come dicevo, intimamente, l’immaginario visivo di questo artista, che posso dire di conoscere bene – eppure questa mostra rappresenta una parziale sorpresa anche per me.
La mostra ha un interessante sottotitolo che bene la caratterizza: “TURNER. I paesaggi del mito”. Questo restringe la scelta di opere presenti e la precisa in una direzione ben definita e devo confessare che questa scelta, all’inizio, non mi aveva affatto entusiasmato; avrei preferito un titolo che evocasse direttamente il romanticismo e oltre, oppure uno che legasse più direttamente l’artista alla sua vocazione di osservatore del reale. Così ero sospettoso rispetto ai quadri che erano stati scelti e a quello che avrei potuto vedere.
Sono felice così di raccontare qualcosa al lettore dell’esperienza particolare che la mostra consente e di motivarlo a non perdere questa occasione.
Ma prima di accompagnare il visitatore in questa mostra devo ancora fornirgli qualche altra indicazione, sempre relativa alla storia della mia relazione con questo pittore.
Ho veduto, come dicevo prima, nel corso degli anni, tanti quadri di Turner, presenti in mostre in cui costituiva un punto di passaggio obbligato del divenire dell’arte, ma anche mostre specificamente a lui dedicate, fra le quali ricordo con particolare gioia quella del 2004 a Palazzo Ducale a Venezia fino a quella del 2018 nei chiostri del Bramante a Roma; in mezzo a queste due mostre c’è stata quella al Museo Santa Giulia di Brescia nel 2006-2007, dal titolo significativo: “Turner e gli impressionisti. La grande storia del paesaggio moderno”. Curata da Marco Goldin, questa esposizione nasceva da un’idea a lungo meditata, quella di mostrare la storia del paesaggio moderno in Europa, partendo dall’inizio del XIX secolo, con ben 285 quadri, molti dei quali veri capolavori, mettendo infine a confronto, nel giardino di Giverny, Monet e Turner assunti come vertici della figurazione moderna. Ricordo con commozione quella mostra anche perché fu per me l’occasione di vedere per la prima volta i dipinti di Constable, per ritornare allo sfondo di Venaria.
Prima di allora, l’indimenticabile mostra a Palazzo Ducale era ovviamente incentrata sull’affinità particolare che legò William a questa città unica: dipinti e disegni si alternavano in modo equilibrato in modo da permettere allo stupefatto visitatore di assistere in modo diretto a quel processo di disgregazione della visione operata dalla Luce che condusse Turner, con un anticipo di più di un secolo, di raggiungere le soglie dell’informale.
Ricordo ancora che l’emozione continuò a lungo, dopo la visita alla mostra, camminando sui ponti e tra le calli di Venezia – finché mi venne in mente, di colpo, la perplessità avanzata da Dickens che, nel suo caratteristico modo paradossale, ebbe modo di osservare che, benché i dipinti di Turner fossero assai nobili: “Venezia è al di sopra, al di là, al di fuori della portata della immaginazione umana” (Lettera del 12 novembre 1844).
La mostra di Roma mi commosse in modo straordinario permettendomi di entrare nella bottega del Maestro, piena di acquarelli ancora freschi e lasciati quasi incompiuti, ricca di visioni di grande maturità seguite dal desiderio dell’artista di ricominciare sempre da capo, quasi che ogni quadro fosse il primo e l’ultimo, e ho formulato questa considerazione: è con questa attenzione e con questa energia che bisognerebbe sempre dipingere.
Per quanto la mostra fosse costruita essenzialmente su dipinti, e anche su disegni, provenienti da Londra, in genere dalla Tate Gallery, la ricostruzione critica non mi è sembrata altrettanto efficace, a prescindere dalla bellezza delle opere presenti. A questo proposito concordo colle osservazioni critiche di Chiara Babuin, esposte in un interessante articolo comparso su minima&moralia il 21 Luglio 2018 dal titolo: “William Turner a Roma: l’occhio emotivo di uno scienziato mistico” del quale riporto la conclusione: “Peccato che la mostra al Chiostro del Bramante di Roma non lo riesca a far comprendere. Nonostante del materiale per la stampa e un catalogo assai cospicuo e competente, redatto dallo stesso curatore della mostra e grande esperto di Turner, David Blayney Brown, la guida e i pannelli informativi presenti nella rassegna risultano essere talmente esigui, ripetitivi e didascalici che non riescono a dare la ragguardevole importanza dell’artista inglese agli ignari fruitori: incredibilmente, non vengono fornite le coordinate storico-filosofiche, non si dà un quadro del Romanticismo, né delle sue figure di riferimento, come se queste dritte non fossero necessarie a cogliere il senso e l’importanza dell’arte del pittore”.
Qui, a Venaria, finalmente, la visita mi ha permesso di fare il punto sui diversi aspetti della visione di Turner in modo preciso e articolato: merito dei curatori della mostra o della esperienza da me accumulata nel corso di questi anni? Non saprei, ma cercherò di fissare alcuni punti della mia esposizione in modo forse didascalico eppure funzionale a permettere di orientarsi di fronte al “miracolo” Turner.
Infatti se ho citato integralmente le conclusioni della Babuin è perché non intendo, nel breve spazio del mio contributo, dilungarmi sull’arte di Turner: se dovessi cercare di esprimere tutto ciò che penso di questo artista e della sua importanza dovrei piuttosto scrivere un libro. Lo scopo del mio articolo è solo quello di motivare davvero il lettore a visitare questa mostra con attenzione: se lo farà, i pannelli esplicativi e tutto il materiale presente saranno sufficienti a metterlo “sulle tracce” di Turner.
Ma il lavoro di visione e di interpretazione è lasciato al lettore solo, come è giusto che sia: ciò che davvero sappiamo è frutto solo del personale studio.
Il compito che ancora mi rimane da svolgere è invece più ristretto e preciso: mi limiterò a sottolineare i punti di forza dell’approccio espositivo costruito qui a Venaria, e a ricavarne qualche domanda fondamentale che riguarda l’essenza della visione di Turner e di cercare insieme, nel corso di questa visita alla mostra, qualche parziale risposta che lascerò poi al mio lettore di approfondire.
Il primo merito di questa mostra non sta solo nell’apparato didattico ed esplicativo ma anche nel dimostrare con chiarezza il ruolo fondamentale del disegno nella visione di Turner, come altre mostre facevano solo in parte, e di fornirci finalmente gli strumenti per verificare questa asserzione.
L’amore per il disegno e la tecnica dell’acquarello sono la chiave per entrare nel suo mondo. Mi limito a questa precisazione biografica solo perché necessaria: sono infatti molto diffidente di quegli approcci che pretendono di spiegare la visione di un artista sulla base delle sue circostanze biografiche e delle letture psicoanalitiche – l’universo di un pittore si comprende solo osservando le sue opere.
La madre di Turner, Mary Marshall, fu donna eccentrica e volubile, in seguito alla morte prematura della figlioletta Helen cominciò a dare i primi segni di squilibrio mentale che la porterà a morire in manicomio quando William aveva meno di trent’anni. Il padre, invece, seppe stargli vicino in modo affettuoso e ne intuì il talento artistico, non esitò ad esporre i primi disegni ed acquarelli del figlio nella vetrina della sua bottega di barbiere: lo sostenne negli studi al punto che, nel maggio 1790, quando non aveva che quindici anni, Turner presentò il suo primo acquarello all'esposizione annuale della Royal Academy.
Grazie a lui Turner iniziò a disegnare e a viaggiare, prima nel paese natale: già nel 1795 fu nel Galles e nell’isola di Wight, nel 1802 passò le Alpi e raggiunse la Francia e poté visitare il Louvre, dove iniziò l’amore per Tiziano e Lorrain; nel 1817 visitò il Belgio, l’Olanda e la regione del Reno. Finalmente nel 1819 fece il primo di cinque viaggi in Italia, che non aveva potuto visitare prima, come avrebbe voluto, a causa delle guerre napoleoniche; ritornò per cinque mesi nel 1829-30, finalmente nel 1835 soggiornò a lungo a Venezia e vi ritornò nel 1845, a settant’anni, nel suo ultimo grande spostamento.
In tutti questi viaggi Turner eseguì centinaia di disegni a matita su piccoli album e disegni più grandi, sempre sperimentando nuove tecniche: già nel primo viaggio in Italia, nell'agosto 1819, era passato da Torino, Milano, Como, Verona, Venezia, Roma, Napoli, Paestum e Lerici, anche se Venezia era stata visitata solo di fretta. La maggior parte di questi disegni sono conservati negli archivi della Tate Gallery e costituiscono la base delle varie mostre che il visitatore ha potuto ammirare in Italia.
Finalmente qui a Venaria possiamo vedere e toccare il vero Turner.
In mostra è esposto il “taccuino” che Turner utilizzò quando passò per Torino e viaggiò verso i laghi italiani, Como, Lugano, Maggiore. Si tratta di uno dei taccuini più piccoli che portò con sé in Italia, pensato per stare in tasca e per essere utilizzato, se necessario, durante gli spostamenti. Su questo tipo di quaderni tascabili Turner usava di solito la matita: utilizzava l’acquerello solo nei quaderni più grandi, quando si fermava più a lungo in un luogo, come a Venezia, Roma o Napoli. Lo scopo principale dei taccuini era quello di documentare e memorizzare le caratteristiche fondamentali di un paesaggio e dei suoi edifici. La pagina esposta raffigura una veduta in lontananza di Torino da est, con il fiume Po che taglia in due la composizione in prossimità del primo piano; la cupola di Palazzo Reale e il Duomo si intravedono all’orizzonte verso il centro. Si tratta di un esempio di uno dei tipici panorami realizzati velocemente da Turner, con tratti lunghi e morbidi, eseguiti con una matita mediamente smussata e con una maggiore pressione per i tratti in primo piano che indicano le case. In questo taccuino Turner realizzò anche molte vedute di edifici del centro della città, delle chiese e delle piazze, egualmente visibili in mostra mediante adeguate e suggestive riproduzioni.
Poco importa che Turner avesse lasciato scritto nelle sue disposizioni testamentarie di distruggere tutti i suoi disegni: non riesco a immaginare una perdita più grande per l’arte, anche Kafka avrebbe voluto distruggere tutte le sue opere; per fortuna, gli esecutori testamentari sono, a volte, più consapevoli degli stessi artisti del valore delle opere che il destino ha loro affidato. Questo fatto porta alla luce un altro tratto caratteristico non solo di Turner, ma di ognuno, in quanto essere umano carico di ambivalenze.
Certamente Turner sentiva di essere nato per dipingere ma essere riconosciuto come pittore nella società inglese del primo ottocento era tutt’altra cosa. Tutti gli uomini soffrono a causa di questo, tutti i pittori faticano a essere riconosciuti; ma Turner, malgrado la notorietà e i successi incontrati, soffrì fino alla fine.
Per noi, nutriti di stampe giapponesi e della poetica del frammento, è facile riconoscere il valore dei disegni appena schizzati e degli acquarelli incompiuti e possiamo ammettere senza difficoltà che Turner è naturalmente sublime proprio in questi momenti di assoluta libertà, ma il pittore accademico veniva allora valutato nella pittura a olio, esattamente come oggi, nel mercato dell’arte, la quotazione di un olio è ben diversa da quella di un’opera su carta.
Disegno e acquarello, lo ripeto volentieri, sono i medium prediletti di Turner; come accadrà in seguito anche per Cézanne si può sostenere con ragione che la tecnica dell’acquarello influenzò molto quella della pittura a olio. La prima opera esposta e documentata di Turner “Pescatori sul mare” fu eseguita nel 1796, a ventun’anni e seguita, l’anno successivo, da “Studio di chiaro di luna a Milbank”: in sostanza sono degli studi della luce lunare. A vedere questi primi quadri a olio, un critico tradizionale avrebbe ben potuto affermare che Turner avesse già raggiunto ciò che intendeva raffigurare ma poco i mezzi tecnici della pittura.
Chiarito il centro del mio contributo limitato alla comprensione di Turner vorrei ora arrivare alla fine del mio saggio solo stimolando ulteriori e fecondi interrogativi nella mente del lettore e, soprattutto, visitatore della mostra.
William appartiene al romanticismo o classicismo? Il suo dipingere deve essere considerato più vicino alla narrazione o alla visione? Sono domande essenziali alle quali nemmeno grandi critici hanno dato risposte univoche e soddisfacenti, per cui proviamo semplicemente a stare con queste domande.
La mostra di Venaria però mi ha decisamente aiutato a liberarmi dal facile stereotipo di Turner pittore romantico cui ero ancora troppo legato, proprio con questo mettere al centro il mondo del mito. Ma tutt’altro che facile è ciò vorrei aiutare a comprendere.
Nel 1805 William inizia a compiere regolarmente escursioni sul Tamigi: è probabile, come suggeriscono le didascalie della mostra, che guardasse quei paesaggi come una sorta di Arcadia. Cioè attraverso le lenti del Mito. Il mito si lega strettamente al bisogno che il pittore nutriva in sé di venire riconosciuto “ufficialmente” come pittore.
La mostra, attraverso le didascalie che la supportano, insiste a ragione sulla cultura classica ben salda nel pittore, sulla sua conoscenza delle Metamorfosi di Ovidio e dell’Odissea nella traduzione di Pope; Turner aveva inoltre concepito l’idea di realizzare un
Liber Studiorum come impresa editoriale affidata a diversi incisori, dal 1811 iniziò a tenere come professore corsi di prospettiva alla Royal Academy, dal 1840 compare una testa di Ulisse sul sigillo di ceralacca delle sue lettere.
Sarebbe troppo facile affermare che la predilezione verso il mito sia una sorta di residuo legato al desiderio di legittimarsi nel mondo accademico ancora imbevuto di classicismo. Anche l’altra domanda essenziale prima formulata, cioè se il dipingere di Turner sia più vicino alla narrazione mitica o alla visione romantica, potrebbe sembrare di ardua soluzione. La risposta ovvia offerta dall’esegesi è che Turner dipinge a partire dagli anni della fine del diciottesimo secolo in cui si stavano diffondendo le idee di Kant sull’estetica espresse nella “Critica del giudizio”: è semplice affermare che la poetica di Turner è quella del sublime, ma questa definizione vale egualmente per Friedrich e altri pittori.
Che cosa appartiene davvero all’essenza della pittura di Turner?
Come sempre, davanti ai dubbi avanzati dall’interpretazione, ritorno alla raccomandazione per me essenziale: osservare i quadri.
Il primo quadro presente nella mostra “Apollo uccide il Pitone (esposto nel 1811): è figura minuscola in un vasto ambiente, l'impressione che emerge è comunque della sproporzione fra umano e natura, un topos senza dubbio della poetica del sublime. Importa davvero che si tratti di una figura classica, che dietro a essa stia un riferimento mitico? Quasi senza eccezioni vale questa regola: non esiste nella rappresentazione di Turner una figura in primo piano, l'essere umano, anche se si tratta di un dio, è presente all'interno del mondo della Natura, rispettando questa idea fondamentale che è un piccolo essere quasi schiacciato da questo mondo. Ovviamente non sempre è così: alcuni dipinti invece comunicano una percezione di sostanziale armonia che sembra davvero ispirarsi alla classicità, per esempio il paesaggio ideale di Napoli in cui avviene l'incontro di Apollo e la Sibilla dal titolo: “Veduta di Baia con Apollo e la Sibilla” (1823). Eppure se si conoscono i dettagli di questa narrazione, come sempre ricavata dalle Metamorfosi di Ovidio e si guarda con maggiore attenzione il ruolo del nero in questo dipinto, quei grandi pini scuri, e più in basso a destra del quadro, quella massa scura di bosco, forse una sorta di ingresso all'Ade, veniamo colti da un presentimento di ambiguità.
Possiamo riconoscere che, a livello conscio, Turner è un poeta della precarietà della condizione umana, in un senso propriamente classico, eppure… È in questo sfondo culturale che il pittore si apre al mondo della osservazione minuziosa della luce e pone le proprie emozioni in un assoluto di Bellezza – basta questa Bellezza a redimere l'essere umano? Come non pensare all'ultimo quadro di Turner “L’angelo nel sole”?
Questo quadro però è rimasto a Londra, chissà perché. Limitiamoci ai quadri presenti nella mostra. Fra essi uno, in particolare, appare un vero enigma. Si tratta di un Venere nuda sdraiata: Turner non ha mai dipinto nulla di simile. È facile fare il riferimento a Tiziano alla Venere di Urbino; comunque si tratta di un quadro non finito, diverso. Fa pensare davvero alle veneri classiche e insieme a Modigliani e a Matisse.
Quali strade avrebbe ancora potuto visitare questo sublime pittore?
Un quadro che avrei tanto desiderato vedere in mostra, ma non sembra che la Tate sia propensa a lasciarlo uscire di casa, è “Vapore al largo di Harbour’s Mouth durante una tempesta di neve”. Un giovane critico, Hazlitt, disse già nel 1816 della pittura di Turner: “tutto è senza forma e vuoto… ritratti del nulla”. Per noi, nutriti di buddismo, questa affermazione potrebbe essere un elogio; ma non lo era per i contemporanei del pittore.
Per me questo è un quadro sublime, autentica profezia dell'informale.
La storia narra che, durante un viaggio, Turner si sia trovato a bordo di un battello e che, in questa circostanza, sia riuscito a convincere i marinai a legarlo per quattro ore all’albero della nave per poter osservare la tempesta. Turner aveva allora 67 anni. Difficile capire come ne sia uscito vivo e, personalmente, non riesco a pensare un atto che accerti una fede e una volontà più grande di testimoniare con la pittura. Ma per raccontare tutta la storia così com'è, quel quadro esposto attirò, come al solito, una valanga di critiche che, forse a causa dell'età, William non riuscì mai a digerire.
Apparve un articolo in cui il quadro fu descritto come una “schiuma di sapone e bianco di calce”. L'episodio è narrato da Ruskin, che ormai si era eletto a paladino dell'arte di Turner; ma sul rapporto Turner/Ruskin, passando per Venezia, sarebbe necessario scrivere un altro volume a sé, e parlare a lungo di un altro mito, quello di Venezia: ricordo solo che è vero che Turner fece centinaia di disegni e schizzi di Venezia ma, di nuovo, li tenne per sé ed eseguì il primo quadro a olio solo una quindicina d’anni dopo.
Torniamo nel salotto di Turner, Ruskin così racconta: “Dopo pranzo, seduto nella sua poltrona vicino al fuoco, lo udivo brontolare ogni tanto fra sé: “schiuma di sapone e bianco di calce” e ogni tanto ripeteva questa esclamazione. Infine gli andai più vicino, con la raccomandazione di un badare troppo a quello che dicevano gli altri, ma lui gridò: “Schiuma di sapone e bianco di calce? Mi chiedo che cosa si immaginino sia il mare. Dovrebbero esserci stati loro su quel battello!”
Quasi al termine della mostra si trova l'ultimo quadro che vorrei osservare più da vicino insieme al lettore “La morte di Atteone, con una veduta in lontananza di Montjovet, Val d'Aosta” (forse 1837). Il soggetto non è frequente, certo si può metterlo in relazione a un altro mito narrato nelle Metamorfosi – poi mi viene da pensare a un quadro tardo, forse del 1560, di Tiziano, in cui Atteone appunto viene sbranato dai cani di Diana. Ma mi ricordo anche di come Giordano Bruno si serve negli Eroici Furori del medesimo mito per alludere alla impossibile ricerca dell’Infinito da parte del filosofo.
Davanti a questo quadro, che cosa vediamo? E perché poi il riferimento a Montjovet?
Solo macchie di colore, difficile quasi pensare che il quadro sia finito. Apoteosi di luce.
Ma è una visione indimenticabile. Sublime.
Per finire non credo affatto che Turner fosse un pittore classico o romantico, che inseguisse più di tanto narrazioni o significati.
Solo voleva dipingere quello che aveva visto.
Era un autentico realista, quello che aveva visto e che desiderava dipingere lo avevo veduto con altri occhi, quelli spirituali.
(Sergio Gandini)
Chi ha già letto qualche mio scritto sa bene che Turner non è per me solo un grande, ma rappresenta uno dei vertici della pittura di ogni epoca ed è, anche, uno dei pittori che sento più affine alla mia esperienza artistica. Mi accorgo che, in verità, è più arduo parlare di ciò che sentiamo più prossimo a noi: nel parlarne siamo subito colti da profonda emozione e ci riesce difficile conservare la lucidità della comunicazione intellettuale; gli argomenti poi si affollano e i rimandi possibili si moltiplicano, rischiamo di diventare confusi.
E c’è altro ancora. Poiché sono in tema di confessioni, aggiungerò che Piero della Francesca e Vermeer sono gli altri due artisti che più amo da sempre. Ma la mia affinità con loro risale già alla mia adolescenza e risulta nutrita e mediata dagli studi: dalla lettura della “Leggenda aurea” di Jacopo da Varagine, e poi di Vasari, Berenson, Longhi, Venturi per Piero; dall’incontro con Proust quella per Vermeer.
Invece l’incontro con Turner è avvenuto più tardi, quando già ero entrato nella pratica del dipingere, e direttamente, per semplice stupore davanti ai suoi quadri, senza mediazioni letterarie. Mi rendo conto che questo, adesso, rappresenta per me un valore aggiunto: ho guardato e ammirato a lungo le visioni Turner, con venerazione, a volte perfino con una punta di invidia, ma sempre con umiltà, come l’apprendista guarda il Maestro al lavoro nel suo studio. A lungo non ho cercato giudizi di altri, nemmeno le sue vicende biografiche mi hanno interessato: guardavo e basta. E avverto che è solo così che si può comprendere davvero: l’arte autentica parla direttamente al cuore, per immagini, irriducibili a qualunque parola, si esprime immediatamente a chi è in grado di intenderla.
In seguito potrà anche avvenire la mediazione linguistica, ma essa deve conservare il calore che viene dalla visione “di prima mano”, senza la quale l’arte diventa facilmente pura retorica, artifizio di specialisti della comunicazione mediatica.
Ora però mi trovo ricondotto al dovere di parlare di Turner, non ho scusa da addurre, mi sono messo da solo in questa situazione, capisco che spiegare Turner è davvero arduo, se uno non lo capisce da sé.
Mi viene da dire, in modo provocatorio, “Turner è il profeta dell’informale” – ma questa boutade lascia il tempo che trova: avverto il rischio sempre presente nel critico di avvalorare le sue preferenze personali, piuttosto che cercare di comprendere l’opera del pittore che ha di fronte. Turner è stato salutato dagli Impressionisti come precursore, poi dagli astrattisti, mi viene da dire, quasi da tutti i pittori. Per stemperare un po' la mia pressione emotiva racconto ora questo aneddoto: nel 1966 Rothko, visitando una mostra di opere del pittore britannico al MoMA, impressionato dall’affinità dei dipinti di Turner con la sua arte, avrebbe detto in seguito: “Quest’uomo, Turner ha imparato molto da me”. In realtà, il grande pittore americano, ancora una volta, sottolineava un’idea ormai acquisita non tanto dai critici, quanto dai pittori del XX secolo: Turner è stato uno tra i più importanti precursori dell’arte contemporanea. Così mi rendo anche conto che è troppo facile sovrapporre a Turner i miei valori estetici e giudicarlo in base al fatto che egli li realizza pienamente. Ma Turner in sé, che cosa davvero cercava di vedere?
Nel corso degli anni ho peregrinato per l’Italia seguendo diverse mostre in cui erano presenti suoi quadri e questo mi ha ovviamente consentito di frequentare a lungo, come dicevo, intimamente, l’immaginario visivo di questo artista, che posso dire di conoscere bene – eppure questa mostra rappresenta una parziale sorpresa anche per me.
La mostra ha un interessante sottotitolo che bene la caratterizza: “TURNER. I paesaggi del mito”. Questo restringe la scelta di opere presenti e la precisa in una direzione ben definita e devo confessare che questa scelta, all’inizio, non mi aveva affatto entusiasmato; avrei preferito un titolo che evocasse direttamente il romanticismo e oltre, oppure uno che legasse più direttamente l’artista alla sua vocazione di osservatore del reale. Così ero sospettoso rispetto ai quadri che erano stati scelti e a quello che avrei potuto vedere.
Sono felice così di raccontare qualcosa al lettore dell’esperienza particolare che la mostra consente e di motivarlo a non perdere questa occasione.
Ma prima di accompagnare il visitatore in questa mostra devo ancora fornirgli qualche altra indicazione, sempre relativa alla storia della mia relazione con questo pittore.
Ho veduto, come dicevo prima, nel corso degli anni, tanti quadri di Turner, presenti in mostre in cui costituiva un punto di passaggio obbligato del divenire dell’arte, ma anche mostre specificamente a lui dedicate, fra le quali ricordo con particolare gioia quella del 2004 a Palazzo Ducale a Venezia fino a quella del 2018 nei chiostri del Bramante a Roma; in mezzo a queste due mostre c’è stata quella al Museo Santa Giulia di Brescia nel 2006-2007, dal titolo significativo: “Turner e gli impressionisti. La grande storia del paesaggio moderno”. Curata da Marco Goldin, questa esposizione nasceva da un’idea a lungo meditata, quella di mostrare la storia del paesaggio moderno in Europa, partendo dall’inizio del XIX secolo, con ben 285 quadri, molti dei quali veri capolavori, mettendo infine a confronto, nel giardino di Giverny, Monet e Turner assunti come vertici della figurazione moderna. Ricordo con commozione quella mostra anche perché fu per me l’occasione di vedere per la prima volta i dipinti di Constable, per ritornare allo sfondo di Venaria.
Prima di allora, l’indimenticabile mostra a Palazzo Ducale era ovviamente incentrata sull’affinità particolare che legò William a questa città unica: dipinti e disegni si alternavano in modo equilibrato in modo da permettere allo stupefatto visitatore di assistere in modo diretto a quel processo di disgregazione della visione operata dalla Luce che condusse Turner, con un anticipo di più di un secolo, di raggiungere le soglie dell’informale.
Ricordo ancora che l’emozione continuò a lungo, dopo la visita alla mostra, camminando sui ponti e tra le calli di Venezia – finché mi venne in mente, di colpo, la perplessità avanzata da Dickens che, nel suo caratteristico modo paradossale, ebbe modo di osservare che, benché i dipinti di Turner fossero assai nobili: “Venezia è al di sopra, al di là, al di fuori della portata della immaginazione umana” (Lettera del 12 novembre 1844).
La mostra di Roma mi commosse in modo straordinario permettendomi di entrare nella bottega del Maestro, piena di acquarelli ancora freschi e lasciati quasi incompiuti, ricca di visioni di grande maturità seguite dal desiderio dell’artista di ricominciare sempre da capo, quasi che ogni quadro fosse il primo e l’ultimo, e ho formulato questa considerazione: è con questa attenzione e con questa energia che bisognerebbe sempre dipingere.
Per quanto la mostra fosse costruita essenzialmente su dipinti, e anche su disegni, provenienti da Londra, in genere dalla Tate Gallery, la ricostruzione critica non mi è sembrata altrettanto efficace, a prescindere dalla bellezza delle opere presenti. A questo proposito concordo colle osservazioni critiche di Chiara Babuin, esposte in un interessante articolo comparso su minima&moralia il 21 Luglio 2018 dal titolo: “William Turner a Roma: l’occhio emotivo di uno scienziato mistico” del quale riporto la conclusione: “Peccato che la mostra al Chiostro del Bramante di Roma non lo riesca a far comprendere. Nonostante del materiale per la stampa e un catalogo assai cospicuo e competente, redatto dallo stesso curatore della mostra e grande esperto di Turner, David Blayney Brown, la guida e i pannelli informativi presenti nella rassegna risultano essere talmente esigui, ripetitivi e didascalici che non riescono a dare la ragguardevole importanza dell’artista inglese agli ignari fruitori: incredibilmente, non vengono fornite le coordinate storico-filosofiche, non si dà un quadro del Romanticismo, né delle sue figure di riferimento, come se queste dritte non fossero necessarie a cogliere il senso e l’importanza dell’arte del pittore”.
Qui, a Venaria, finalmente, la visita mi ha permesso di fare il punto sui diversi aspetti della visione di Turner in modo preciso e articolato: merito dei curatori della mostra o della esperienza da me accumulata nel corso di questi anni? Non saprei, ma cercherò di fissare alcuni punti della mia esposizione in modo forse didascalico eppure funzionale a permettere di orientarsi di fronte al “miracolo” Turner.
Infatti se ho citato integralmente le conclusioni della Babuin è perché non intendo, nel breve spazio del mio contributo, dilungarmi sull’arte di Turner: se dovessi cercare di esprimere tutto ciò che penso di questo artista e della sua importanza dovrei piuttosto scrivere un libro. Lo scopo del mio articolo è solo quello di motivare davvero il lettore a visitare questa mostra con attenzione: se lo farà, i pannelli esplicativi e tutto il materiale presente saranno sufficienti a metterlo “sulle tracce” di Turner.
Ma il lavoro di visione e di interpretazione è lasciato al lettore solo, come è giusto che sia: ciò che davvero sappiamo è frutto solo del personale studio.
Il compito che ancora mi rimane da svolgere è invece più ristretto e preciso: mi limiterò a sottolineare i punti di forza dell’approccio espositivo costruito qui a Venaria, e a ricavarne qualche domanda fondamentale che riguarda l’essenza della visione di Turner e di cercare insieme, nel corso di questa visita alla mostra, qualche parziale risposta che lascerò poi al mio lettore di approfondire.
Il primo merito di questa mostra non sta solo nell’apparato didattico ed esplicativo ma anche nel dimostrare con chiarezza il ruolo fondamentale del disegno nella visione di Turner, come altre mostre facevano solo in parte, e di fornirci finalmente gli strumenti per verificare questa asserzione.
L’amore per il disegno e la tecnica dell’acquarello sono la chiave per entrare nel suo mondo. Mi limito a questa precisazione biografica solo perché necessaria: sono infatti molto diffidente di quegli approcci che pretendono di spiegare la visione di un artista sulla base delle sue circostanze biografiche e delle letture psicoanalitiche – l’universo di un pittore si comprende solo osservando le sue opere.
La madre di Turner, Mary Marshall, fu donna eccentrica e volubile, in seguito alla morte prematura della figlioletta Helen cominciò a dare i primi segni di squilibrio mentale che la porterà a morire in manicomio quando William aveva meno di trent’anni. Il padre, invece, seppe stargli vicino in modo affettuoso e ne intuì il talento artistico, non esitò ad esporre i primi disegni ed acquarelli del figlio nella vetrina della sua bottega di barbiere: lo sostenne negli studi al punto che, nel maggio 1790, quando non aveva che quindici anni, Turner presentò il suo primo acquarello all'esposizione annuale della Royal Academy.
Grazie a lui Turner iniziò a disegnare e a viaggiare, prima nel paese natale: già nel 1795 fu nel Galles e nell’isola di Wight, nel 1802 passò le Alpi e raggiunse la Francia e poté visitare il Louvre, dove iniziò l’amore per Tiziano e Lorrain; nel 1817 visitò il Belgio, l’Olanda e la regione del Reno. Finalmente nel 1819 fece il primo di cinque viaggi in Italia, che non aveva potuto visitare prima, come avrebbe voluto, a causa delle guerre napoleoniche; ritornò per cinque mesi nel 1829-30, finalmente nel 1835 soggiornò a lungo a Venezia e vi ritornò nel 1845, a settant’anni, nel suo ultimo grande spostamento.
In tutti questi viaggi Turner eseguì centinaia di disegni a matita su piccoli album e disegni più grandi, sempre sperimentando nuove tecniche: già nel primo viaggio in Italia, nell'agosto 1819, era passato da Torino, Milano, Como, Verona, Venezia, Roma, Napoli, Paestum e Lerici, anche se Venezia era stata visitata solo di fretta. La maggior parte di questi disegni sono conservati negli archivi della Tate Gallery e costituiscono la base delle varie mostre che il visitatore ha potuto ammirare in Italia.
Finalmente qui a Venaria possiamo vedere e toccare il vero Turner.
In mostra è esposto il “taccuino” che Turner utilizzò quando passò per Torino e viaggiò verso i laghi italiani, Como, Lugano, Maggiore. Si tratta di uno dei taccuini più piccoli che portò con sé in Italia, pensato per stare in tasca e per essere utilizzato, se necessario, durante gli spostamenti. Su questo tipo di quaderni tascabili Turner usava di solito la matita: utilizzava l’acquerello solo nei quaderni più grandi, quando si fermava più a lungo in un luogo, come a Venezia, Roma o Napoli. Lo scopo principale dei taccuini era quello di documentare e memorizzare le caratteristiche fondamentali di un paesaggio e dei suoi edifici. La pagina esposta raffigura una veduta in lontananza di Torino da est, con il fiume Po che taglia in due la composizione in prossimità del primo piano; la cupola di Palazzo Reale e il Duomo si intravedono all’orizzonte verso il centro. Si tratta di un esempio di uno dei tipici panorami realizzati velocemente da Turner, con tratti lunghi e morbidi, eseguiti con una matita mediamente smussata e con una maggiore pressione per i tratti in primo piano che indicano le case. In questo taccuino Turner realizzò anche molte vedute di edifici del centro della città, delle chiese e delle piazze, egualmente visibili in mostra mediante adeguate e suggestive riproduzioni.
Poco importa che Turner avesse lasciato scritto nelle sue disposizioni testamentarie di distruggere tutti i suoi disegni: non riesco a immaginare una perdita più grande per l’arte, anche Kafka avrebbe voluto distruggere tutte le sue opere; per fortuna, gli esecutori testamentari sono, a volte, più consapevoli degli stessi artisti del valore delle opere che il destino ha loro affidato. Questo fatto porta alla luce un altro tratto caratteristico non solo di Turner, ma di ognuno, in quanto essere umano carico di ambivalenze.
Certamente Turner sentiva di essere nato per dipingere ma essere riconosciuto come pittore nella società inglese del primo ottocento era tutt’altra cosa. Tutti gli uomini soffrono a causa di questo, tutti i pittori faticano a essere riconosciuti; ma Turner, malgrado la notorietà e i successi incontrati, soffrì fino alla fine.
Per noi, nutriti di stampe giapponesi e della poetica del frammento, è facile riconoscere il valore dei disegni appena schizzati e degli acquarelli incompiuti e possiamo ammettere senza difficoltà che Turner è naturalmente sublime proprio in questi momenti di assoluta libertà, ma il pittore accademico veniva allora valutato nella pittura a olio, esattamente come oggi, nel mercato dell’arte, la quotazione di un olio è ben diversa da quella di un’opera su carta.
Disegno e acquarello, lo ripeto volentieri, sono i medium prediletti di Turner; come accadrà in seguito anche per Cézanne si può sostenere con ragione che la tecnica dell’acquarello influenzò molto quella della pittura a olio. La prima opera esposta e documentata di Turner “Pescatori sul mare” fu eseguita nel 1796, a ventun’anni e seguita, l’anno successivo, da “Studio di chiaro di luna a Milbank”: in sostanza sono degli studi della luce lunare. A vedere questi primi quadri a olio, un critico tradizionale avrebbe ben potuto affermare che Turner avesse già raggiunto ciò che intendeva raffigurare ma poco i mezzi tecnici della pittura.
Chiarito il centro del mio contributo limitato alla comprensione di Turner vorrei ora arrivare alla fine del mio saggio solo stimolando ulteriori e fecondi interrogativi nella mente del lettore e, soprattutto, visitatore della mostra.
William appartiene al romanticismo o classicismo? Il suo dipingere deve essere considerato più vicino alla narrazione o alla visione? Sono domande essenziali alle quali nemmeno grandi critici hanno dato risposte univoche e soddisfacenti, per cui proviamo semplicemente a stare con queste domande.
La mostra di Venaria però mi ha decisamente aiutato a liberarmi dal facile stereotipo di Turner pittore romantico cui ero ancora troppo legato, proprio con questo mettere al centro il mondo del mito. Ma tutt’altro che facile è ciò vorrei aiutare a comprendere.
Nel 1805 William inizia a compiere regolarmente escursioni sul Tamigi: è probabile, come suggeriscono le didascalie della mostra, che guardasse quei paesaggi come una sorta di Arcadia. Cioè attraverso le lenti del Mito. Il mito si lega strettamente al bisogno che il pittore nutriva in sé di venire riconosciuto “ufficialmente” come pittore.
La mostra, attraverso le didascalie che la supportano, insiste a ragione sulla cultura classica ben salda nel pittore, sulla sua conoscenza delle Metamorfosi di Ovidio e dell’Odissea nella traduzione di Pope; Turner aveva inoltre concepito l’idea di realizzare un
Liber Studiorum come impresa editoriale affidata a diversi incisori, dal 1811 iniziò a tenere come professore corsi di prospettiva alla Royal Academy, dal 1840 compare una testa di Ulisse sul sigillo di ceralacca delle sue lettere.
Sarebbe troppo facile affermare che la predilezione verso il mito sia una sorta di residuo legato al desiderio di legittimarsi nel mondo accademico ancora imbevuto di classicismo. Anche l’altra domanda essenziale prima formulata, cioè se il dipingere di Turner sia più vicino alla narrazione mitica o alla visione romantica, potrebbe sembrare di ardua soluzione. La risposta ovvia offerta dall’esegesi è che Turner dipinge a partire dagli anni della fine del diciottesimo secolo in cui si stavano diffondendo le idee di Kant sull’estetica espresse nella “Critica del giudizio”: è semplice affermare che la poetica di Turner è quella del sublime, ma questa definizione vale egualmente per Friedrich e altri pittori.
Che cosa appartiene davvero all’essenza della pittura di Turner?
Come sempre, davanti ai dubbi avanzati dall’interpretazione, ritorno alla raccomandazione per me essenziale: osservare i quadri.
Il primo quadro presente nella mostra “Apollo uccide il Pitone (esposto nel 1811): è figura minuscola in un vasto ambiente, l'impressione che emerge è comunque della sproporzione fra umano e natura, un topos senza dubbio della poetica del sublime. Importa davvero che si tratti di una figura classica, che dietro a essa stia un riferimento mitico? Quasi senza eccezioni vale questa regola: non esiste nella rappresentazione di Turner una figura in primo piano, l'essere umano, anche se si tratta di un dio, è presente all'interno del mondo della Natura, rispettando questa idea fondamentale che è un piccolo essere quasi schiacciato da questo mondo. Ovviamente non sempre è così: alcuni dipinti invece comunicano una percezione di sostanziale armonia che sembra davvero ispirarsi alla classicità, per esempio il paesaggio ideale di Napoli in cui avviene l'incontro di Apollo e la Sibilla dal titolo: “Veduta di Baia con Apollo e la Sibilla” (1823). Eppure se si conoscono i dettagli di questa narrazione, come sempre ricavata dalle Metamorfosi di Ovidio e si guarda con maggiore attenzione il ruolo del nero in questo dipinto, quei grandi pini scuri, e più in basso a destra del quadro, quella massa scura di bosco, forse una sorta di ingresso all'Ade, veniamo colti da un presentimento di ambiguità.
Possiamo riconoscere che, a livello conscio, Turner è un poeta della precarietà della condizione umana, in un senso propriamente classico, eppure… È in questo sfondo culturale che il pittore si apre al mondo della osservazione minuziosa della luce e pone le proprie emozioni in un assoluto di Bellezza – basta questa Bellezza a redimere l'essere umano? Come non pensare all'ultimo quadro di Turner “L’angelo nel sole”?
Questo quadro però è rimasto a Londra, chissà perché. Limitiamoci ai quadri presenti nella mostra. Fra essi uno, in particolare, appare un vero enigma. Si tratta di un Venere nuda sdraiata: Turner non ha mai dipinto nulla di simile. È facile fare il riferimento a Tiziano alla Venere di Urbino; comunque si tratta di un quadro non finito, diverso. Fa pensare davvero alle veneri classiche e insieme a Modigliani e a Matisse.
Quali strade avrebbe ancora potuto visitare questo sublime pittore?
Un quadro che avrei tanto desiderato vedere in mostra, ma non sembra che la Tate sia propensa a lasciarlo uscire di casa, è “Vapore al largo di Harbour’s Mouth durante una tempesta di neve”. Un giovane critico, Hazlitt, disse già nel 1816 della pittura di Turner: “tutto è senza forma e vuoto… ritratti del nulla”. Per noi, nutriti di buddismo, questa affermazione potrebbe essere un elogio; ma non lo era per i contemporanei del pittore.
Per me questo è un quadro sublime, autentica profezia dell'informale.
La storia narra che, durante un viaggio, Turner si sia trovato a bordo di un battello e che, in questa circostanza, sia riuscito a convincere i marinai a legarlo per quattro ore all’albero della nave per poter osservare la tempesta. Turner aveva allora 67 anni. Difficile capire come ne sia uscito vivo e, personalmente, non riesco a pensare un atto che accerti una fede e una volontà più grande di testimoniare con la pittura. Ma per raccontare tutta la storia così com'è, quel quadro esposto attirò, come al solito, una valanga di critiche che, forse a causa dell'età, William non riuscì mai a digerire.
Apparve un articolo in cui il quadro fu descritto come una “schiuma di sapone e bianco di calce”. L'episodio è narrato da Ruskin, che ormai si era eletto a paladino dell'arte di Turner; ma sul rapporto Turner/Ruskin, passando per Venezia, sarebbe necessario scrivere un altro volume a sé, e parlare a lungo di un altro mito, quello di Venezia: ricordo solo che è vero che Turner fece centinaia di disegni e schizzi di Venezia ma, di nuovo, li tenne per sé ed eseguì il primo quadro a olio solo una quindicina d’anni dopo.
Torniamo nel salotto di Turner, Ruskin così racconta: “Dopo pranzo, seduto nella sua poltrona vicino al fuoco, lo udivo brontolare ogni tanto fra sé: “schiuma di sapone e bianco di calce” e ogni tanto ripeteva questa esclamazione. Infine gli andai più vicino, con la raccomandazione di un badare troppo a quello che dicevano gli altri, ma lui gridò: “Schiuma di sapone e bianco di calce? Mi chiedo che cosa si immaginino sia il mare. Dovrebbero esserci stati loro su quel battello!”
Quasi al termine della mostra si trova l'ultimo quadro che vorrei osservare più da vicino insieme al lettore “La morte di Atteone, con una veduta in lontananza di Montjovet, Val d'Aosta” (forse 1837). Il soggetto non è frequente, certo si può metterlo in relazione a un altro mito narrato nelle Metamorfosi – poi mi viene da pensare a un quadro tardo, forse del 1560, di Tiziano, in cui Atteone appunto viene sbranato dai cani di Diana. Ma mi ricordo anche di come Giordano Bruno si serve negli Eroici Furori del medesimo mito per alludere alla impossibile ricerca dell’Infinito da parte del filosofo.
Davanti a questo quadro, che cosa vediamo? E perché poi il riferimento a Montjovet?
Solo macchie di colore, difficile quasi pensare che il quadro sia finito. Apoteosi di luce.
Ma è una visione indimenticabile. Sublime.
Per finire non credo affatto che Turner fosse un pittore classico o romantico, che inseguisse più di tanto narrazioni o significati.
Solo voleva dipingere quello che aveva visto.
Era un autentico realista, quello che aveva visto e che desiderava dipingere lo avevo veduto con altri occhi, quelli spirituali.
(Sergio Gandini)