Letture
Mente di principiante: quel che rimane di un grande insegnamento.
Parte seconda: Charlotte Joko Beck, niente di speciale Charlotte Joko Beck (1917 – 2011) si è avvicinata alla pratica Zen all’età di 40 anni, diventando allieva di Hakuyu Taizan Maezumi a Los Angeles, successivamente di Hakuun Yasutani e Soen Nakagawa. La Beck riceve la trasmissione del Dharma da Taizan Maezumi Roshi nel 1978, ma rompe i rapporti con il suo maestro e apre lo Zen Center a San Diego nel 1983, prestando servizio come insegnante principale fino a luglio 2006. Nel 1995 ha fondato la Ordinary Mind Zen School, una rete di centri Zen divenuta famosissima negli Stati Uniti. |
Mentre Shunryu Suzuki aveva avuto la grande intuizione di dover rendere lo Zen accessibile agli occidentali, spogliandolo delle sue strutture rigide sia teoriche che pratiche, Charlotte, americana, si avvicina allo Zen con la forma mentis dell’occidentale desiderosa di arrivare al cuore della pratica. Un’americana che insegna ad altri americani. Lo stile è molto simile a quello del grande maestro giapponese: ritiri e sedute calati nella vita quotidiana in cui ritagliarsi uno spazio, un’opportunità. Gli americani hanno una vita frenetica e lei insegna che lo Zen è stare dentro quella vita. Zen quotidiano. Amore e lavoro (Nothing special, living Zen – 1993) è il titolo di uno suo celeberrimo libro, nel quale l’autrice sintetizza l’antico principio ch’an del wushih (nulla di speciale), già presente nel suo primo scritto Niente di speciale. Vivere lo zen (Everyday Zen, love and work – 1989).
Il secondo grande pregio della Joko Beck è di aver realizzato un connubio molto caro agli americani ossia l’incontro della pratica meditativa con la psicologia. L’interesse notevole per la psicologia e le varie pratiche di psicoterapia, di cui gli americani sono fieri esploratori, non poteva non incrociarsi con questo nuovo filone di ricerca spirituale incentrato sulla conoscenza e perlustrazione della mente. Il filone, inaugurato negli anni ’80 - ‘90 di fine secolo scorso, ha poi trovato terreno fertile negli ultimi anni per cui è ormai davvero impossibile non rintracciare nei vari metodi di psicoterapia e nei diversi sistemi di approccio e cura di natura medico-sanitaria elementi di pratiche spirituali soprattutto di matrice Zen. Esempio emblematico: la Mindfulness-Based Stress Reduction del Dr. Jon Kabat-Zinn, un evidente e studiato adattamento terapeutico di principi del Buddhismo Zen.
La Joko Beck, maestra di Ezra Bayda (dal quale, in verità, ha poi preso le distanze), dunque, per un verso ci aiuta a vivere lo Zen nel quotidiano; per l’altro ci porta per mano nelle nostre psicosi, ossessioni, fissazioni, facendoci esplorare la mente e guidandoci verso la luce. Ma ci ricorda sempre che essere illuminati, in fondo, non è niente di speciale.
E’ impossibile sintetizzare in queste poche righe l’insegnamento di questa grande maestra occidentale. Qualche breve ma significativo passo potrà aiutarci a comprendere il taglio del suo metodo e spingerci ad una ricerca personale più approfondita. Fedele alla sua impostazione pragmatica, Charlotte chiarisce all’inizio di Zen quotidiano che cosa la pratica non è.
“Prima di tutto la pratica non mira a produrre un cambiamento psicologico: se pratichiamo con intelligenza, il cambiamento psicologico interverrà da sé”.
Osservazione eccezionale se si considera che alcuni grandi psicologi hanno rivoluzionato la dottrina psicoanalitica arrivando ad affermare che il paziente si guarisce da sé. Charlotte lo afferma da praticante Zen e ne fa la pietra angolare del suo insegnamento. Però chiarisce, specifica, con una onestà intellettuale di cui molti psicologi ibridi dovrebbero tener conto, che l’aspetto psicologico non è il fine della pratica.
“Non metto in discussione che si produca, anzi è meraviglioso; ma intendo mettere in chiaro che la trasformazione psicologica non è lo scopo della pratica”.
Diciamolo. Così come è bene precisare che non ci si avvicina alla pratica per risolvere stati psicopatologici. Anzi, chi sa di avere necessità di un lavoro psicoterapico farebbe bene a non avvicinarsi alla pratica se non dopo un percorso di cura.
“La pratica non è diretta ad ottenere stati di beatitudine. Non va in cerca di visioni o di luci bianche (o rosa o azzurre). Sono fenomeni possibili, e sedendo a lungo si produrranno, ma non rappresentano lo scopo della pratica”. “La pratica non mira ad acquisire o coltivare speciali poteri”.
La pratica, dunque, non è un tentativo di essere o diventare qualcosa di speciale o di provare particolari sensazioni.
Ovviamente, va detto anche cosa la pratica è. E nei suoi due libri Charlotte guida il praticante in un adagio che cresce pian piano alla scoperta di tutto il positivo che c’è. Non ci sono definizioni stereotipate, ma continui mezzi e strumenti attraverso i quali si comprende cosa la pratica fa, cosa genera, come ci trasforma, come ci riorienta. Ecco, davvero niente di speciale, ma un vivere quotidiano in un continuum di gesti, comportamenti, atti fondati su di una inscindibile interazione tra mente e corpo.
“La pratica dev’essere un interminabile processo di delusione. Dobbiamo vedere che qualunque cosa desideriamo, o otteniamo, alla fine ci delude. Tale scoperta è il nostro maestro (…) Alla fine diventiamo così intuitivi che prevediamo in anticipo la nostra prossima delusione, sappiamo che il prossimo sforzo per estinguere la sete fallirà come gli altri. La promessa non è mai mantenuta (…) Quando ce ne accorgiamo sempre più in fretta, la pratica sta dando i suoi frutti”.
“Etichettare i pensieri è la pratica preliminare. A livello fenomenico, essa rivela gran parte del nostro sé psicologico. Incominciamo a notare come restiamo incastrati nelle nostre simpatie e antipatie, nei pensieri abituali riguardo a noi stessi e alla vita. Questo lavoro preliminare è importante e necessario, ma non è il lavoro vero. Etichettare è il primo passo, ma finché non scopriremo cosa significa stare con l’esperienza non gusteremo i frutti della pratica (…) Grazie al processo dell’etichettare incominciamo a vedere che non abbiamo nessuna intenzione di abbandonare il nostro dramma psicologico personale: i nostri pensieri su noi stessi e sugli altri, le nostre reazioni a ciò che avviene. In realtà vogliamo passare il tempo in compagnia del nostro dramma personale, finché mesi di etichettatura non ne avranno rivelato la natura sterile (…) Ogni stato passato in questo sperimentare non dualistico trasforma la nostra vita (…) Possiamo formarci una comprensione più esatta dello sperimentare con la parola ascoltare. Invece di “ora farò questa esperienza” diciamo “ora ascolterò semplicemente le sensazioni fisiche”. Se ascolto davvero un dolore nella parte sinistra del corpo, c’è un elemento di curiosità. Che cos’è? (se non sono curioso, significa che sono immerso nei pensieri)”.
Per concludere, direi che con Charlotte la pratica diventa davvero calarsi il più capillarmente possibile nell’esperienza. Un’esperienza radicata nel corpo. La non dualità, così difficile da spiegare, si coglie attraverso il mio sentire nella carne, il mio stare dentro; perché se non sto dentro le sensazioni e le accompagno, sto nella mente, sto nella trappola dei pensieri. E allora, sono separato.
I due libri di Charlotte Joko Beck sono stati pubblicati in Italia dalla casa editrice Astrolabio Ubaldini:
Zen quotidiano. Amore e lavoro (1991);Niente di speciale. Vivere lo zen (1994)
© Annunziata Candida Fusco
Il secondo grande pregio della Joko Beck è di aver realizzato un connubio molto caro agli americani ossia l’incontro della pratica meditativa con la psicologia. L’interesse notevole per la psicologia e le varie pratiche di psicoterapia, di cui gli americani sono fieri esploratori, non poteva non incrociarsi con questo nuovo filone di ricerca spirituale incentrato sulla conoscenza e perlustrazione della mente. Il filone, inaugurato negli anni ’80 - ‘90 di fine secolo scorso, ha poi trovato terreno fertile negli ultimi anni per cui è ormai davvero impossibile non rintracciare nei vari metodi di psicoterapia e nei diversi sistemi di approccio e cura di natura medico-sanitaria elementi di pratiche spirituali soprattutto di matrice Zen. Esempio emblematico: la Mindfulness-Based Stress Reduction del Dr. Jon Kabat-Zinn, un evidente e studiato adattamento terapeutico di principi del Buddhismo Zen.
La Joko Beck, maestra di Ezra Bayda (dal quale, in verità, ha poi preso le distanze), dunque, per un verso ci aiuta a vivere lo Zen nel quotidiano; per l’altro ci porta per mano nelle nostre psicosi, ossessioni, fissazioni, facendoci esplorare la mente e guidandoci verso la luce. Ma ci ricorda sempre che essere illuminati, in fondo, non è niente di speciale.
E’ impossibile sintetizzare in queste poche righe l’insegnamento di questa grande maestra occidentale. Qualche breve ma significativo passo potrà aiutarci a comprendere il taglio del suo metodo e spingerci ad una ricerca personale più approfondita. Fedele alla sua impostazione pragmatica, Charlotte chiarisce all’inizio di Zen quotidiano che cosa la pratica non è.
“Prima di tutto la pratica non mira a produrre un cambiamento psicologico: se pratichiamo con intelligenza, il cambiamento psicologico interverrà da sé”.
Osservazione eccezionale se si considera che alcuni grandi psicologi hanno rivoluzionato la dottrina psicoanalitica arrivando ad affermare che il paziente si guarisce da sé. Charlotte lo afferma da praticante Zen e ne fa la pietra angolare del suo insegnamento. Però chiarisce, specifica, con una onestà intellettuale di cui molti psicologi ibridi dovrebbero tener conto, che l’aspetto psicologico non è il fine della pratica.
“Non metto in discussione che si produca, anzi è meraviglioso; ma intendo mettere in chiaro che la trasformazione psicologica non è lo scopo della pratica”.
Diciamolo. Così come è bene precisare che non ci si avvicina alla pratica per risolvere stati psicopatologici. Anzi, chi sa di avere necessità di un lavoro psicoterapico farebbe bene a non avvicinarsi alla pratica se non dopo un percorso di cura.
“La pratica non è diretta ad ottenere stati di beatitudine. Non va in cerca di visioni o di luci bianche (o rosa o azzurre). Sono fenomeni possibili, e sedendo a lungo si produrranno, ma non rappresentano lo scopo della pratica”. “La pratica non mira ad acquisire o coltivare speciali poteri”.
La pratica, dunque, non è un tentativo di essere o diventare qualcosa di speciale o di provare particolari sensazioni.
Ovviamente, va detto anche cosa la pratica è. E nei suoi due libri Charlotte guida il praticante in un adagio che cresce pian piano alla scoperta di tutto il positivo che c’è. Non ci sono definizioni stereotipate, ma continui mezzi e strumenti attraverso i quali si comprende cosa la pratica fa, cosa genera, come ci trasforma, come ci riorienta. Ecco, davvero niente di speciale, ma un vivere quotidiano in un continuum di gesti, comportamenti, atti fondati su di una inscindibile interazione tra mente e corpo.
“La pratica dev’essere un interminabile processo di delusione. Dobbiamo vedere che qualunque cosa desideriamo, o otteniamo, alla fine ci delude. Tale scoperta è il nostro maestro (…) Alla fine diventiamo così intuitivi che prevediamo in anticipo la nostra prossima delusione, sappiamo che il prossimo sforzo per estinguere la sete fallirà come gli altri. La promessa non è mai mantenuta (…) Quando ce ne accorgiamo sempre più in fretta, la pratica sta dando i suoi frutti”.
“Etichettare i pensieri è la pratica preliminare. A livello fenomenico, essa rivela gran parte del nostro sé psicologico. Incominciamo a notare come restiamo incastrati nelle nostre simpatie e antipatie, nei pensieri abituali riguardo a noi stessi e alla vita. Questo lavoro preliminare è importante e necessario, ma non è il lavoro vero. Etichettare è il primo passo, ma finché non scopriremo cosa significa stare con l’esperienza non gusteremo i frutti della pratica (…) Grazie al processo dell’etichettare incominciamo a vedere che non abbiamo nessuna intenzione di abbandonare il nostro dramma psicologico personale: i nostri pensieri su noi stessi e sugli altri, le nostre reazioni a ciò che avviene. In realtà vogliamo passare il tempo in compagnia del nostro dramma personale, finché mesi di etichettatura non ne avranno rivelato la natura sterile (…) Ogni stato passato in questo sperimentare non dualistico trasforma la nostra vita (…) Possiamo formarci una comprensione più esatta dello sperimentare con la parola ascoltare. Invece di “ora farò questa esperienza” diciamo “ora ascolterò semplicemente le sensazioni fisiche”. Se ascolto davvero un dolore nella parte sinistra del corpo, c’è un elemento di curiosità. Che cos’è? (se non sono curioso, significa che sono immerso nei pensieri)”.
Per concludere, direi che con Charlotte la pratica diventa davvero calarsi il più capillarmente possibile nell’esperienza. Un’esperienza radicata nel corpo. La non dualità, così difficile da spiegare, si coglie attraverso il mio sentire nella carne, il mio stare dentro; perché se non sto dentro le sensazioni e le accompagno, sto nella mente, sto nella trappola dei pensieri. E allora, sono separato.
I due libri di Charlotte Joko Beck sono stati pubblicati in Italia dalla casa editrice Astrolabio Ubaldini:
Zen quotidiano. Amore e lavoro (1991);Niente di speciale. Vivere lo zen (1994)
© Annunziata Candida Fusco